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TORINO | Superbudda | 19 marzo 2016

di CARLOTTA PETRACCI

Nella cornice intima del Superbudda, vera e propria factory torinese tra le architetture post-industriali dei Docks Dora, la compositrice canadese Kara – Lis Coverdale, nota per essere la principale organista della St. John Estonian Evangelical Lutheran Church di Montreal e per le sue esplorazioni musicali electronically oriented, che hanno visto collaborazioni con artisti quali Tim Hecker, Lee Bannon e David Sutton, sarà la protagonista, il 19 marzo, di un nuovo appuntamento di En Avant.

Ad un anno di distanza dalla prima one night, in cui abbiamo assistito ad un vero e proprio scontro tra la fisicità del contrabbasso, sciolto nell’elettronica, di Federico Bagnasco e l’immaterialità dei non-luoghi digitali di Morkebla, continua l’indagine sulla musica contemporanea di En Avant. Tra tradizione e innovazione, l’idea di far dialogare, in una contrapposizione tanto quanto in una sintesi, l’immaginario classico-strumentale e quello elettronico rappresenta un punto di vista inedito sulla ricerca sonora tanto quanto sul suo pubblico. Passando attraverso la lettura digitale della natura armonica del violoncello di Luxa e il sassofono sporcato dall’industrial e la no-wave di Valerio Cosi, la combinazione di queste due anime riporta alla mente suggestioni sperimentali del secondo dopoguerra tanto quanto esempi attuali come l’Atonal di Berlino, capaci di creare un terreno fertile di incontro tra direzioni musicali e paesaggi sonori anche molto distanti tra loro. Sconfinamento  e attraversamento sono senza dubbio le parole che connotano maggiormente in potenza il percorso di En Avant, volto ad instaurare un confronto, non solo tra esperienze musicali apparentemente antitetiche ma anche con altri ambiti disciplinari, come l’arte visiva. Dal live paiting di Stefano Giorgi accompagnato da Federico Bagnasco del primo appuntamento, fino alle sperimentazioni tra arte e cinema, l’ottica è quella di tornare a ragionare sul concetto di opera d’arte totale in un’epoca profondamente trasformata dalla digitalizzazione. Tra categorie che si sfaldano e mondi che si incontrano s’inserisce perfettamente Kara – Lis Coverdale con la sua “musica sacra per l’evo digitale” (Ondarock).

Ho letto che hai iniziato a studiare musica e piano all’età di cinque anni. Oggi però ti muovi in una direzione che non è solo classica. L’aspetto affascinante del tuo lavoro è proprio l’incontro di mondi apparentemente distanti. Quando hai cambiato prospettiva?
È avvenuto intorno ai diciotto anni. Sono cresciuta in un paese molto piccolo e la musica elettronica non faceva parte della mia quotidianità. Non l’avevo mai considerata come uno strumento espressivo basato sulla composizione. Quando sono andata all’università ho vissuto un vero e proprio shock. Mi sono avvicinata prima all’elettroacustica e ho iniziato a intuire che il mio vocabolario e le tradizioni con le quali ero cresciuta, non mi consentivano di esprimere un punto di vista personale.
Con la mia prima perfomance ho vissuto una grande liberazione. È stata un’esperienza come il jazz ma più intenzionale. Da lì ho cominciato a frequentare le classi di computer music e ho capito che avrei integrato quel linguaggio nel mio lavoro.

La musica classica viene spesso interpretata come cerebrale, mentre quella elettronica come più fisica. Che cosa ne pensi? Come vedi il fatto che corpo e mente siano considerati disgiunti?
La musica classica può essere fisica, tanto quanto quella elettronica mentale e chi si attiene ad una lettura degli stereotipi opera delle generalizzazioni che impediscono la sperimentazione. Nel mio lavoro ho sempre cercato di sovvertire ciò che veniva considerato come acquisito. Certo, le persone all’aeroporto ancora mi fermano e mi chiedono se sono una dj, per via di tutta la strumentazione che mi porto dietro, ma quello che sto cercando di fare è un tipo di musica che sia electronically oriented, con una sua dimensione narrativa e che sappia coinvolgere l’immaginazione.

Che cosa intendi quando dici “una musica che sappia coinvolgere l’immaginazione”?
La maggior parte del mio lavoro, specialmente live, non è affatto statico, quindi viene richiesta una certa capacità immaginativa per partecipare attivamente allo svolgimento di un mio set. La musica del resto non è un medium che ti dice cosa fare, devi provare tu, con la tua mente, ad interpretare ciò che sta accadendo.

Questa consapevolezza e capacità di distinguere cosa rappresenti per te la musica, è il risultato esclusivamente del tuo percorso artistico o anche di esperienze personali e valori che hai respirato in famiglia?
I miei genitori sono persone molto creative e mi hanno trasferito questa tensione e responsabilità nel cercare di costruire ogni giorno qualcosa di unico. Mia madre ha cambiato lavoro più volte: dall’architettura, al design alla visual art mentre mio padre è il costruttore per eccellenza. Penso che la mia famiglia sia anche molto orientata alla velocità. Macchine e moto hanno sempre fatto parte della mia vita – ho foto di me da bambina in cui corro da una parte all’altra in sella a una moto – tanto quanto l’idea di cambiamento repentino e di affermazione individuale. “Bisogna semplicemente farlo”: è il messaggio che mi ha guidato, aiutandomi a tirare fuori quello che avevo dentro. Soprattutto, quando ho iniziato il percorso della musica elettronica, che rispetto alla classica, dove sei accompagnato, richiede un’auto affermazione molto più forte.

Sei un’organista della St. John Estonian Evangelical Lutheran Church di Montreal. Hai mai guardato alla musica come un’architettura spirituale?
Penso che la musica sia inseparabile dal contesto in cui viene suonata. All’interno di una chiesa c’è un costrutto legato alla ritualità e alle convenzioni che forse determina l’aspettativa di un’esperienza spirituale. Io preferisco però parlare di una connettività emozionale che la musica è in grado di suggerire. Raramente ho suonato musica elettronica o che incontra l’elettronica, all’interno di un luogo sacro. Devo ammettere che le poche volte che è successo, il pubblico ha reagito in maniera abbastanza ambivalente, forse proprio per questa coincidenza, all’interno di un spazio religioso, tra l’immaterialità della musica e la percezione della spiritualità.

Con A480 hai introdotto un concetto molto interessante: “The voice in the age of data”. Che tipo di interpretazione ne hai dato?
A480 è una serie di studi sulla voce che prendono in esame la sua digitalizzazione, intesa come processo di disincarnazione, cioè di scissione del suono dal corpo. L’idea che la voce caricata online potesse viaggiare ed essere utilizzata da chiunque come medium mi aveva assolutamente affascinata. Quando vai un concerto c’è una corrispondenza tra la voce del vocalist e la sua presenza fisica. Nel momento in cui la voce diventa pura informazione comincia invece un processo di ricerca, di decodifica e di attribuzione di nuovo significato.

Questa idea di separazione della voce dal corpo, corrisponde a come la società dell’informazione interpreta il rapporto tra l’uomo, i dati e le macchine. Diversa, dal mio punto di vista, era l’idea della voce in “The age of computer”, dove la macchina veniva considerata come un’intelligenza artificiale in grado di comunicare con l’uomo. Cosa ne pensi?
Il computer per me è un vascello vuoto che viene riempito di informazioni. Io non sono molto interessata a riceverne i contenuti, sono sicuramente più orientata ad imprimere la mia idea creativa. Il mio lavoro è diverso, per esempio, da quello di Holly Herndon, che tratta temi come la sorveglianza, e che per farlo acquisisce molte informazioni dalla rete. Io sono più rivolta alla pratica musicale, all’utilizzo del medium.

Che tipo di atmosfera volevi suggerire con Sirens analizzando il tema della violenza?
L’album nasce dalla collaborazione con David Sutton (aka LXV) ed è un tentativo di esplorare e reimmaginare la violenza in “The age of data”. L’idea di una sua mancata coincidenza con una manifestazione sonora per forza aggressiva, ad alto volume o distorta, è stato il motivo ricorrente di tutto il nostro scambio. La violenza può essere estremamente delicata, intensa, bella o seduttiva. Dipende anche da come la interiorizziamo. Più volte mi è capitato di ascoltare della musica che pur non essendo violenta traduceva sentimenti di profonda pena e sofferenza, risultando emotivamente molto toccante. Non voglio dire che si debba cambiare il senso delle percezioni, ma si può andare più a fondo cercando di esprimere degli status in maniera diversa.

Prima hai parlato di un processo di disincarnazione della voce, che possiamo ricondurre al corpo post-umano. Trovi qualche relazione tra questo concetto e la tua musica?
Devo ammettere che un tempo questa definizione mi entusiasmava molto, perchè rinvia ad una visione del corpo meccanizzata, protesica e diffusa attraverso il computer e la tecnologia. Certamente tutti coloro che lavorano nell’ambito della musica elettronica condividono questa intuizione. Successivamente sono diventata più scettica e ho cominciato ad assegnare un ruolo secondario alle macchine. Ho iniziato a vederne i limiti, e ho sentito il bisogno di tornare anche ad un dimensione più fisica.

Il tuo punto di vista sulla musica è più razionale o emozionale? O una combinazione di entrambi?
Se la musica vuole essere comunicativa deve comprendere emozione e ragione. Non siamo robot, siamo una specie molto evoluta, per la quale il principio razionale è assolutamente centrale. Il linguaggio è basato sulla ragione, così come la matematica e il mondo materiale. Sicuramente molte persone assegnano un significato più emozionale alla musica perchè temono il confronto con il suo lato scientifico e teorico. Io penso che prima di tutto sia importante conoscere a fondo il medium con cui si lavora, per potersi esprimere al meglio. Per questo razionalità ed emozionalità non possono essere disgiunte. Del resto: quale suono è pura emozione?

En Avant + Superbudda Creative Collective
Kara-Lis Coverdale [CA — Umor Rex Records]

19 marzo 2016 dalle ore 22.00

Superbudda

Via Valprato 68, Torino

Info: www.superbudda.com

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