MILANO | Studio Vento e Associati – Fabbrica del Vapore | 15 luglio 2020 – 31 luglio 2021
Intervista a DONATELLA IZZO di Alice Vangelisti
Atmosfere oniriche e stranianti animano i lavori fotografici della serie The Dreamers di Donatella Izzo, in cui presenze solitarie e insolite abitano momentaneamente e paradossalmente spazi pericolanti, vuoti e dimenticati. Sono luoghi tanto fisici e reali, quanto effimeri e trascendenti, che incarnano un universo dell’oltre in cui un Io nascosto naviga nell’abisso profondo e imperscrutabile della mente umana. L’artista costruisce, così, una dimensione parallela ed enigmatica della realtà in cui queste figure decontestualizzate si impossessano dello spazio abbandonato, affrontando la sua devastante desolazione e creando un senso di disorientamento visivo e percettivo che invita lo spettatore stesso a scavare a fondo nel proprio Io, nella propria memoria e nei propri sogni.
Abbiamo intervistato l’artista, approfondendo così con lei i temi e i contenuti relativi alla sua ricerca e alla mostra personale in corso The Dreamers. Sognatori nel tempo dell’abbandono, a cura di Matteo Galbiati, negli spazi di Studio Vento e Associati e di Fabbrica del Vapore a Milano, in cui l’indagine visiva straniante ed enigmatica condotta attraverso il mezzo fotografico si unisce a lavori più installativi – temporaneamente disallestiti – i quali ugualmente mantengono quell’aura di enigmatico mistero, alla ricerca di quei sogni dimenticati e perduti.
Il progetto legato a queste opere nasce nel 2013, ci riassumi le sue tappe e il suo sviluppo?
I primi scatti di The Dreamers appartengono in realtà alla fine del 2011. Nel 2012 divento mamma e riprendo a scattare nel 2013. Tra il 2013 e il 2014 il progetto viene esposto in personali a Londra, Madrid, Barcellona e in Polonia. Ho avuto così tante soddisfazioni in così poco tempo che ho deciso che non l’avrei fatto terminare, ma piuttosto fatto arricchire in un continuo divenire, tramutando in scatti i mutamenti stessi da me vissuti.
Non essendo ancora concluso, cosa riesce ancora a darti questo tipo di ricerca progettuale? Come muta e la vedi evolvere nel tempo?
In questi anni la passione per fotografie scattate nei luoghi dell’abbandono è esplosa tra un pubblico vasto di fotografi riempiendo il web di immagini anche molto belle. La mia ricerca però supera lo scatto puro del luogo e muta in racconto per immagini di stati interiori o di memoria personali e collettivi. Difficile dire come muterà nel tempo. Anzi, non è detto che lo faccia. L’importante è che non perda la capacità visionaria di consentire a chi osserva di affacciarsi ad una realtà basata su logiche sottilmente diverse da quelle che conosciamo, conducendolo in un viaggio narrativo dettato da personali schemi interpretativi. È un approccio diverso rispetto alla quantità di sollecitazioni visive alle quali siamo forzatamente e passivamente sottoposti ogni giorno.
Come ti poni rispetto ai luoghi abbandonati, come intercetti le loro “presenze”? Come li vivi e come ti lasci suggestionare?
Un edificio abbandonato è un segno del passaggio che la cultura umana ha lasciato in un passato relativamente recente. Esplorare questi luoghi significa indagare un pezzetto di umanità. Archeologia di un passato vicino la definirei. Quello che si percepisce è sempre il lato più oscuro dell’essere umano e del suo passaggio sulla terra, che in questi luoghi sembra essere sospeso e mai concluso, capace di generare una tensione spazio-tempo che produce inquietudine e disorientamento.
Viverli significa percorrerli con gli stessi passi e gli stessi occhi di chi ci ha preceduto. È proprio la capacità di immedesimazione che procura la suggestione che innesca il processo creativo.
Per le immagini che poi, alla fine, costruisci tu quanto contano gli stimoli esterni e la tua volontà? Come si coordinano?
Nel sogno mentre dormiamo, come nell’incubo, elementi che non hanno nulla a che fare tra loro convivono. Così come in questo processo, nel quale il cervello associa immagini pescando a caso dalla sua inesauribile banca dati, con la fotografia mi riservo questa possibilità.
Le tue opere hanno una grande poesia che si basa su opposte direttrici che rendono spiazzante la lettura del lavoro, quasi metafisico: abbandono ed eleganza, desolazione e rinascita, tristezza e redenzione, affermazione e sparizione… Come dai equilibrio al tutto, come trovi la puntualità lirica che caratterizza il tuo sguardo?
Pongo molta attenzione nella costruzione dell’immagine. Cerco la teatralità, che punta su costruzioni equilibrate tra soggetto, contesto e colori. Prediligo una prospettiva centrale che induca un’immersione totale nell’immagine stessa.
Quali sono i temi importanti per il tuo lavoro? Ci sono connessioni con la situazione di oggi, rispetto al senso di abbandono e redenzione che emerge dal tuo lavoro?
Sicuramente uno su tutti: la frammentazione dell’identità individuale e collettiva, ormai privata dal senso di appartenenza al lato mistico e trascendentale della vita stessa. Tale tema abbraccia molte sfumature, alcune ampiamente indagate in mostra. Tra queste cito per esempio quello della reclusione e dell’isolamento, della perdita dell’Io, mai così tanto attuale come in questo triste periodo storico, allorché siamo tutti reclusi e limitati della nostra libertà e della possibilità di socializzazione fisica; privati della possibilità di lavorare e con essa dell’affermazione della propria individualità nella società che il lavoro stesso genera.
Situazione dalle conseguenze devastanti per molte persone, anche giovanissime. Basti pensare all’impennata di casi di depressione che la pandemia ha generato. Depressione, che ricordiamoci, in passato quando non era ancora trattata come tale, veniva molto spesso identificata in malattia mentale e le persone colpite definite schizofreniche o pazze. Talune volte segregate in istituti di igiene mentale senza possibilità di riscatto.
La mostra è suddivisa in due parti come le hai costruite e che contenuti evidenziano?
La prima parte della mostra è quella fotografica con immagini scelte dalla serie The Dreamers. Alcune stampate e proposte per la prima volta. Sono scattate in fabbriche dismesse ed in ex-manicomi abbandonati. Entrambi luoghi in cui sono transitate negli anni centinaia di vite. Lo spaesamento percettivo è comune denominatore di tutte le fotografie.
La seconda parte è installativa e conseguenza temporale dell’esperienza fotografica.
Si concentra solo sugli ex manicomi ma invece che proporne la visione attraverso lo scatto fotografico, ne ricrea gli ambienti, obbligando lo spettatore ad un’esperienza immersiva fisica a contatto stretto con arredi, oggetti e reperti rinvenuti in questi luoghi.
In questa sezione indago la malattia mentale e denuncio la violenza consumata in questi luoghi, chiamando in causa anche il Cattolicesimo, colpevole, spesso, di aver mischiato i disordini mentali con l’idea stessa del Male in conseguenza di credenze e superstizioni religiose prive di fondamenta scientifiche e purtroppo ancora oggi profondamente radicate, di cui io stessa sono testimone.
Perché hai voluto unire le foto della prima sala alle installazioni della seconda? Non temi possano essere distanti l’una dall’altra? Che contenuti evidenziano singolarmente e reciprocamente?
Da qualche anno la mia ricerca artistica è sfociata anche in installazioni, con lo scopo – anche in questo caso – di stimolare nuovi interrogativi e porre l’accento sui lati più oscuri della personalità umana. L’aspetto introspettivo che la ricerca prevede è il medesimo di quello fotografico: di conseguenza le 2 sezioni, sebbene distanti, dialogano reciprocamente tra loro: in un approccio lento e immersivo lo spettatore è invitato a decifrare dei messaggi, a cogliere l’eccezionale anche quando negativo, anche quando questo coincide con la parola reclusione, isolamento, perdita dell’Io.
Indubbiamente la seconda parte è meno visionaria e più fisicamente empatica. È importante che il pubblico senta e si immedesimi direttamente in questo clima peculiare? Sembra tu trasferisca nello spazio espositivo la concretezza di quei luoghi o della loro immaginazione.
Sì, esatto. Nelle fotografie colgo un momento di immobilità in cui l’allusione ad una realtà parallela, trasfigurata e destabilizzante invita lo spettatore a grandi salti nel proprio subconscio alla ricerca di codici con cui decifrare l’immagine.
Nelle installazioni il rapporto è meno mentale e più fisico. Il fatto stesso di proporre elementi provenienti da realtà estreme, invece che manipolare la realtà come nelle fotografie, pone l’accento propria su di essa. Il potere delle installazioni sta nella possibilità di accesso che esse offrono. Una possibilità di entrare nel dramma, nella violenza, nella disperazione, nel silenzio sommerso di persone obbligate alla reclusione in nome di una presunta follia…
La mostra ha avuto, nonostante il periodo pandemico, una lunga apertura: che reazioni hai registrato da parte dei visitatori?
Credo che l’esposizione proposta alla Fabbrica del Vapore sia stata e sia una bellissima mostra realizzata in un periodo sfavorevole che non ha permesso l’afflusso di pubblico desiderato.
Tuttavia le reazioni che ho documentato sono state tutte molto simili e sono convogliate in un senso di turbamento più o meno manifestato, in particolare per la parte installativa della mostra. A causa dei temi trattati e della presenza di oggetti significativi, questa parte della mostra è stata sconsigliata agli under 14.
Tra le reazioni che ricorderò di più però – e che voglio citare come ulteriore motivo di riflessione – c’è sicuramente quella di un signore di mezza età mentre sfogliava un piccolo libricino che riguarda l’analisi dei primi esperimenti fatti con l’elettroshock in Italia su persone. Il trattato è del 1949 e riguarda sperimentazioni negli anni precedenti. Il signore non sembrava né stupito né turbato da quelle pagine, a differenza di tutte le altre persone che ne erano sconcertate. Avviando un dialogo con lui mi disse apertamente e con naturalezza che sua sorella ha ricevuto l’elettroshock più volte per un caso grave di schizofrenia ma che non ha avuto risultati soddisfacenti. Difatti non molti lo sanno ma la pratica dell’elettroshock – sebbene con accorgimenti diversi di quelli praticati nel passato – non è bandita ma anzi legittimamente ancora praticata in Italia e in Europa dove l’uso sta, anzi, crescendo sempre di più e su questo tema la medicina si divide.
Stai anche lavorando al catalogo che esce in occasione di questa personale: che contenuti avrà?
Il catalogo sarà presentato a breve e conterrà la galleria fotografica della mostra nella sua totalità con i testi del curatore Matteo Galbiati, un’intervista di Federico Sardella e un testo di Andrea Vento che ha reso possibile la mostra nell’ambito del progetto “Spazi al Talento” del Comune di Milano con l’importante sostegno di Fondazione Cariplo.
Prossimi progetti futuri?
Terminata la pandemia c’è la volontà di riproporre la mostra The Dreamers. Sognatori nel tempo dell’abbandono in altre parti di Italia.
Di calendarizzato, invece, c’è il Mia Art Fair a ottobre prossimo. Con Tallulah Art Studio proporrò NoPortraits, un progetto artistico ma anche di spessore sociale, che supporta la lotta contro la violenza sulle donne, che sia essa fisica, psicologica, razziale o politica. Una lotta però ancora lontana da vincere e sulla quale l’arte contemporanea potrebbe – a mio avviso – fare molto di più a partire dal rapporto con le Istituzioni e con il grande pubblico.
Donatella Izzo. THE DREAMERS. Sognatori nel tempo dell’abbandono
a cura di Matteo Galbiati
con un’intervista di Federico Sardella
con il sostegno di Comune di Milano e di Fondazione Cariplo
15 luglio 2020 – 31 luglio 2021
Studio Vento e Associati
Fabbrica del Vapore, Lotto 11
via Giulio Cesare Procaccini 4, Milano
Info: www. donatellaizzo.com