BOLOGNA ǀ NELLO STUDIO DI PAOLO MIGLIAZZA
di MATTIA LAPPERIER
Lo studio nasce, cresce e si sviluppa di pari passo con l’artista. Ne riflette la personalità nel modo più autentico. È testimone silenzioso delle sperimentazioni più ardite, del perfezionamento di tecniche affinate negli anni e custodite gelosamente. È anche il luogo delle infinite prove, delle notti insonni, delle cocenti insoddisfazioni, che tuttavia possono sfociare talvolta in successi inaspettati. #TheVisit ha lo scopo di aprire le porte a tali realtà per loro stessa natura poco accessibili, con il proposito di far luce sulla peculiare relazione che lega l’artista allo studio.
Dal 2020 Paolo Migliazza ha collocato lo studio nella sua sede attuale: uno stanzone rettangolare, al piano terra di un edificio situato nella periferia sud orientale di Bologna. Già a prima vista si presenta come un luogo del fare; uno studio-laboratorio interamente ricoperto da uno spesso strato di polvere, sovraccarico di materiali, strumenti e sculture ultimate o ancora in fase di realizzazione. Migliazza ha un approccio estremamente fisico al proprio lavoro. In molti casi ricorre allo scavo diretto per mezzo della smerigliatrice, anche su più opere contemporaneamente. Vive lo studio in modo totalizzante, compiendo in loco ogni fase in cui si articola il processo, ovviamente escludendo le fusioni, per le quali si appoggia all’Accademia di Belle Arti di Bologna o a fonderie specializzate.
Tra i molti materiali di lavoro, disseminati qua e là, appesi alle pareti ci sono appunti tecnici, schizzi o disegni appena abbozzati. Sebbene non sussista una corrispondenza diretta tra disegno e scultura, tali note visive sono anch’esse funzionali all’ottenimento del risultato finale, pertanto non è scorretto sostenere che siano riconducibili al suo metodo operativo, inteso nel suo complesso. Ci si potrebbe spingere oltre. Varcando la soglia dello studio di Migliazza, l’impressione è infatti di trovarsi nel bel mezzo del suo processo creativo; ovunque se ne percepiscono le tracce, anche in momenti di completa inattività. I materiali cambiano continuamente forma e posizione, risucchiati da una pratica artistica deflagrante e del tutto asistematica. Persino le casseforme, da involucri atti ad accogliere il cemento allo stato fluido, all’occorrenza diventano contenitori per ulteriori materiali o anche cornici per sculture. Ininterrotto è pertanto lo slittamento semantico tra strumento funzionale allo scopo ed elemento inteso quale parte costitutiva dell’opera d’arte.
Dal punto di vista dell’esecuzione materiale, in tutti i casi, l’artista plasma un modello in creta. Successivamente quest’ultimo viene calcato, così da ottenere il risultato finale in gesso, cemento o terra refrattaria. In un secondo momento, interviene pittoricamente sulla superficie scultorea, talvolta anche ricorrendo alla cera o al carbone, per enfatizzare le qualità tattili e luministiche della figura. Di tanto in tanto, sceglie di non calcare alcuni modelli, preferendo invece che restino in studio, dove può tenerli costantemente sott’occhio. In altre parole, l’artista lascia che la scultura viva indipendentemente dalla sua volontà e che in studio, ricoprendosi di polvere, essa funga da prototipo inconscio per i lavori futuri.
Tra i molti riferimenti di Migliazza si possono menzionare Antony Gormley – in particolare per l’esplorazione del rapporto tra il corpo umano e lo spazio circostante – così come gli scultori bohémien appartenuti al movimento della Scapigliatura milanese che, negli anni Sessanta dell’Ottocento, sfidavano la società borghese, attraverso l’adozione di un linguaggio anticonvenzionale e un approccio crudo alla realtà. La ricerca di espressività e di movimento, nonché l’attenzione agli aspetti minuti del quotidiano, consentono invece di ascrivere l’opera di Migliazza al solco tracciato dalla cosiddetta scultura impressionista che, da Medardo Rosso a Rembrandt Bugatti, sopravvive sino ai giorni nostri.

Paolo Migliazza, Head, 2025, tecnica mista, 70x30x20 cm, ph. Rosa Lacavalla
Migliazza non esegue ritratti. Una volta rintracciate fotografie o immagini, con modalità per lo più casuali, è solito accumularle per poi metterle da parte e lavorare esclusivamente di immaginazione. Per questo motivo le sue sculture, dagli occhi infossati e l’espressione grave, tendono ad assomigliarsi tra loro, almeno dal punto di vista della fisionomia. Se considerate nel loro complesso, si configurano come una persistente indagine sull’età evolutiva. Il bambino è in procinto di scoprire il mondo, la sua è una vita in potenza; per l’artista rappresenta una sorta di tela bianca da cui partire. Le espressioni dei volti e gli atteggiamenti corporei delle sue figure comunicano dolcezza, delicatezza e imbarazzo, talvolta assumono un aspetto selvatico, quasi ferino. Notoriamente l’infanzia è quella fase della vita in cui si può essere ancora tutto. L’essere umano a quell’età è vacillante nella sua essenza, la sua personalità è in via di definizione, le possibilità ancora potenzialmente infinite. Migliazza attribuisce a tale condizione esistenziale un valore intrinseco che con il passare del tempo e il progressivo strutturarsi della vita adulta irrimediabilmente viene meno.

Particolare di Paolo Migliazza al lavoro in studio, ph. Rosa Lacavalla
I corpi frammentari dei fanciulli, la loro magrezza accentuata, lo sguardo svuotato e le pose instabili rimandano a terribili scenari di guerra, di cui i bambini sono tragicamente le vittime più innocenti. Un diffuso senso di desolante incompiutezza permea tali figure; l’artista desidera che sia l’osservatore ad aggiungere ciò che ad esse manca, nell’ottica di favorire un suo coinvolgimento attivo e una conseguente partecipazione emotiva.

Paolo Migliazza, We are not super Heroes, 2017, carbone, cera, pigmento, 70x30x20 cm, ph. Rosa Lacavalla
Fintanto che permangono in studio, le sculture di Migliazza sono “vive” perché parte di un tutto, inevitabilmente più ampio e significativo della mera somma delle parti. Dal momento in cui vi escono, prendono le distanze anche dal processo creativo. Affrancandosi da esso, divengono autonome e pronte a muoversi nel mondo in modo autosufficiente. I molti lavori non finiti, dall’aspetto marcatamente frammentario e quasi tragico, uniti a quelli portati a compimento, dalle analoghe caratteristiche ma condotte al limite, suggeriscono un approccio alla scultura che privilegi il procedimento sull’esito. Così come l’adolescenza incarna il – talvolta tormentato – passaggio alla vita adulta, allo stesso modo la scultura in studio è sottoposta a processi trasformativi che non sempre dipendono dall’intervento dell’artista. Sotto la polvere, che si deposita sulla superficie variandola e arricchendola, la materia ancora palpita.

Ritratto di Paolo Migliazza al lavoro in studio, ph. Rosa Lacavalla
Paolo Migliazza (Catanzaro, 1988) dopo gli studi presso il Liceo Artistico Statale si trasferisce a Bologna, dove si iscrive all’Accademia di Belle Arti. Nel 2015 si laurea in scultura con una tesi sull’evoluzione della figura nell’ambito del linguaggio plastico del secolo scorso. Dal 2016 collabora con la galleria L’Ariete Arte Contemporanea di Bologna, presso la quale presenta una personale dal titolo “we are not super heroes”. Da allora ha preso parte a fiere italiane ed europee tra cui: Arte Fiera a Bologna, Art Verona e Art Karlshrue in Germania. Nel 2016 è finalista al premio nazionale Francesco Fabbri e nel 2023 si aggiudica il primo premio del prestigioso Concorso San Fedele di Milano. Partecipa a diverse residenze internazionali, tra cui BoCs art, a cura di Alberto Dambruoso. Il suo lavoro appare su diverse riviste specializzate tra le quali Segno, Exibart, Espoarte. La Rai dedica alla sua ricerca uno speciale su Rai Cultura, curato da Cristina Clausen. Nel corso degli anni hanno scritto del suo lavoro Alberto Mattia Martini, Kevin Mcmanus, Gabriele Salvaterra, Martina Cavallarin ed Eleonora Frattarolo. Molte sue opere inoltre sono presenti in collezioni pubbliche e private. Attualmente collabora con la Galleria Giovanni Bonelli di Milano.