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Frequenze: un titolo azzeccato per la mostra personale dedicata ad Alberto Gianfreda, giovane e agguerrito scultore che da anni, e con meritati riconoscimenti, prosegue nella sua ricerca plastica, riversando una grande attenzione ai materiali ed alla sua relazione con lo spazio, investendo tempo ed energie, risorse e impegno – come giustamente sottolinea Matteo Galbiati, curatore della mostra insieme a Giorgio Bonomi – nella frequentazione dello studio e della pratica creativa.
Gli abbiamo rivolto alcune domande, nell’attesa – dal 17 giugno fino al 23 luglio – di aggirarci tra le sue creature scultoree, negli spazi della sede monzese di LEO Galleries…

Ilaria Bignotti: Una delle caratteristiche fondanti del tuo lavoro, riconosciute da entrambi i curatori, è quella di unire e far dialogare nella scultura materiali diversi, strutturalmente e formalmente, quali ad esempio il ferro e il legno, o il ferro e la terracotta. Perché? Amore per le contraddizioni o sfida continua?
Alberto Gianfreda: Non si tratta tanto di contraddizione, ma piuttosto di sfida, nel senso che ogni scultura mette alla prova se stessa, per sopravviversi. Create con materiali così diversi, le mie sculture possono anche correre il rischio estremo di non esistere affatto: la terracotta incontrando il ferro in cottura può frantumarsi, ma può anche raggiungere l’equilibrio di una reciproca indispensabilità. Solo così la scultura può esistere.
Per quanto riguarda il dialogo tra i materiali scelti, è proprio dalla “comunicazione” tra loro che si determinano, alla fine, una forma e la sua struttura: una, tra le tante possibili. L’incontro tra i materiali è infatti una questione indipendente dal fatto formale e da quello strutturale, in quanto nelle mie sculture la forma e la struttura sono conseguenze di una relazione tra le parti: dentro ai materiali e alle loro relazioni sono nascoste infinite forme e variabili.

Pare che le tue opere si caratterizzino per un duplice rapporto con l’ambiente nel quale sono immesse: da un lato, indubbiamente s’impongono, con la loro presenza ponderale e forza d’urto eidetica, nello spazio, senza scendere a compromessi. Dall’altro, esse sono comunque in grado di dialogare con l’ambiente, e con il pubblico, come presenze antiche che “già sanno” stare al mondo. Quanto conta la considerazione di questi due aspetti – l’opera nasce per se stessa e per la necessità dell’artista; l’opera deve relazionarsi con il mondo – e cosa prevale al momento della creazione?
Non so che cosa prevalga, entrambe le condizioni sono indispensabili: se osserviamo Poliforma variabile, opera esposta in mostra, essa segue l’andamento della parete, pur potendo ancora assumere altre infinite forme. Dunque è un’opera che dipende dallo spazio tanto quanto lo spazio dipende dalla scultura. Lo spazio è un materiale, come la pietra, il legno o il ferro: in tutte le sue declinazioni, naturale o artificiale, esso si relaziona con gli altri materiali determinando e lasciandosi determinare: dunque, la scultura si impone con lo spazio, piuttosto che nello spazio.

Bonomi sottolinea, nel testo in catalogo, l’importanza dei titoli, dei nomi dati alle tue sculture, quali indicatori di contenuto, chiavi di lettura del lavoro. Paura di non essere compreso, rifiuto per il mistero, o semplicemente volontà di essere chiaro e, come mi son permessa di dire, agguerrito?

Rileggendo la sequenza cronologica dei titoli mi sembra si possa trovare una sorta di racconto nel quale sono evidenziati alcuni passaggi del mio lavoro e della mia ricerca: ogni passaggio ha un nome, dal quale derivano una serie di opere con titoli simili a quello principale. Forse dare un nome ad ogni passaggio è un modo per riflettere e approdare a quello successivo senza dimenticare il precedente, chiarendomi la direzione della ricerca. L’urgenza che si ha quando si scopre qualche cosa di nuovo implica anche la necessità di nominare la “scoperta”: se ogni stupore, provato davanti alla novità, prima o poi svanisce, il mio è un modo di eternare la meraviglia, nominandola. A questo mi servono i titoli.

Ricordo che già alcuni anni fa, Galbiati, altro curatore della mostra, aveva intelligentemente parlato di (S)cultura, omettendo la S e sottolineando l’importanza di questo linguaggio, ancor oggi, nelle giovani generazioni che con coraggio l’abbracciano. Cosa ti ha spinto a essere scultore?
La corrispondenza che lega le esperienze e le trasformazioni subite dai materiali, pressati, compressi, tirati, e le esperienze e trasformazioni vissute dall’uomo con il proprio corpo. La scultura è per me un modo di parlare dell’uomo e della sua materia-corpo nella contemporaneità, epoca per antonomasia dell’immateriale e del senza corpo. Non so se ci voglia coraggio o se sia necessario essere agguerriti per fare scultura, ma un sostegno e un conforto ci arriva dagli artisti già storicizzati, da quelli che eleggiamo a maestri, che di continuo ci mostrano nelle loro opere tutta l’intelligenza della mano, la cultura della scultura o la (S)cultura. Chiaramente è indispensabile verificare di continuo il proprio lavoro con ciò che c’è intorno, con il tempo che corre, con le città e gli spazi che cambiano rapidamente, con la soggettività dei giudizi e con la materia che chiede di essere sgravata per muoversi sempre più rapidamente. È per rispondere a questa realtà che approfondisco i concetti di forza e di variabile quali elementi costitutivi della scultura, in nome di una indagine rivolta non solo al concetto di site specific, ma anche di tempo specifico: quello della forza in costante azione.

La mostra in breve:
Alberto Gianfreda. Frequenze
a cura di Giorgio Bonomi e Matteo Galbiati
LEO GALLERIES
Via Raffaele De Gradi 10, Monza
Info: + 39 396056201
www.leogalleries.com
17 Giugno – 23 Luglio 2010
Inaugurazione giovedì 17 giugno 2010 ore 18.30

In alto da sinistra:
Grande pressione, 2008, terracotta e ferro, cm 50x70x40
Poliforma architettonica, 2010, legno e ferro, cm h 250x150x100 (misure variabili)
Poliforma architettonica indipendente, 2010, legno e ferro, cm 230x360x15, (misure variabili)

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