LONDRA | Sadler’s Wells theatre
di ELENA DOLCINI
“Più la nostra vita quotidiana appare standardizzata, stereotipata e soggetta a una riproduzione accelerata di oggetti di consumo, più l’arte deve essere iniettata al suo interno per estrarne quella piccola differenza che gioca simultaneamente tra altri livelli di ripetizione, persino per far risuonare i due estremi: cioè, le serie abituali di consumo e le serie istintive di distruzione e morte…” – Differenza e Ripetizione, Gilles Deleuze
Grandioso, ciclico e complesso. Uno spettacolo catartico, quasi trascendente pur essendo comicamente umano.
Mercoledì 6 giugno (Sadler’s Wells theatre), Viktor di Pina Bausch ha, senza ombra di dubbio, impresso un indelebile ricordo nella memoria di una devota ed estasiata platea. Tre ore di spettacolo che sono quasi una maratona, mai soporifera però. Lo spettatore è sempre attento, vuoi perché saltuariamente interpellato dal cast, dal ragazzo venditore di cartoline per esempio, vuoi perché gli si chiede di interrogare la sua libertà. Di ridere, di piangere, di impigrirsi in una pericolosa apatia.
Ancora una volta quello che è stato il genio pluri-performativo di Pina Bausch ci delizia con la messa in scena di una grandiosa “segavecchia”, per usare una visione felliniana: quella di Viktor è una festa paesana, una corale educazione sentimentale di uomini e donne, tutti eccentrici personaggi intrappolati nella loro tragi-comicità. Viktor, spettacolo prodotto con il romano Teatro Argentina nel 1986 e parte ora di World Cities 2012 – dieci spettacoli ispirati da dieci diverse città – è un vero e proprio omaggio al Bel Paese, alle sue eleganti bellezze così come alle sue ridicole assurdità.
C’è un’enigmatica figura coperta da un lungo velo nero che va girando per tutto il palco, a metà strada tra una prefica di demartiniana memoria e Tiresia, il mitico indovino reso cieco dall’ira furiosa di Era.
Ci sono le folkloristiche processioni di donne che piangono il defunto, capelli sciolti e drammatica gestualità. Mani e braccia descrivono cerchi, linee in spasmodici e sincopati movimenti. Tutte convulsioni dal potere straniante, se si considera la completa staticità del resto del corpo.
Il nome Viktor è fatto solo all’inizio dello spettacolo: si presenta al pubblico ma è invisibile, o meglio, uno spirito che si è impossessato della ballerina in scena. È lei infatti che gli dà voce, aprendo e chiudendo la bocca. La ripetizione la fa da padrona ancora una volta, dichiarandosi cifra essenziale di tutta l’opera di Pina Bausch. Ma non è statica riproduzione dell’uguale, è la sua critica messa in scena per dimostrare la sottile e profonda differenza implicita in ogni movimento e atteggiamento ripetuto ancora una volta. Eraclito si riferiva al non poter mai scendere lo stesso fiume due volte, Deleuze preferisce parlare di differenza e ripetizione, complementari dispositivi umani a disposizione di un’ermeneutica della “trasgressione ed eccezione”.
Ciò che sembra ripetersi è quindi solo un’illusione ottica: le potenti urla che ciclicamente fanno sobbalzare lo spettatore, il sensuale abbraccio di due ballerini provvisoriamente riuniti, il comico tentativo di un ragazzo alle prese con l’allacciare “una volta per tutte” la femminile spallina di un vestito audacemente scollato sono continuamente attualizzati, come un invito per lo spettatore ad andare a caccia dell’elemento sempre costante e sempre originale.
Viktor è un omaggio agli elementi primari: acqua, fuoco per esempio e una terra che è ripetutamente gettata sulla scena da un’altura al margine del palcoscenico.
Pina Bausch lavorò con Fellini in “E la nave Va”, film del 1984 per cui interpretò la principessa Lherimia.
Contagiosa per la coreografa tedesca è stata sicuramente la sensibilità a tratti surreale del regista romagnolo e la sua eccezionale abilità nell’orchestrare racconti di personalità eccentriche, consapevoli delle loro paranoie maniacali, ma senza successo nel cambiare atteggiamento. Sarebbe interessante avventurarsi in uno studio comparato delle due opere, uno sguardo ad Amarcord e a Viktor attraverso un discorso critico che metta in evidenza l’originalità di entrambe.
A darci il benvenuto sulla scena della Bausch è un’intrigante signora in rosso (braccia nascoste dietro la schiena), la stessa della fine. Una Gradisca postmoderna, estatica, sorridente ma lontana, con lo sguardo perso nel vuoto.
Lo stesso atteggiamento affamato e voluttuoso di Volpina lo ritroviamo nella ballerina in cerca di un gatto, da mangiare perché “grasso e succoso”… “grasso e succoso”. C’è “il signorino” che va in giro in pantaloncini corti e fascia tra i capelli imbrillantinati, personaggio che naturalmente ricorda “il fratello della Miranda”, lo zio che ancora vive in casa, senza un soldo, senza un lavoro.
Tutto Borgo, il villaggio felliniano, in venerazione impaziente, aspetta il transatlantico italiano Rex che è l’orgoglio del paese. Così come gli eccentrici personaggi di Viktor partecipano deliranti a un’asta compulsiva, dove tutto è messo in vendita, anche due Fox Terrier.
L’opera di Pina Bausch è per così dire auto-critica: nel suo costante ripetersi esibisce un’originalità inconfondibile. Il tempo la metta alla prova e lei ne esce vittoriosa. Unica e ammirabile è la sua estetica che non perde eleganza nemmeno tra grida angosciate e capelli scompigliati che coprono il volto. L’eredità della drammaturga tedesca è preziosa e da mantenere in vita attraverso un lavoro di ricostruzione storica e di “contemporaneizzazione”: a ben guardare non siamo a corto né di fantasie surreali, né di rabbia o tremende angosce.
Il tutto però sorretto dal tenace desiderio di restare in scena. Sempre, o meglio, il più possibile.
Tanztheater Wuppertal Pina Bausch: World Cities 2012
Sadler’s Wells
Rosebery Avenue, Londra
6 giugno – 9 luglio 2012
Info: Sadler’s Wells 0844 412 4300 – www.sadlerswells.com
Barbican 0845 120 7511 – www.barbican.org.uk