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VIENNA | KUNSTFORUM | UN RESOCONTO

di SILVIO MIGNANO

Una brughiera tipicamente inglese, cespugli e sottobosco in primo piano, sterpaglia più in basso, fogliame e tronchi sottili sullo sfondo, mossi dal vento. Seven Yorkshire Landscape Videos, un’opera del 2011, campeggia nella sala centrale della grande mostra INSIGHTS. Reflecting the Tate Collection di David Hockney nel Kunstforum di Vienna.
I dati tecnici sono presto detti: “18 video digitali, sincronizzati e presentati su 18 schermi di 55 pollici”, a formare sette scene diverse che si alternano in loop, tutte accomunate dall’essere, appunto, paesaggi dello Yorkshire.
Solo che il termine sincronizzati induce in errore. Perché i diciotto riquadri non sono affatto in sincrono. Se ci avviciniamo e osserviamo con attenzione, ci rendiamo conto che il bordo inferiore di un albero non coincide con l’orlo superiore di quello che credevamo lo stesso albero: quello specifico albero in natura non esiste, è un ibrido creato dall’artista accostando due esemplari quasi uguali – quasi, appunto. Perché tutte le immagini sono fuori sincrono di pochi secondi e scorrono da destra verso sinistra, inseguendosi e accostandosi l’una all’altra in modo così calcolato da costruire continuamente un paesaggio che sembra reale. L’immagine completa, composta da tutti i diciotto schermi, rappresenta perciò un autentico paesaggio di brughiera inglese, lo stereotipo esatto di quest’ultimo, ma i dettagli sono artificiali. E questo vale per tutti i sette i diversi paesaggi che durante due minuti scorrono davanti ai nostri occhi.

Apertura del catalogo di David Hockney © DCV.

Ed è in fondo quello che ha sempre fatto Hockney: giocare sul filo di un’aderenza esatta alle leggi della tecnica più raffinata e allo stesso tempo traslata lungo l’asse di una ribellione costante che anticipa i tempi o che torna indietro, senza mai essere completamente in sincronia con il presente.

Negli anni sessanta l’artista britannico utilizzava le tecniche più tradizionali, il disegno, l’incisione, l’acrilico o l’olio, per proclamare un’estetica queer in un momento nel quale naturalmente questa denuncia era tutt’altro che facile, se solo si pensa che l’omonimo romanzo di Burroghs, scritto tra il 1951 e il 1953, era rimasto inedito e sarebbe poi stato pubblicato solo nel 1985.

David Hockney, Two Boys in a Pool, Hollywood, 1965
Acryl auf Leinwand, 152,4 x 152,4 cm. Privatsammlung, Belgien © David Hockney

Così, una delle sale più affascinanti della mostra raccoglie gli oli su tela dipinti tra il 1961 e il 1962, con un evidente debito formale verso Bacon ma già con elementi innovativi, addirittura nella forma della tela: la sagoma di una bara per In memoriam: Cecchino Bracci, o quella di una scatola di tè, in Tea Painting in an illusionistic Style. In altre sale, invece, sono raccolte incisioni degli anni Sessanta e Settanta, alcune relative all’illustrazione dei Quattordici poemi di Kavafis, altre frutto dell’incontro con la realtà di un’America sull’orlo dell’incendio per le lotte a favore dell’integrazione razziale – battaglia che s’incrociava, davanti agli occhi del giovane Hockney, con quelle per l’orgoglio LGBT.

Paradossalmente ma non troppo, oggi che quelle rivendicazioni hanno raggiunto una diffusione totale, almeno nel mondo occidentale, in Hockney non sembrano più essere il centro dell’attenzione, che è ora piuttosto la ripresa di un tema estetico che da sempre è latente nella sua opera: la separazione sottile tra la raffigurazione fedele della natura e la sua riproduzione sui supporti bidimensionali.

Autore figurativo come pochi altri nel secondo Novecento, Hockney ha sempre tuttavia difeso la presenza di una sorta di pellicola artificiale adagiata sulla tela, sul cartoncino e oggi sullo schermo degli i-pad, che tiene la realtà a debita distanza dall’opera d’arte.

David Hockney, Felled Trees on Woldgate, 2008, Öl auf zwei Leinwänden, 158,5 x 250 cm (gesamt), Sammlung Würth © David Hockney. Foto: Richard Schmid

Ed è perciò straordinario che lo stesso artista che per decenni ha continuato a dipingere quando tutti gli altri esploravano ogni possibile mezzo espressivo, senza tuttavia mai uscire dalla contemporaneità e dalle avanguardie, si metta oggi ultraottantenne a esplorare il territorio del digitale, proprio mentre un po’ ovunque nel mondo si riscopre la pittura.

C’è un’opera che riassume tutto questo, In the studio, del 2017. È un quadro di enormi dimensioni, di quasi otto metri di lunghezza per tre di altezza, un assemblaggio di centinaia di stampe a inchiostro da i-pad che rappresenta lo studio dell’artista, raffigurato al centro come in un titanico selfie e contornato di tele, alcune delle quali presenti nella stessa sala, e che qui si ripetono più volte in prospettive multiple e distorte, come un fish-eye sproporzionato. Un’opera analoga, Pictures at an Exhibition del 2018, era stata la star indiscussa della sezione Unlimited nell’edizione 2021 di ArtBasel.

David Hockney, In the Studio, December 2017, 2017, Tintenstrahldrucke auf Papier, montiert auf Aluminium (Assistenz: Jonathan Wilkinson), 278,1 x 760,1 cm, Tate: Presented by the artist 2018 © David Hockney. Foto: Tate

Il gioco dell’illusionista raggiunge qui l’acme: quadri nei quadri, come nelle raffigurazioni delle pinacoteche di autori fiamminghi del XVII secolo, e riproduzioni digitali di oli e acrilici. Il cerchio si chiude, al centro c’è il vecchio maestro, un cardigan blu a righe verdi, le braccia lungo i fianchi, e se la ride.

Info: www.kunstforumwien.at

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