FANTISCRITTI (MS) | NELLO STUDIO DI FILIPPO TINCOLINI
di ALICE BARONTINI
Lo incontriamo a Fantiscritti, nel suo studio-laboratorio ai piedi delle cave di marmo di Carrara, dove bracci meccanici di robot e sofisticati scanner 3D coesistono sorprendentemente con lime, scalpelli e miriadi di utensili tradizionali. Qui, in un ambiente dal sapore stranamente metafisico, Filippo Tincolini, classe 1976, realizza le sue sculture in marmo bianco. Sono opere simboliche e a tratti surreali, perfettamente levigate e curate nei dettagli, raffinatissime nei giochi di luce e nella loro capacità di omogeneizzare in un’unica soluzione diversi ingredienti, perfettamente calibrati.
Coesiste molto, del resto, nell’arte di Tincolini: cultura alta e cultura pop, riferimenti contemporanei al mondo del consumismo e citazioni antiche estrapolate dalla storia dell’arte e della mitologia, ready made prelevati dalla banalità del quotidiano e una dimensione spirituale spontaneamente insita nel marmo. E poi gioco e denuncia, reale e surreale, immediatezza visiva e profondità concettuale. L’artista attinge da un vastissimo repertorio di immagini, dalla “cultura visuale fluida” tipica dei nostri tempi e si diverte a citare, contaminare, ibridare gli ambiti per poi riprogrammare e remixare il tutto a modo suo, dando vita a nuove narrazioni, che si intersecano e confondono presente, passato e futuro.
Succede così che nella serie Ancient Gods il busto di un supereroe della tv incontri la mitologia e si trasformi in una sorta di vestigia del futuro. O che nel ciclo Flowered Soul, il casco spaziale di un astronauta iper tecnologico sbocci in un bouquet di rose, simile a un fregio classicheggiante. Nella serie Swaddle, ricca di citazioni e riferimenti alla storia dell’arte, i corpi e i volti di antiche Veneri sono avvolti enigmaticamente tra corde e candidi bendaggi (simbolo di cura o di costrizione?) mentre in Dystopian Animals frame di film cult sono scolpiti nel bianco del marmo statuario diventando monumento contemporaneo.
Così, seduti tra le opere – alcune finite, altre ancora da terminare – parliamo con Tincolini di scultura, tradizione, tecnologia… Ma anche degli ultimi progetti che lo vedono in questi giorni protagonista di una mostra a Capri in collaborazione con Liquid Art System (fino al 30 ottobre l’installazione in piazzetta) e della prossima esposizione dal titolo Human Connections, in programma da febbraio 2025 a Pietrasanta, tra piazze e gli antichi spazi del Complesso di Sant’Agostino.
Filippo, la tua è una formazione da manuale: liceo artistico, Accademia di Belle Arti, tanta gavetta nei laboratori. Un sapere classico che hai saputo connettere con un approccio altamente sperimentale, mettendo in sinergia tradizione e tecnologia. Ci racconti il percorso che ti ha portato fino a qui?
La scintilla è nata ai tempi del liceo, quando ho incontrato un artista lucchese che mi ha iniziato alla lavorazione dei materiali canonici: ceramica, legno, oro, bronzo, marmo… Conoscevo il suo stile e quindi mi mandava a Pietrasanta a rifinire i suoi bronzi, nelle fonderie. È stata in quest’occasione che ho scoperto anche i laboratori del marmo. Era l’estate in cui dovevo iscrivermi all’Accademia, dovevo scegliere tra Firenze e Carrara: alla fine, decisi per Scultura, a Carrara. A Carrara ho trovato una città con un battito, ma non ti nascondo che era un battito sottopelle rispetto a come me lo aspettavo, alle mie attese. Finita l’Accademia poi c’era da inventarsi un mestiere. Così ho aperto un laboratorio e col tempo mi sono avvicinato al mondo della robotica applicata alla scultura (ndr si tratta, in sostanza, di bracci meccanici antropomorfi che lavorano sotto input di software sofisticati, impostati dall’artista). Ho collaborato con artisti internazionali anche molto importanti e nel contempo ho continuato la mia ricerca personale. Negli ultimi anni quella necessità di fare scultura mia e di farla uscire è riemersa prepotentemente.
Ricordo una delle tue prime opere: un muro di bidoni di petrolio in marmo bianco, che hai esposto in occasione della XII Biennale di Scultura di Carrara, nel 2008.
Sì, Black Gold, una grande installazione di sculture in marmo che rappresenta nove barili di petrolio vuoti. Pensa che è un progetto del 2000 realizzato nel 2008. Alcuni dei miei lavori affondano le loro radici anche molti anni prima della loro effettiva realizzazione. Alcune opere è come se restassero ibernate, aspettando il tempo giusto per essere realizzate.
Prima hai citato l’uso della robotica applicata alla scultura. Tu sei stato un pioniere in questo. Che cos’è per te la tecnologia?
La tecnologia per me è semplicemente una tappa, uno strumento come un altro, un vantaggio che ti porta alla fase più ludica della scultura. Nel mio percorso ho vissuto un po’ tutte le fasi della scultura: da quelle fatte a mano fino alle opere create mediante l’uso di tecnologia. Credo che questi due mondi – tradizione e innovazione – siano imprescindibili l’uno dall’altro. Per realizzare sculture in marmo con la robotica devi avere una conoscenza della scultura tradizionale, custodire il sapere relativo al materiale, alle tecniche. Senza una precisa intenzione e un buon grado di consapevolezza non si va da nessuna parte.
Ci racconti come nascono le tue sculture, dalla fase progettuale a quella di realizzazione?
L’idea in generale mi arriva riflettendo su un oggetto. Di solito sto facendo altro, vedo un’immagine e quella inizia a trasformarsi nella mia testa. Ormai è qualcosa che è dentro di me, che fa parte del mio modo di pensare: tutto quello che mi sta attorno lo solidifico mentalmente, lo vedo fasciato, me l’immagino colorato, lo costello di fiori che sbocciano… Dopo l’idea iniziale però, la mia scultura ha bisogno di altro tempo, di logistica, di preparazione. Penso molto le mie sculture: le imbastisco, faccio ricerche per dar loro tutta la forza che mi serve, lavoro sui contrasti, sulle ombre, sui pieni, sui vuoti. Poi scelgo la modalità tecnica che può garantirmi il miglior risultato che ho in testa. Posso partire da un modello in argilla come sto facendo in questo momento per dei lavori ispirati al Ratto di Proserpina, oppure – come è successo per lo Spaceman, che è nato durante il lockdown – lavorando direttamente con il digitale. Ultimamente sto sperimentando la fusione di queste due tecniche: cioè parto da un file digitale, lo stampo e vi intervengo sopra con la materia. Poi faccio la scansione e vado alla tappa di fresatura con il robot. Dopo la fresatura avanzata, che libera la scultura ma non arriva alla creazione dei dettagli, passo alla fase fondamentale – per me la più importante – della finitura a mano. Consiste nel labor limae manuale con cui rendo i dettagli, la pelle della scultura, infondo luce. Perché il marmo è materia viva: più lo lavori, più gli presti attenzioni e più lui si illumina, fa scivolare la luce sui corpi. È come se riuscisse a espandere quell’energia che tu stesso gli hai donato.
Guardando alla tua produzione artistica, il marmo è stato finora un po’ una costante delle tue opere. Che rapporto hai con questa materia?
Il marmo è il materiale che prediligo, in particolare lo statuario Michelangelo, con pochissime venature e una grana molto fine: mi permette di definire i dettagli, gli angoli, gli spigoli vivi in maniera molto precisa mantenendo, allo stesso tempo, una resistenza strutturale molto alta. Il marmo mi affascina perché è un pezzo di questo mondo, del suolo che calpestiamo: è carbonato di calcio, è inerte. Ha una luminosità e un fascino magico: ha raccontato gli sfarzi e la decadenza del passato. Sinceramente non so come potrei declinare certi miei lavori in altri materiali.
A tal proposito mi viene in mente una delle tue ultime opere, la Venere di Sassi del 2023, che lascia dialogare marmo e cemento.
L’idea a livello estetico è nata qui, sulle Alpi Apuane, dalla visione dei pattern dei muretti a secco che i vecchi cavatori costruivano lungo le vie di arroccamento. Ho creato queste sculture usando i residui della lavorazione del marmo. Mi piaceva l’idea di dare nuova vita a scarti di blocco, plasmandoli e creando un nuovo volume solido partendo dal processo inverso rispetto a quando si fa scultura in marmo, cioè aggiungendo e non togliendo. In più è un modo per sensibilizzare all’idea del riuso degli scarti di marmo non solo per scopi industriali ma anche per fini artistici. Per questo progetto poi abbiamo coinvolto i ragazzi dell’Anffas di Carrara e Pietrasanta che hanno partecipato a tutte le fasi di realizzazione. Questo lavoro fatto insieme sarà inserito come progetto speciale nella mostra diffusa che a febbraio allestirò a Pietrasanta.
Una cosa che trovo particolarmente interessante è che utilizzi un solo linguaggio – quello scultoreo – ma lo trasformi in un grande contenitore per racchiudere sotto forma di unica soluzione citazioni prese da diversi linguaggi, media e periodi. Nelle tue opere fai entrare cinema e design, fotografia e tv, supereroi e mitologia, ready made e scultura antica…
È proprio quello che mi interessa e mi diverte. Mettere insieme classicità, contemporaneità, futuro ma anche mischiare e dosare in formule diverse poli lontani come la natura e la tecnologia, la cultura alta e la cultura pop…Il tutto per dare vita a opere che creano una presenza fisica, che occupano uno spazio, che fanno pensare. Opere che sono un po’ delle chimere, sembrano quasi mutazioni genetiche. Si offrono allo spettatore che può relazionarsi ad esse mettendo molto della sua emotività.
In questo senso mi pare che ironia e una certa dose di ambiguità siano cifre distintive dei tuoi lavori. Nelle tue opere suggerisci una molteplicità di punti di vista, una serie di possibilità di lettura.
Mi piace l’idea di non fissare l’opera su un’unica lettura ma di offrire allo sguardo degli spettatori molteplici livelli di narrazione, mondi paralleli. Un po’ come nel multiverso, a cui spesso mi ispiro.
Parlaci del tuo Spaceman, una figura centrale della tua produzione artistica.
Il primo Spaceman che ho realizzato è stato in marmo, in pieno lockdown. Vedevo la natura che riconquistava gli spazi sottratti dall’uomo e, nel contempo, l’uomo che si affatica ancora oggi a scoprire altri pianeti. Volevo rendere l’idea di un essere che ha la vita dentro di sé e sente la necessità di cercarla altrove. Mi piaceva esprimere questa dualità, questo contrasto: il desiderio di esplorare l’ignoto e, allo stesso tempo, il richiamo delle proprie radici, la tecnologia e la natura.
Oggi il tuo astronauta ha conquistato lo spazio (pubblico) e per la prima volta hai usato un materiale non convenzionale per te: la resina, coloratissima per accentuare l’effetto pop. Il tuo astronauta scintillante è posizionato al centro dell’iconica piazzetta di Capri e mette lo spettatore di fronte a uno specchio, in cui può vedere riflesso sé stesso e l’ambiente circostante. L’opera gioca proprio su questo coinvolgimento: nella relazione che si crea tra scultura-spettatore-contesto.
La resina è stata una scelta dettata dal contesto: lo Spaceman inizialmente in marmo è diventato Shiny. Del resto, andare a Capri è come approdare su un territorio alieno, diverso, tanto bello quanto impervio. Un marmo così grande a Capri non avrei potuto installarlo, né trasportarlo e, al di là di questo, mi affascinava l’idea di provocare un effetto magnetico, un bagliore, stabilendo al tempo stesso un rapporto diretto con lo spettatore che diventa parte del tutto e in un certo senso attiva lui stesso l’opera. Di fronte a questo panorama incredibile il passante si trova una scultura di 4 metri e mezzo con i colori fluo e con dentro il riflesso suo e di tutto ciò che gli sta attorno. Per rendere questa sensazione più immersiva ho usato il colore del mare di Capri, quindi qualcosa che fa parte del territorio. La percezione è quella di una forte presenza, come se sull’isola fosse atterrato un gigante. Come dice il titolo, l’operazione è tutta un gioco di opposti, misura e fuori misura. Nello specchiarsi e nello specchiare poi ci sono tantissimi significati, filosofici, estetici, concettuali, emotivi… Ma mi piace che ciascuno li interpreti personalmente e liberamente, secondo la sua sensibilità.