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PINEROLO (TO) | Luoghi diversi | Da marzo 2020

Intervista a REBOR di Matteo Galbiati

Una tenda con la croce rossa compare, in attesa di poterla installare a Torino, nel giardino di una casa privata di Pinerolo (TO). Aperta, ma in un luogo chiuso all’accesso pubblico. Siamo in tempi di reclusioni forzate, l’emergenza da Coronavirus non ci dà tregua e, in questo contesto che mai nessuno avrebbe potuto solo immaginare se non in uno scenario da film apocalittico, quella voluta dall’artista Rebor (pseudonimo di Marco Abrate) è un’installazione “d’emergenza”, un progetto nato dall’eccezionalità di una situazione estrema che davvero ci tocca tutti. La sua è una risposta, un segnale attivo, un impegno, che l’hanno portato ad un’impresa doverosa, pur eseguita in una diversa altra modalità d’intervento, adattata al momento presente. Nasce così Alla ricerca di un riparo.
Un tenda che, nonostante il colore inconsueto – il rosa tipico delle opere del giovane artista – ricorda quelle degli ospedali da campo, simbolo di speranza e, al contempo, delle paure incontrollabili che affiorano come strascico delle nostre emergenze attuali.
Fedeli all’impegno assunto con i motti #iorestoacasa e #lartenonsiferma, lo abbiamo raggiunto telefonicamente per dare conto e testimonianza del suo messaggio e, nella breve intervista che segue, approfondiamo con lui i contenuti presenti e futuri del suo progetto:

Cos’è esattamente, andando oltre le mere apparenze, Alla ricerca di un riparo?
La grande passione, l’amore per quello che si crea, mi hanno portato ad una realizzazione – come è solito per le mie opere – immediata, tendo, infatti, a restare sempre pronto rispetto quello che accade. Prima di tutto devi credere in te stesso e nelle possibilità che ti si creano attorno. Se non ami quello che fai, prima o poi smetterai. Deve sempre essere un “credere” veritiero.

Rebor, Alla ricerca di un riparo, 2020, installazione

Cosa ti ha spinto a realizzare quest’opera che, nel modo e nel luogo, contraddice la tua abituale metodologia di intervento che, invece di proporsi nell’ambiente pubblico/sociale, questa volta avviene (o, meglio, deve avvenire) in uno spazio privato, chiuso, per ovvie ragioni, alla libera visione?
Situazioni estreme, come quella in corso, obbligano spesso a fare scelte non previste un attimo prima. Da qualche tempo avevo in preparazione una mia opera che parlasse dell’attualità di questi giorni: intendevo collocarla, com’è mia prassi, in qualche zona all’aria aperta, per essere recepita, diffusa e discussa collettivamente sui social e sui media. I recenti eventi mi hanno  convinto a operare diversamente, del resto, in un momento come l’attuale, la percezione, la sensibilità, la capacità di lettura e di analisi possono subire delle alterazioni imprevedibili.
Il messaggio che vorrei inviare non è solo critico, ma anche latore di una visione ottimistica: allora, l’effetto sorpresa, che di solito cerco di ottenere quando le persone stentano a reagire davanti ai miei interventi, rischierebbe oggi un effetto diverso dal mio messaggio e sarebbe potuto sembrare allarmante o addirittura frainteso.
Ho deciso quindi di rovesciare completamente il mio modus operandi proponendo in anticipo le immagini del mio lavoro, prima della sua collocazione materiale. Si tratta di un’opera di grandi dimensioni, pensata per essere non solo vista, ma anche vissuta, attraversata, abitata, da installare, nel momento opportuno, in qualche luogo urbano.
Nel rispetto delle normative nazionali, l’opera sarà visibile nel mio giardino supportando gli hastag #iorestoacasa e #lartenonsiferma. Il messaggio mette in evidenza la fragilità umana e la paura di un nemico invisibile, sottolineando quanto l’immagine sia, ora, più forte che mai. In momenti del genere è bene usare il buon senso anziché la sola logica, perché di fronte alla paura, ogni persona reagisce diversamente.
Questi spazi, come i tendoni per il triage d’emergenza, dovrebbero indurre sicurezza e consolazione, ma diventano simboli di paura, prigioni biologiche, tristi e ansiose. Quest’opera ha un particolare: l’azzurro sul tettuccio. Il cielo irrompe nello spazio chiuso della tenda, si proietta al mondo dando speranza, coraggio; si eleva travalicando ansia e affanni. All’interno una luce, simbolo di speranza e ricerca. Rimane accesa, sempre, anche di notte.

Come si compone e come si struttura l’installazione? Ci accompagni ad un suo tour virtuale? Ce ne descrivi le costituenti, la struttura; ci parli della sua simbologia, del suo senso profondo?
L’opera era una vecchia tenda di famiglia, gentilmente concessa da mia nonna. Mi ha detto che preferiva vederla diventare un’opera, anziché lasciarla ammuffire nel garage.
La struttura è formata da una tenda originariamente di colore blu, che ho conservato sul tettuccio a evocare il cielo. Il complesso della tenda rappresenta l’emergenza e l’immediatezza dell’accaduto, ovvero il bisogno di un riparo immediato. Una piccola fessura ci introduce all’interno: ci invita ad entrare, ma non ci obbliga. I più curiosi possono entrare, per rendersene conto di quanto c’è dentro: qui trovano una lampada che emana una luce delicata e soffusa, simbolo di quella continua ricerca e di quel duro lavoro di chi opera per tutelarci e salvarci. Una tenda con una luce accesa ci fa capire che qualcosa sta succedendo. È la luce della speranza.

L’artista Rebor

Nonostante la limitazione della contingente costrizione, l’opera sta avendo, comunque, una sua larga diffusione mediatica e social. Era prevedibile tanto clamore? Cosa catalizza tanta attenzione?
Creare un messaggio con un target indefinito può essere arduo. Devi considerare, capire, prevedere e studiare ciò che ti circonda. Se un artista si chiude nel suo piccolo mondo, prima o poi si sgretolerà, perché mancherà di esperienza della vita quotidiana con i suoi problemi, le sue ansie e i suoi affanni. La mia opera ha una struttura volta all’equilibrio. Molto dipende da come presenti un tuo lavoro, il linguaggio che usi… Sui social viene di continuo condivisa sulle stories delle persone e addirittura come post creato dal singolo profilo social. Il mio obiettivo è che l’opera possa essere un salvagente in mezzo al mare, di soccorso per le persone che si sentono annegare.
Tutt’ora l’opera viene condivisa in Italia e in molti altri paesi, come l’Iran e il Giappone; è stata ultimamente condivisa dalla modella giapponese Miyu Hayashida che mi ha scritto in privato, dimostrando un grande interessamento. Ricevo comunicazioni che condividono il messaggio di speranza che aiuta molte persone. In questi giorni mi accorgo ancor più quanto la gente condivida l’opera, tra cui molti medici che lavorano in trincea, nell’angosciante paura e nel forte coraggio vivono donando esperienza e umanità.
Penso che oggi si debba sapere attendere con fiducia. In una società che, prima era iperattiva ma paradossalmente ghiacciata, riesce difficile di dover pensare e apprezzare le piccole cose della vita, a capire l’importanza dei valori. Non dobbiamo sprecare le esperienze e le difficoltà che si presentano quotidianamente: uso il termine sprecare perché da queste esperienze ci si rialza più forti e sensibili. Questa tragedia cambierà il mondo? Ha già cambiato ognuno di noi. Un mondo che non era pronto, un mondo che non teneva conto di un possibile ribaltamento del tutto. Un mondo così pieno e saturo di ogni cosa che ha creato persone ancora più deboli e tristi.
La malattia più diffusa al mondo è la depressione. Era un mondo troppo comodo, eppure, senza sfide non c’è evoluzione.  Se le antiche tribù saltavano il fuoco o avevano altri riti di iniziazione, oggi noi facciamo solamente scrolling con il telefono e il risultato era una società incapace di avere un pensiero critico veritiero col rischio di compromettere la nostra creatività, la fantasia umana. Ma la natura ha come voluto darci un ultimatum.
Adesso è la nostra libertà di circolazione che ci viene negata, una cosa che mai avremmo pensato di prendere in considerazione. Scontata era una visione di vita infinita, l’impossibilità dell’invecchiare, della morte, tutto è per sempre. Invece no, oggi vorremmo correre, viaggiare, partire. Ma non è possibile.
Scopriamo i nostri limiti e che, oggi, la solidarietà non è solo una parola: impariamo molte cose dalla nostra quarantena. Le parole sembrano tornare alle origini. Il giorno in cui il confinamento finirà, saremo liberi, riusciremo a vedere chi è lontano come chi vicino, a ritrovare quella somiglianza che avevamo dimenticato.

Una domanda scomoda: in questa tua realizzazione quanto c’è di “pancia” e quanto “di testa”? Quanta coerente spontaneità, quanto meditazione e progettualità?
In questa opera, c’è molta riflessione, molto studio per necessità di chiarezza verso il grande pubblico. L’opera mi ha portato a questa considerazione: cosa governa un’azione umana? L’emozione. Ecco, l’emozione crea un sentimento e il sentimento un’azione. Partendo da un’emozione, ho voluto provare a lanciare, pur nel mio piccolo, un grandissimo messaggio. Non puoi sapere se ciò sarà capito, oppure frainteso, amplificato. È chiaro che se questo tuo messaggio è positivo, avrà verso gli altri un’accoglienza positiva. Se invece si è subdoli, meschini, egoisti, anche se l’azione potrà apparire interessante, in realtà muoverà, nel profondo, solamente sofferenza, tristezza, paura.

Rebor, Alla ricerca di un riparo, 2020, installazione

Abbiamo detto che hai avuto un larghissimo favore; io sono del parere che un artista, soprattutto come te che è attivo nel mondo della Street Art, deve avere il coraggio di agire, di esprimersi, di far sentire la sua voce e di dare il suo personale contributo. Sappiamo, però, che non tutti possono, come abbiamo fatto noi che ti abbiamo sostenuto e ti abbiamo compreso, apprezzare o condividere la tua proposta. Gli scettici potrebbero dire che è retorica, i detrattori potrebbero andare oltre… Come rispondi ad eventuali critiche di opportunità?
Le critiche per me sono essenziali: troppi complimenti possono annebbiare una mente debole e cadere in un “se-centrismo” inutile. Inoltre l’arte, come dice Cattelan, è il regno della soggettività. È ovvio che il difficile è lavorare non avendo un target non preciso, c’è molta differenza rispetto al progettare un’esposizione in galleria.

Come si lega o inserisce Alla ricerca di un riparo nell’insieme del tuo percorso e della tua ricerca? Ci sono richiami, collegamenti? Oppure resta un’intervento episodico?
È soprattutto legata al tempo in cui viviamo… direi che è in linea con il mio sentire e il mio operare. Passato, presente e futuro.

Quali sviluppi o scenari futuri aspettano Alla ricerca di un riparo? Come pensi di “trasformarla” in quel dopo (domani) che tutti aspettiamo dopo l’emergenza? Quale valore avrà?
Avrà valore di memoria e testimonianza, come spero le nuove opere che verranno.

Rebor (Marco Abrate) è nato a Savigliano (CN) nel 1996. Prossimo alla laurea in Grafica all’Accademia Albertina di Torino, benché molto giovane, ha già proposto una ricerca estremamente personale. Nelle sue opere si evidenziano i tratti di un’originale evoluzione della street art, centrata sulla necessità di prendere posizione sulla situazione socio-politica, sulla comunicazione, sui modi di vivere e di pensare comuni. Ricorrendo a tecniche diverse, dalla pittura alla scultura, dall’installazione alla performance e di tutto quanto altro gli può essere utile, sottolinea il degrado e le defaillances del nostro tempo, ma al contempo pone questioni che attivano propositi positivi rispetto la vitalità creativa, ribadendo la necessità che essa ritorni ad essere spunto per scelte libere e consapevoli, spiraglio di uno sguardo sul domani carico di ottimismo. Vive a Pinerolo (TO) e lavora principalmente a Torino.

Info: www.reborart.com

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