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Verona | Studio la Città | fino al 16 novembre 2019

Intervista a LUCIO POZZI di Matteo Galbiati*

Lucio Pozzi. Ph. © Enrico Angotzi 2017

In occasione della sua personale Scatter Painting, con cui la galleria Studio la Città di Verona ha inaugurato la stagione espositiva autunnale, abbiamo incontrato Lucio Pozzi (1935) che ci ha dato modo di approfondire la sua storia, il suo linguaggio e la sua ricerca. Un’occasione preziosa e importante per comprendere la poetica di un intellettuale “fuori dagli schemi e dalle convenzioni”:

La sua vita si divide tra Italia e Stati Uniti, cosa le hanno dato questi due Paesi? Ci riassume brevemente la sua storia?
L’Italia è la radice. Pur essendo stato uno studente mediocre ero attratto dalla cultura umanistica laica. Da adolescente, nella rivista Il Mondo mi piacevano le prose succinte e chiare di scrittori come Leo Valiani. Andavo per conto mio a vedere Brecht rappresentato dal Piccolo Teatro di Strehler. Leggevo i romanzi americani. Suonavo dischi di musica rinascimentale, jazz, indiana e iraniana. In pittura ero preso da Morandi e Sironi che vedevo alla Galleria del Milione dove esponeva il mio maestro e patrigno Michael Noble. Mi iscrissi alla facoltà di architettura di Roma, ma non ero capace di adattarmi agli studi. Feci amicizia con dei seguaci del laureando Manfredo Tafuri e scoprii che era importante per me pensare alla pittura nel contesto di tutti i fattori che la circondano, non più come un universo di oggetti isolati. Il discorso d’arte italiano, però, mi sembrava soffocato da una eccessiva dipendenza dalla memoria storica. Il passato si rifletteva perfino in categorie e regole tradotte in avanguardismi rigidi.
A Roma avevo sentito un vento diverso in alcuni pochi esempi di pittura americana. Alla Galleria Trastevere, che esponeva le mie opere, incontrai artisti inglesi e americani che come me facevano pittura riduttiva, semplificata.
Cercai a New York la freschezza che mi mancava a Roma. New York non è gli Stati Uniti, è una cultura a sé che ha influenzato il mondo dell’arte contemporanea fino ad oggi, nel bene e nel male. Lì ho trovato quello che per me allora diventò un senso concreto della pittura, insieme ad un serio rispetto per le sue condizioni nel nunc presente. I pittori di allora mi sembravano coinvolti in un impegno totale indipendente dalle teorie. Più tardi scoprii però una contraddizione: molta della freschezza della cultura americana si fonda sull’amnesia, a volte calcolata e quindi non indipendente come sembra.
Mi ritrovo ora su una zattera all’esatta metà dell’oceano Atlantico.

Lucio Pozzi. Scatter Painting, 2019, veduta dell’installazione.
Ph. Michele Alberto Sereni, Studio la Città – Verona

Negli Stati Uniti arriva nel 1962: sono gli anni del Concettuale, di Rothko, della Pop Art… Cosa ha influenzato il suo percorso? Quali sono state le sue fonti di ispirazione e/o i suoi modelli?
All’inizio fui affascinato da Ellsworth Kelly e da Mark Rothko. Ma poi correvo dappertutto per conoscere e per confrontarmi. Nel Lower East Side, dove avevo trovato un loft per vivere e dipingere, ci si conosceva tutti e non c’era concorrenza fra idee apparentemente opposte. Se in un’artista o un artista c’era impegno creativo sincero, c’era rispetto per l’altro. Erano passati i tempi delle baruffe “macho” degli astratti espressionisti al Cedar Bar. Incontrai brevemente artisti come Nam June Paik e Jim Dine, Al Hansen e Joseph Kosuth, che però era dogmatico. Mi divertiva opporgli la validità della pittura da lui negata in modo totale.
Pian piano incominciai ad avvicinarmi ai pittori un po’ più anziani di me o della mia età, ma erano diventati un club chiuso, sulla difensiva. Sentivo che i non-pittori seguivano una dialettica che si poteva applicare alla pittura con risultati più intensi rispetto al seguire i canoni prettamente pittorici correnti. Ricevevo anche più energia quando andavo al Five Spot Café, ogni notte dopo mezzanotte dopo una giornata di lavoro, ad ascoltare Charles Mingus e Thelonious Monk.

Lucio Pozzi, #190501 The Marriage of Order and Chaos, 2013, acrilico su tela, cm 230x190x5. Ph. Michele Alberto Sereni, Studio la Città – Verona

Nel 1978 il MoMA di New York le dedica una personale: cosa ha rappresentato per lei? Da quel momento come muta la sua carriera newyorkese e non solo?
Il Dipartimento video del MoMA era allora la cenerentola del museo. La mia personale di video nella serie Projects Video, fu uno degli effetti della mia prima mostra alla John Weber Gallery, che si componeva di quattro parti. 1) Due piccoli dittici di pittura, installati a specchio uno dell’altro nella grande stanza vuota – in essi la sensibilità della mano era sottilmente esplicita ma si combinava anche con l’attenzione alla loro posizione nel sito. Da allora dico che pittura non è un quadro appeso al muro ma un muro attivato dal quadro. 2) Una serie di pannelli di carta fotografica brada, non fissata, organizzata in modo che aggiungendo ogni giorno un solo pannello, la traccia del tempo e della luce incidevano sulla loro cromia. 3) Un’opera dittico video nella quale in due schermi discuto faccia a faccia con me stesso di cucinare pesce azzurro con pomodori rossi, limone giallo e prezzemolo verde. 4) Il ciclostile del Gioco dell’Inventario, il mio schema fondamentale di ars combinatoria, chiave di tutta la mia arte. Da allora la mia carriera diviene controversa.

È stato docente in prestigiose istituzioni statunitensi: quanto è stata importante la sua intensa attività di insegnamento? Come ha influenzato la sua visione dell’arte il contatto costante con i giovani studenti?
Non ho niente da insegnare, ma descrivo quello che osservo e poi faccio domande. I miei studenti vanno dai 20 ai 60 anni circa. Questo metodo di osservazione, dialogo e quesiti mi permette di scoprire il mio sguardo mentre nel contempo rende anche lo studente consapevole di fattori che sovente gli erano sfuggiti. Non insegnerei se non imparassi facendolo. L’insegnamento è stato cruciale per me. È nell’ambito dello scambio socratico nella scuola d’arte che ho appreso concetti che considero la linfa della creatività: l’attenzione, la curiosità dinamica, mai dare nulla per scontato, il dubbio, l’incertezza, l’inconcludenza strategica. Il secolo XX ha cercato fin troppe soluzioni finali.

Lucio Pozzi. Scatter Painting, 2019, veduta dell’installazione.
Ph. Michele Alberto Sereni, Studio la Città – Verona

Come possiamo riassumere la sua ricerca? Quali serie ne definiscono il campo d’azione? Quali tecniche? Lei ha sempre cercato di “depistare” ogni attesa, esponendosi sempre con linguaggi diversi… Dove vuole condurre il pubblico?
La mia ricerca è davvero una ricerca ma non ha scopo come si pensa debba avere una ricerca. Con il telescopio del tempo si riconosceranno nella mia arte gli inevitabili nessi della sensibilità personale, della mia epoca, della cultura nella quale vivo, ma queste sono caratteristiche che io non conosco. Si può paragonare la mia impresa con un pianoforte immaginario: la mia tastiera è in costruzione e in continua espansione. Posso far musica suonando una sola nota o mille. Non desidero riassumere né definire il mio campo d’azione. Il territorio si forma mentre cresce.
Da un lato ho bisogno di svuotarmi ogni volta che mi metto all’opera, dall’altro mi aggrappo agli ingredienti, i materiali, le idee, i processi, che possono concretizzare l’azione. Desidero non sapere come va a finire. La tensione verso l’irraggiungibile è la forza che mi spinge. Penso che l’intenzionalità calcolata sia il grande malanno dell’arte di oggi. Se mi ritrovo abituato a produrre un certo tipo di opere, desidero sempre avere pronte o inventarmi vie alternative che mi salvino dalla certezza. Solo così posso puntare all’intensità assoluta sempre.
Vengono spiazzati soltanto coloro che cercano la sicurezza che deriva dal prevedibile. Non è certo mia intenzione spiazzare. Quelli sono vecchi giochi dell’accademia dell’avanguardia. Piuttosto è cruciale per me offrire agli spettatori la possibilità di sguinzagliare la loro creatività senza sottomettersi a quelle che presumono essere le mie richieste.
Comunicare presuppone un accordo sui termini della comunicazione. Questo accordo in arte oggi non c’è perché non è convenuto il suo scopo. Perché condurre il pubblico? Non tutto quello che faccio può interessare tutti, ed è accettabile che molte persone siano indifferenti alla mia arte.

Lucio Pozzi, #190062 Fathoms, 2019, acrilico su tela, cm 180x120x4.
Ph. Michele Alberto Sereni, Studio la Città – Verona

In questo senso, il suo stile e la sua poetica si contraddistinguono per una marcata indipendenza formale e di contenuto e, inoltre, ha sempre rifuggito classificazioni e ogni definizione di stile o appartenenza a gruppi… Come ha mantenuto questa libertà che le ha permesso di stare nel sistema pur sempre raggirandolo?
Indipendenza significa non dipendere. Mi affascina piuttosto il dialogo interdipendente, per il quale niente è preliminarmente escluso. Ogni evento, poi, si condensa nei suoi propri termini e spero essi siano non solo elencabili ma soprattutto stimoli intensi di emozione e pensiero. La strategia generale che conduce all’evento è aperta. Marco Meneguzzo, nella presentazione della mia ultima mostra: Scatter Painting, ha chiamato la mia impresa enciclopedica. Così semplice, eppure non ci avevo mai pensato e mi piace enormemente. Preferisco questa nomenclatura alle altre finora usate, come eclettico o poliedrico.
Attualmente la libertà in arte fa paura, perché forse ci porta vicino al rischio dell’assoluto, l’amore, la morte. Non ci sono agganci. Ho lavorato sodo per arrivare vicino, alla libertà. Ogni mattina mi sveglio e mi chiedo se ho sprecato la vita. Quando capita per caso come questo mese che mi ritrovo in tre mostre importanti tutte nella stessa zona, dopo passo ore e ore in catatonia depressiva perché è come se si fermasse il tempo. Poi prendo una qualsiasi delle cose o idee posate nella dispensa ideale o fisica del mio studio, comincio a farci qualcosa e qualcosa nasce e mi rimetto in vita.
Nel sistema del mondo dell’arte esistono persone che sanno rischiare a sostegno di un’opera anche a costo di sacrifici, a volte estremi. Ora che sono vecchio e che ho fatto molto, anche grazie a loro c’è più gente che si avvicina alla mia opera. Io non sono contro il sistema, penso solo che per la mia sopravvivenza spirituale, almeno per preservare la mia creatività è meglio che mi disincrosti dei suoi dettami e delle sue censure.

Cosa la guida quando realizza nuove opere? Dove rivolge lo sguardo?
Pensi a un cuoco che sceglie gli ingredienti per cucinare ma si affida non alla ricetta né allo scopo di scodellare un certo piatto. Incomincia a mischiare e a dosare, e immedesimato nel processo segue l’inspiegabile intuito con passione. Si affida alla sensibilità assoluta che comunque è radicata in tutta la sua storia. Salto di palo in frasca, prendo la palla al balzo, una cosa tira l’altra. Sovente, quando sento che so come risolvere un dilemma, mi getto a fare proprio il contrario di quello che farei.

Lucio Pozzi, #190555 Il grande tempo, 2019, acrilico su tela, cm 137×84,5×4.
Lucio Pozzi, #150062 Ariel, 2015, acrilico su tela, cm 230x190x5.
Ph. Michele Alberto Sereni, Studio la Città – Verona

Come si ritrova un’identità unitaria nella sua ampia ricerca? Quali “temi” privilegia e quali messaggi trasmette?
Controllarmi in un’identità unitaria sarebbe come imballarmi prematuramente, imbalsamarmi. Chi vorrà potrà farlo comunque nel tempo. Non ho identità. I mille temi che mi sorgono per fare arte sono tutti OK: mi ci butto a fondo. È OK anche la pittura su tela rettangolare, una tecnologia iniziata circa nel Cinquecento che ora, pur avendo perduto le ragioni per le quali era stata inventata, contiene possibilità creative immense. Se faccio questo, ovviamente non sto facendo quello. Come scelgo? A caso o per impulso, o per irresistibile attrazione, o per aver ruminato un’idea a lungo, o perché qualcuno mi mette una pulce nell’orecchio. Tutto si innesta agli strati di storia personale e se si perde tempo a farne la lista si perde la freschezza.
Per conto suo, lo spettatore, potenziato dal mio incentivo a reinventare la mia opera nei suoi propri termini, si forma un universo parallelo al mio. Il solo messaggio è: se vi attira guardare la mia arte guardatela e tentate di vederla nel modo più consono alla vostra sensibilità, da qualsiasi livello di conoscenze veniate, sia che vi piaccia sia che non vi piaccia; se invece non avete voglia di guardare la mia arte, poco male: non fermatevi e seguite la vostra strada.

Infaticabilmente continua a rinnovare il suo codice espressivo, cosa guarda il Lucio Pozzi degli anni 2000? Quali sono le sue attese, i suoi pensieri, le sue considerazioni sul nostro presente?
Mi sento sempre sull’orlo del precipizio e poi di colpo chissà da dove sopravviene la curiosità: e se tentassi anche questo? Così sopravvivo. Vale la pena anche a fronte delle tragedie del mondo. Se smettessimo, toglieremmo alla comunità un punto essenziale di riferimento. Il mio futuro? Sarò un grano di sale nell’oceano della storia. Nel frattempo sto facendo un mucchio di cose che non so se verranno mai esposte. Famiglie e famiglie di combinazioni di ingredienti. Una delle condizioni dell’artista creativo è di avere un magazzino. Sa quante volte mi chiedo se vale la pena? La contraddizione con quel che ho appena detto prima è intenzionale.

Lucio Pozzi, #190559 For Danae, 2019, acrilico su tela, cm 137×84,5×4.
Lucio Pozzi, #190558 Proserpina, 2019, acrilico su tela, cm 137×84,5×4.
Ph. Michele Alberto Sereni, Studio la Città – Verona

La mostra personale presso Studio la Città di Verona ci consegna lavori recentissimi, realizzati in Italia? Cosa li caratterizza?
Tutti fatti in Italia, ma ho seguito linee parallele anche nel mio studio a Hudson NY. Getto colore liquido sulla tela messa piatta sul pavimento e poi, dopo che si è asciugato, appendo il quadro al muro e rispondo ai suoi richiami con aree geometriche di colore spesso applicato a spatola. Il senso? Densità agglomerate, dispersioni, volo, caduta, giardini. Emozioni, effluvio di leggerezza, rabbia pesante, panico, eccitazione. Chi guarda poi vede tutt’altro.

Dopo la personale di Verona quali progetti l’attendono?
Il mese prossimo, mi vestirò di nero e metterò in faccia una maschera veneziana di cartapesta, il dottore della peste. Sarò parte di una serie di eventi pubblici sulla 14ma strada di New York. Traccerò i profili di corpi umani sul marciapiede con gessetti verdi, rossi, blu e gialli, poi, a mezzogiorno, agitando una mazza da baseball ci saltellerò intorno come in una danza rituale e li picchierò e picchierò e picchierò emettendo urletti affannati senza tregua per 32 minuti sia il 19 che il 20 ottobre.

*Intervista tratta da Espoarte #107.

Lucio Pozzi – Scatter Painting
a cura di Marco Meneguzzo

21 settembre – 16 novembre 2019

Studio la Città
Lungadige Galtarossa, 21
37133 Verona

Info:
tel. +39 045597549
mostre@studiolacitta.it
info@studiolacitta.it
www.studiolacitta.it

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