MILANO | Area35 Art Gallery | Fino al 7 aprile 2016
di LUISA CASTELLINI
Leonardo. Apelle. Bacon. Frenhofer. Come nelle fiabe, vi raccomando di tenerli a mente, benché distratti dalla lettura della prima personale a Milano di Pietro Geranzani. Una mostra che asseconda la sua pittura. Opulenta, a tratti barocca, ma schiva e saturnina. Assordante, benché di una risata sommessa, che arriva imprevista, un po’ isterica.
Le opere in mostra sono state scelte tra le più significative del suo fare pittura. «Ho scoperto di avere inclinazioni che lentamente vanno a fuoco» spiega l’artista ‑ classe 1964, con ottime e ragionate mostre alle spalle ‑ «e non si tratta di temi o soggetti ma di come affronti la pittura». Non pensate alla tecnica, per carità, perché quella è giusto l’alfabeto. È invece la pittura, il pensiero che le gira intorno, la sua rappresentazione, al centro del dipinto. «Mi sono scoperto ondivago tra il figurativo e una forma magari non riconoscibile, ma scultorea, tangibile, materica». La pittura e il suo simulacro, il tempo del dipingere e quello dello sguardo. «Quando dipingo la riflessione sul fare pittura è simultanea, convive nel tempo della pittura, che però è regno assoluto del fare». In quel gesto nascono le opere, sempre di grande formato ‑ potrebbe essere altrimenti? ‑ e la domanda latente è sempre una: cosa rappresenta la pittura nella storia dell’uomo? «La pittura è sempre un oggetto prima di essere un’immagine e vive in modo differente da tutte le altre, dal cinema che è uno schermo di luce alla fotografia col suo sguardo meccanico».
E qui arriva (ricordate il consiglio in apertura?) la citazione, di cui il nostro è ghiotto. Leonardo. «Quanto più si parlerà con le pelli, veste del sentimento, tanto più s’acquisterà sapientia». Il corsivo è presto motivato. Veste lo possiamo intendere come vestire, investitura, pelle, rivestimento. Vestir, seguendo Didi-Huberman, anche come abbassare le palpebre. «Il senso del caso in pittura è fondamentale, per abbandonare il tentativo di controllo tipico del pittore» e intraprendere rotte inaccessibili alla ragione. «Ogni volta che il pittore si lascia andare e cede, il gesto che è visibile sul quadro è un’apparenza disarticolata». La figura si dissolve, la forma resiste. Il caso è una eventualità (parola a me cara, perché dice della possibilità che accadano cose straordinarie, anche sacre) con illustri precedenti. Francis Bacon, che racconta a Sylvester dei suoi “lanci” sui quadri. Apelle, col più famoso (benché mai visto) cavallo dipinto di tutti i tempi a cui, storia vuole, mancasse ancora qualcosa: la vita. Distratta la ragione, la spugna imbevuta di colore approda proprio lì, sul muso, e le sue bolle diventano corsa, affanno, schiuma, saliva, sudore.
Il caso alleato del pittore angosciato da un’altra domanda fondamentale. Quando un quadro è finito? E qui ecco arrivare Frenhofer e quel suo ritratto dell’amata durato anni e negato agli sguardi altrui con indicibile tenacia. Una volta svelato, del capolavoro sconosciuto “resta” soltanto un piede: e quel resto è proprio la pittura. È in questo corso che Geranzani si pone ricordandoci, e qui torniamo a Bacon, che l’uomo è flesh, carne. Quando eccede con oro, crine e merletti diventa maschera grottesca. Il troppo profumo vira in quel dolciastro che la carne tutta, noi compresi, prima o poi emaniamo. La pittura ci ricorda che abbiamo odori oltre che pensieri, che commettiamo azioni, ci asteniamo, disgustiamo, terrorizziamo. Così l’opera Ombra ammonitrice è testimonianza di un atto di sopraffazione e delle distorsioni del potere e i Body Bags sono ammassi informi che celano corpi che hanno smesso di sentire il dolore. Il disagio, il desiderio di distogliere lo sguardo dall’esito delle nostre atrocità è l’atto che la pittura di Geranzani ci obbliga a compiere, al di là del dato di cronaca ‑ il primo dipinto è ispirato al caso di Fabrizio Quattrocchi e gli altri sono i sacchi in cui i corpi tornano dalla guerra ‑ dell’impianto iconografico e dei riferimenti colti.
Sempre la sua pittura ci impone di annusare l’aria mossa dalle ali e cercare l’eco delle risate dei suoi personaggi e molto altro. La pittura dice e fa paura, eccita, sfibra e quando vuole incanta e rassicura. Ma questo non è il caso di Geranzani che, per chiudere col nostro Frenhofer, vuole verificare lo stato della pittura. Donna, statua, cadavere.
In flore furoris: opere di Pietro Geranzani
a cura di Arianna Grava e Giacomo Marco Valerio
Testi critici di Rolando Bellini, Luca Ferri, Maurizio Temporin e Erica Tamborini
Area35 Art Gallery
Via Vigevano 35, Milano
Fino al 7 aprile 2016
Info: www.area35artgallery.com