Intervista ad ALESSANDRO BULGINI di Elena Inchingolo*
Alessandro Bulgini, classe 1962, è un artista indipendente, che ha fatto della propria pratica artistica una “missione di vita”.
Nato a Taranto e vissuto in diverse città italiane, si è laureato in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Carrara iniziando a lavorare come pittore sui temi della “non riproducibilità dell’opera d’arte per i mezzi di comunicazione di massa”: si trattava di una produzione pittorica cupa e misteriosa, che costringeva lo sguardo del fruitore ad una vicinanza intima con l’opera.
È nel 2008, in seguito al suo trasferimento a Torino, nel quartiere multietnico di Barriera di Milano, che ha preso forma il progetto d’arte e vita, Opera Viva.
Il legame dell’artista con il quartiere è cresciuto e si è saldato profondamente nel tempo soprattutto grazie alla fondazione nel 2012 di B.A.R.L.U.I.G.I. (Opera Viva), Base Aerospaziale di Ricercatori di Luoghi e Utopie Indipendenti dalle Geometrie Ignote.
Bulgini chiese ospitalità all’omonimo bar sotto casa, per trasformarlo in un luogo di incontro e di scambio artistico-culturale. Il quartiere rispose positivamente alla “provocazione” e l’iniziativa si protrasse per circa un anno e mezzo.
In seguito all’esperienza di B.A.R.L.U.I.G.I., Bulgini ha continuato a sviluppare la propria ricerca artistica in stretta relazione con l’intero quartiere di Barriera di Milano, che è diventato esso stesso Opera Viva.
Nelle strade e nelle piazze della zona, l’artista ha realizzato, nel tempo, numerosi “segni sul territorio”, effimeri mandala disegnati con l’utilizzo di gessetti, creando una sorta di crop circles, “su cui possano atterrare gli alieni”. La tecnica semplice e i motivi riconoscibili, richiamavano l’arte del merletto a tombolo, un tipo di ricamo molto diffuso in Italia, facilmente apprezzabile e riconoscibile dagli abitanti del quartiere.
Oggi l’artista continua ad intervenire sul contesto urbano di Barriera di Milano e di altre realtà simili nel mondo, con assidue e semplici progettualità, come quella degli Orti Urbani, che riconsegnano nuova dignità a materassi dismessi mediante colorati decori floreali a spray. Bulgini si adopera così nell’attivare piccoli cambiamenti sociali e culturali positivi, lenti e profondi, attraverso la dimensione di condivisione quotidiana del suo “fare arte”. In questo modo l’arte diventa strumento di rigenerazione sociale.
Abbiamo incontrato l’artista e gli abbiamo rivolto alcune domande per meglio comprendere il suo progetto artistico.
Perché Opera Viva?
Il progetto Opera Viva è il necessario sviluppo di una ricerca pittorica che iniziai nel 2001, realizzando quadri dipinti, nero su nero, dal titolo Hairetikos (eretico), parola greca che significa colui che sceglie, ovvero colui che ha un pensiero autonomo. Si trattava di lavori indecifrabili che presentavano figure nere nella penombra, traducendo così il senso del mio pensiero per certi versi eretico, dinamico, diverso. Nel 2007 al titolo Hairetikos aggiunsi il sottotitolo Opera Viva, per rafforzare a livello semantico il progetto. A questo termine si collega la mia natura di marinaio, tarantino e figlio di un ufficiale di marina, che ha voluto interpretare quella porzione dello scafo di ciascuna nave – opera viva appunto – che è sommersa dall’acqua. In questo senso la mia indagine si focalizza sull’opera viva ovvero su quella parte dell’esistente che è in qualche modo sommerso, invisibile, laterale e proprio per questo vivo, pervaso da un’energia eccezionale.
L’esito formale di questa ricerca presentava, inizialmente, alcuni dittici con una parte nera dipinta e l’altra in formica a simulare la paratia di una nave. Dalla dimensione bidimensionale la mia indagine è passata a quella tridimensionale nell’intenzione di occuparmi di coloro che si trovano al margine, in una situazione “periferica”. La strada è diventata il mio studio a cielo aperto.
Nel 2012 iniziava così il primo progetto “su vita” intitolato Opera Viva – B.A.R.L.U.I.G.I. In questo modo sottolineavo la mia intenzione di essere assolutamente responsabile rispetto a tutte le risorse esistenti, operando con materiale trovato in maniera fortuita.
Il bar sotto casa, dove mi recavo al mattino a far colazione, stile anni Cinquanta e in forte crisi economica, era di proprietà di un certo Luigi e sembrava la location ideale per avviare una nuova progettualità, volta ad utilizzare il preesistente ad appannaggio dell’arte e della creatività, in una relazione biunivoca.
A partire dal nome che interpretava un acrostico: B.A.R. L.U.I.G.I., Base Aerospaziale Ricercatori di Luoghi di Utopie Indipendenti dalle Geometrie Ignote, sviluppai l’idea di realizzare un franchising d’arte gratuito che potesse essere un dispositivo di rigenerazione artistica al servizio della società. Iniziai a collegarmi al mondo con la rete digitale, che attraverso il mio pc diventava quotidianamente strumento di ricerca e connessione sociale. Pensai così di “coltivare” luoghi in cui si potesse esperire “l’Utopia dalle Prospettive Incerte”: qualsiasi spazio preesistente, pubblico o privato, si poteva quindi trasformare in uno spazio di accoglienza creativa, gratuito e senza filtri. Un negozio di parrucchiere, macellaio o casa privata, potevano essere luoghi creativi connessi attraverso un network, Facebook: all’interno del Bar Luigi, lavorando quotidianamente per 365 giorno all’anno riuscii ad attivare 19 B.A.R.L.U.I.G.I. nel mondo. In questo modo valorizzavo le risorse energetiche del locale, stratificandone le opportunità. Questo progetto è stato “inefficiente”, nei termini che non ha dato mai alcun rendimento, ma ha fatto esprimere la lateralità, l’altrove avvalendosi del contributo di tutti. Dopo circa un anno e mezzo, non avendo mai interferito economicamente con il locale, a seguito di due rapine, Luigi decise di chiudere l’attività. Questa nuova condizione fisiologica divenne per me un’opportunità per definire l’intero quartiere di Barriera di Milano – OPERA VIVA: operai il Check Point del quartiere, in Corso Giulio Cesare, dichiarando Barriera “base d’accoglienza creativa” e presidiandola con un binocolo, un passaporto e un fucile fatto con una scopa. La relazione umana diventava così centrale per la realizzazione del progetto.
Quando Opera Viva “abbraccia” anche la città di Taranto?
Nel 2015, in seguito all’invito a partecipare ad una mostra nella “città vecchia” di Taranto.
Erano trent’anni che non tornavo a Taranto dopo la morte dei miei genitori e mi ero ripromesso che ci sarei tornato solo per un motivo per me molto significativo.
È stata questa l’occasione di allargare Opera Viva alla città, proponendo il progetto di mostra come esito di un soggiorno di ricerca in Taranto Vecchia, luogo dai risvolti sociali difficili, “indipendente e dalle geometrie incerte”.
Consapevole di dovermi muovere con cautela, anche nell’impiego di un linguaggio accessibile a tutti, adottai la tecnica di vestirmi di rosso, con la scritta Opera Viva in bianco, innanzitutto per poter essere facilmente riconoscibile in ogni momento, del giorno e della notte. Mi presentai ai cittadini come artista, dichiarando di essere legato a Taranto soprattutto a livello affettivo e di essere super partes rispetto alla condizione di legalità ed illegalità che il territorio presentava.
Diventai una presenza viva, fissa e assidua, che si poteva incontrare 24/24 h.
Da quel momento sono tornato a Taranto ogni anno, mettendomi a completa disposizione delle persone con il progetto Opera Viva e indossando la divisa rossa per poter interagire con la cittadinanza in ogni momento della giornata. La gente ormai mi riconosce e mi si relaziona in maniera empatica: mi chiamano U’ russ (il Rosso). Mi interessa quindi attivare processualità culturali che possano muovere trasformazioni nella società, grazie a continue incursioni e stratificazioni.
Quali i prossimi sviluppi di Opera Viva?
Partendo dal presupposto che, con Opera Viva, il mio intento sia quello di agire con interventi artistici, esemplari ed esemplificativi, che possano essere accessibili a tutti per poter essere eseguiti ed assimilati dalla cittadinanza, vorrei apportare cambiamenti e trasformazioni lente, ma significative attraverso l’arte della relazione e del dono.
Sento l’urgenza di comportarmi in questo modo.
Mi definisco district artist, cioè un artista di quartiere, che opera per conoscenza del territorio in cui interviene e in questo senso immagino di incrementare e approfondire la mia ricerca.
Io, come artista, ho scelto di appropriarmi del tempo esistenziale e in una certa misura di diventare uno strumento attivo a favore della cittadinanza. Vorrei così promuovere il ruolo del district artist come professione futura, istituzionalizzandone la figura. Si potrebbe pensare ad un bando pubblico coinvolgendo anche le Accademie di Belle Arti per fornire nuove prospettive lavorative ai neo-laureati.
Un altro progetto di cui vorrei verificare la fattibilità è creare studi d’artista all’interno delle scuole, per sfruttare ulteriori risorse didattiche attraverso la pratica artistica. Si creerebbero così interferenze e sinergie positive per la crescita socio-culturale della comunità.
Differenze e similitudini tra Torino e Taranto?
Il moto interiore che mi spinge ad operare attraverso l’arte è il sentimento. Lo stesso sentimento che mi lega a Taranto e a Torino. Mi pare di avvertire più facilmente le analogie tra le due città: entrambe hanno vissuto il sogno della grande industria e della promessa fatta alle proprie comunità, purtroppo miseramente tradita.
Opera Viva si occupa di intervenire in questi luoghi “scarichi” di energia verificando come l’arte possa in qualche modo subentrare e “rendere viva” la vita comune. Da queste due esperienze sono nate nuove opportunità sull’Atlante in Marocco, nelle periferie di New York, a Cosenza, nel Porto di Calais…
Cos’è per te la periferia?
La periferia è un concetto numerico. Esiste l’1 e il 2. L’1 è la verità e produce fissità perché concentrato su se stesso. Il 2 è la periferia ovvero la contrapposizione tra le parti, dove si crea il confronto e quindi l’energia prolifica.
Potresti raccontarci un aneddoto che nel corso della tua ricerca ti ha segnato particolarmente?
Direi innanzitutto che a rendere la mia indagine artistica per me irrinunciabile è la relazione con la gente comune.
Recentemente mi trovavo a Taranto passeggiando lungo la Marina, una delle due parti in cui si divide l’isola della città, dove si trovano una serie di case popolari costruite nel 1936 da Benito Mussolini. Gli abitanti hanno denominato questi edifici case dei cortili, perché nella parte interna si sviluppano spazi ampi, i cortili, vissuti da tutti gli inquilini, soprattutto dai bambini.
Camminavo, vestito di rosso, vicino ai pescherecci e tre bimbi molto piccoli mi hanno chiamato e, battendo le mani, hanno intonato una cantilena “È Filomena! È Filomena!”.
Filomena è la nonna del quartiere, capostipite di una famiglia molto numerosa.
Sollecitato dal richiamo dei bimbi ho attraversato la strada, li ho raggiunti e insieme a loro ho iniziato a battere le mani e a ripetere il nome di Filomena nello stesso modo cadenzato. Tutti gli abitanti della casa di cortile in cui mi trovavo si sono affacciati o mi hanno raggiunto in strada intonando con me il ritornello. Nei giorni successivi incontrandomi le persone accennavano alla canzone… È diventata un’operazione virale…
Ti ho così configurato che cosa significhi per me arte e in particolare Opera Viva.
Come nasce il progetto “Veliero Opera Viva” presso il BricoCenter di Via Cigna, uno dei tuoi ultimi interventi di quartiere?
La progettualità dedicata al veliero nasce nella città di Taranto l’anno scorso quando denominai l’Isola di Taranto Vecchia, Isola dei Famosi, installando con la corda uno striscione in pvc che riportava la stessa dicitura. A distanza di un anno l’installazione si trova ancora nello stesso posto, tutelato dalla comunità. Quest’anno all’Isola mi sono imbattuto in una situazione più fluida, meno dedita all’isolamento e così ho trasformato l’Isola dei Famosi in un Galeone che non ha mai avuto modo di attraccare, percependolo come una sorta di autoritratto dell’isola, i cui abitanti sono marinai. Ho disseminato nella città vecchia numerosi galeoni dipinti su teloni di materiale isolante, dai muri alle sedi degli spacca-cozze alle piccole imbarcazioni.
Allo stesso modo ho pensato che nel quartiere di Barriera di Milano confluiscono numerosi “marinai”, dagli antichi ai nuovi migranti, che hanno solcato il mare per raggiungere la terraferma.
Il veliero è un segno, un tatuaggio, che descrive il senso del viaggio e pone a confronto Torino e Taranto.
È stato un intervento piuttosto semplice. Ho girato il cartellone pubblicitario, 6 x 8 m, del Brico trasformandolo in un supporto sul quale sono intervenuto con una bomboletta spray blu: l’opera è ora a disposizione di tutti fino a fine giugno e tornerà alla luce a novembre, durante l’Art Week torinese.
Un ultimo accenno al manifesto “Opera Viva Barriera di Milano”, progetto nato in collaborazione con Flashback, la manifestazione dedicata all’arte antica e moderna, in programma dal 1 al 4 novembre al Pala Alpitour di Torino?
Quest’anno a maggio è stata attivata la quarta edizione del progetto, che, come di consueto, fino a novembre segnerà le tappe di avvicinamento a Flashback.
Nata da una mia idea, la progettualità è curata da Christian Caliandro e sostenuta da Flashback nella prospettiva suggerita dal claim All Art Is Contemporary, che si sviluppa intorno all’intendimento che esista una stretta relazione tra arte contemporanea e spazio pubblico.
Nella convinzione che l’arte debba uscire dagli spazi istituzionali e confondersi costantemente nella realtà, le opere si integrano felicemente nella dimensione dell’esistenza quotidiana mediante il supporto del manifesto, che diventa finestra sul mondo e, al tempo stesso, interstizio da esplorare.
Un manifesto, quindi, di sei metri per tre nella rotonda di Piazza Bottesini nel cuore di Barriera di Milano, è il luogo in cui gli artisti, diversi, selezionati in seguito all’attivazione di un bando pubblico, saranno accomunati da un approccio originale e innovativo alla pratica artistica.
Un modello ideale per opere che sfuggono al loro statuto diventando un manifesto simil-pubblicitario, che nega il linguaggio della pubblicità nel momento stesso in cui lo utilizza, trasformando i fruitori in “pioneri” di nuove dimensioni.
La prossima artista che interpreterà il manifesto è Irene Pittatore.
*Intervista tratta da Espoarte #102.