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Reggia di Versailles | Galleria degli Specchi

Nel 1752 lo scrittore Étienne La Font de Saint-Yenne pubblicò il saggio L’Ombre du grand Colbert, le Louvre et la ville de Paris in cui faceva notare come la produzione artistica dell’epoca, concentrandosi troppo sugli aspetti labili e decorativi, stava mancando l’obbiettivo etico ed educativo verso la nazione francese. Così, invocando lo spirito del politico ed economista Jean-Baptiste Colbert (1619 – 1683), La Font disapprovava l’esuberanza decorativa delle abitazioni aristocratiche, caratterizzate da un arredamento lussureggiante ed invaso da specchi, auspicando, da ultimo, il recupero nelle arti dei soggetti storici[1]. Questa testimonianza ci restituisce un ritratto florido dell’industria degli oggetti di lusso che trovavano posto nei boudoir e negli antri delle abitazioni dell’élite nobiliare dell’epoca, arredi tutti volti ad esprimere virtù attraverso le forme dell’apparire.

La galleria delle ombre di Silvia Giambrone, Reggia di Versailles, Ph. Credit Adrien Dirand, Courtesy Dior

Poco prima, il filosofo Voltaire (1694 – 1778) nel 1751 pubblicò un volume [2] in cui coniò il termine Grand Siècle, in riferimento al periodo di reggenza di Luigi XIV (1638 – 1715) – meglio noto come il Re Sole –, definendo questa fase come un fortunato momento di rigoglio delle arti e del pensiero. L’esemplarità di questo sviluppo intellettuale si manifestava in tutti i campi dell’arte, così come anche nell’architettura, scienza quest’ultima che in quegli anni manifestava soluzioni inedite con la costruzione di imponenti regge e ville. Uno dei capolavori architettonici dell’epoca è senza dubbio la Reggia di Versailles, fatta costruire da Luigi XIV, e deputata ad essere il centro simbolico del regno rispetto alla residenza parigina, designata come sede del potere esecutivo. L’edificazione rientrava nella missione di costruire una sfavillante dimora che potesse essere rappresentativa delle mire espansionistiche del Re Sole; non a caso, la planimetria si sviluppava secondo una forma radiante a simboleggiare il dominio del Re. Il cuore della Reggia è il palazzo, nella cui zona ovest è situata la Galleria degli Specchi, composta da settantatré metri lineari di corridoio finemente decorati da Charles Le Brun e scanditi da una serie di specchi disposti sulla superficie muraria. L’intento era sempre lo stesso: l’espressione di un linguaggio architettonico-pittorico enfatico e celebrativo che potesse incutere timore ed ammirazione verso tutti coloro che si trovavano ad attraversare il corridoio.

La galleria delle ombre di Silvia Giambrone, Reggia di Versailles, Ph. Credit Adrien Dirand, Courtesy Dior

Nel marzo 2021 presso la cennata Galleria, nell’ambito del progetto commissionato dalla Direttrice Artistica delle collezioni donna Dior, Maria Grazia Chiuri e curato da Paola Ugolini, è stato svelato l’intervento site-specific dell’artista Silvia Giambrone (Agrigento, 1981). I quattordici specchi, da cui si diramano delle spine finemente appuntite, sono stati realizzati dall’artista direttamente in Francia, si sviluppano secondo un’altezza di circa tre metri e scandiscono ritmicamente lo spazio longitudinale della galleria con quattro diversi profili geometrici dalle forme sinuose. Siccome non reperibili in natura, l’artista ha prodotto gli aculei spinosi in vetroresina levigandoli e limandoli finemente.
Le opere della Giambrone, sebbene simili a specchi, non riflettono alcuna immagine, poiché le superfici sono ricoperte da uno strato di cera candida dalla quale emergono le spine. Si potrebbero interpretare queste realizzazioni come una forma di sofisma d’arte, in cui degli oggetti, privati all’apparenza del loro normale uso, ci invitano ad eseguire un’azione impossibile da compiere perché contraria alle leggi dell’azione stessa.

La galleria delle ombre di Silvia Giambrone, Reggia di Versailles, Ph. Credit Adrien Dirand, Courtesy Dior

Sull’origine del progetto, la curatrice Paola Ugolini afferma di avere avuto già “da tempo il desiderio di riportare su larga scala le visioni artistiche di Silvia Giambrone. Tanto più che il tema dello specchio affiancato al mondo della moda ha sviluppato un fecondo campo d’azione”. Infatti nel 2018, l’artista aveva già iniziato a lavorare sul soggetto dello specchio spinato e l’occasione di svilupparlo su larga scala per la Maison Dior è stata motivo propulsivo per riflettere come il mondo della moda fungesse da specchio della società, volendo utilizzare in maniera analogica un testo caro alla storia dell’arte giacché “ogni opera è figlia del suo tempo, e spesso è madre dei nostri sentimenti”[3].
La simbologia dello specchio è complessa quanto quella delle spine, poiché entrambi si collegano al soggetto centrale che la Direttrice Artistica ha scelto per la collezione prêt-à-porter autunno-inverno 2021-2022, basato sul mondo delle fiabe e sul tema del “Disturbing Beauty”. In questo contesto, l’installazione della Giambrone sembra porsi come un cosmos dove la bellezza si presenta in tutto il suo fulgido ammaliare, sottintendendo, nel contempo, un aspetto retrattile. A ragione di questa interpretazione è facile individuare gli input d’ispirazione relativi al tema della favola, come il racconto di Biancaneve dei fratelli Grimm che ruota attorno ad uno specchio, alla pari del racconto favola della Bella Addormentata nel Bosco, in cui si narra che la principessa pungendosi con il fuso di un arcolaio cade in un sonno profondo.

Silvia Giambrone, Nobody’s room, 2020, Courtesy dell’artista e di Galleria Marcolini, Forlì

A questo punto è utile far emergere una questione che ci permetterà di scoprire il sottile confine distopico dei sentimenti opposti, così ben espressi dalle opere della Giambrone. A cosa adducono le punture di un arcolaio e di una spina vegetale, arrecano lo stesso dolore? Si può rimanere feriti anche da qualcosa di diverso da un oggetto? Le risposte si individuano nelle performances di Silvia Giambrone, in cui trova il suo sviluppo il tema della bellezza degli opposti assieme a quello della violenza domestica e verbale. Nel progetto digitale Nobody’s Room. Anzi, parla a cura di Carlotta Biffi ed ideato nel 2020 per il Museo del Novecento di Milano, ora fruibile nella piattaforma Google Art & Culture, la Giambrone recita, di fronte ad una mezzaluna da cucina come fosse microfono, degli stralci testuali tratti dall’opera del poeta bosniaco Nedzad Maksumic (Mostar, Bosnia-Erzegovina, 1961). Le frasi sono incisive e paradossalmente non danno alcuna possibilità di scelta, rappresentano consigli pratici di vita ispidi e laceranti, floridi di opposti; indicazioni specifiche, in altri termini, di come comportarsi in caso di guerra, a tal proposito Maksumic afferma“se scegli di vivere prova a proteggere te stesso e forse a salvarti la testa. Se non ti riesce, almeno non ti annoierai”[4].

La coreografia di Sharon Eyal ideata per la Maison Dior presso la Reggia
di Versailles, Ph. Credit Adrien Dirand, Courtesy Dior

Le parole performate sono come spine o lame che entrano nella carne viva, aprendo delle ferite laceranti, frasi spietate e sfacciate per la loro potenza verbale. Da queste letture nascono i messaggi vocali delle persone che, a seguito della visione della performance della Giambrone, hanno fatto emergere dalla loro coscienza stati d’animo soporiferi nati nel periodo della pandemia in ambiente domestico.
Ritornando alla galleria di Versailles, lo specchio, in quanto oggetto quotidiano, nasce dalla chimica di elementi che, mescolati assieme, generano una superficie argentata capace di specchiare. Questo manufatto dà conformazione alla nostra identità, quale strumento gnoseologico, diventando una prerogativa strumentale sulla quale si basa il nostro modo di rapportarci con il mondo esterno. Nella cultura settecentesca lo specchio non era solo uno strumento d’uso quotidiano, ricopriva anche la funzione d’oggetto d’arredo che accompagnava gli interni ingombrati da ninnoli esotici. Questo desiderio di circondarsi di “piccoli paradisi molto terresti”[5] deriva dal profondo senso di noia della società dell’epoca, aspetti ravvisabili anche nell’attuale società contemporanea che considera l’identità esteriore fulcro dell’essere. Ecco quindi che gli specchi di Silvia Giambrone si pongono come occasione di studio dell’humanitas, così che l’installazione presso Versailles si completa con l’azione umana, in particolare con le coreografie ideata da Sharon Eyal che riescono a evidenziare il sentimento di attrazione e repulsione, punto focale dell’opera dell’artista. Fondendo musica, danza, moda ed arte si tocca la delicatissima sfera dell’animo umano, attraverso la quale emerge la parte più spirituale dell’essere. Vasilij Kandinskij aveva saputo interpretare questa complessità connaturandola con “la danza del futuro, che sarà all’altezza della musica e della pittura contemporanea, saprà anch’essa realizzare, come terzo elemento, la composizione scenica, primo frutto dell’arte monumentale.”[6]
Nella galleria delle ombre, le arti conglobano il dualismo umano e fanno emergere i suoni delle corde emotive, espressività questa molto diffusa anche nel Grand Siècle, con una diffusione iconografica del tema di Amore e Psiche [7], mito che per eccellenza rappresenta antipodi di stati contrastanti.

La galleria delle ombre di Silvia Giambrone, Reggia di Versailles, Ph. Credit Adrien Dirand, Courtesy Dior

Non da ultimo è altrettanto utile notare che l’installazione di Silvia Giambrone si pone in dialogo con la storia simbolica della galleria degli specchi: nella società ancien régime, di cui è figlia la Reggia di Versailles, il corridoio è simbolo della politica dell’assolutismo francese e della potenza patriarcale. Con l’intervento dell’artista, gli specchi sono celati sia a dimostrazione del conflitto tra il sesso maschile e femminile sia della bellezza duale tra violenza e attrazione, temi trattati anche nel video Domestication (15’, 2020) prodotto da In Between Art Film in occasione del progetto Mascarilla 19 – Codes of Domestic Violence. Nel filmato ritornano le spine, che con una precisa operazione, vengono addentate da un uomo, il quale prosegue l’azione nonostante dei residui si posino sulle sue labbra; alla fine, le spine si trovano tutte disposte ordinatamente sul tavolo di un ambiente domestico. Così il mazzo di rose gialle, da cui sono stati staccati gli aculei, al termine dell’azione è “addomesticato”, libero di essere maneggiato senza alcuna difficoltà. Il video, oltre a voler riflettere sul tema della violenza domestica, emersa in particolar modo a causa della situazione pandemica, è anche uno stimolo per una riflessione sull’Io. Forse la nostra identità dipende dal nostro ruolo e dalla nostra responsabilità nel perimetro delle mura domestiche? È la stessa Silvia Giambrone a riflettere su questo tema, precisando come: “parlare di ruolo è come parlare di responsabilità, quali ruoli ti vanno bene? con quali ti identifichi? […] è difficile far quadrare tutti i conti sulla responsabilità, alcune responsabilità sono immagini di te, così l’identità diventa come un gioco di specchi in cui non ti ricordi quale è l’immagine autentica e quale il riflesso.”[8]

Silvia Giambrone, Domestication, 2020, Courtesy dell’artista e di Fondazione In Between Art Film

In conclusione, sorprende vedere come questa riflessione sull’aspetto duale dell’essere umano, così complesso e spiazzante per la sua profondità, sia gestita da Silvia Giambrone con una forte cognizione personale. L’artista, quando le viene chiesto di completare la frase liberamente ispirata ad una citazione di Carla Lonzi (1931 – 1982) “Io dico Io I say I” risponde “io mi sono fatta un autoritratto nella vita: essere all’altezza di un universo senza risposte. È un’immagine ambiziosa sinonimo di godere del mistero di se stessi, un mistero che si rivela e si trasforma continuamente, in un negoziato con l’altro che non ha l’obbiettivo di vincere o di perdere, ma di andare alla pari, che è la cosa più difficile.”[9]

Per visualizzare il the making of della Galleria delle ombre di Silvia Giambrone a Versailles: https://www.youtube.com/watch?v=HMiJag_-36c

 

[1] Orietta Rossi Pinelli, Le arti nel Settecento europeo, Einaudi Editore, Torino, 2009, pp. 224-225

[2] Voltaire, Le Siècle de Louis XIV, Éditeur De Francheville, Berlino, 1751

[3] Vasilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, 1911, a cura di Elena Pontiggia, 2005, SE editore, p. 17

[4] Nedzad Maksumic, Indicazioni stradali sparse per terra

[5] Orietta Rossi Pinelli, op. cit., pp. 92-93

[6] Vasilij Kandinskij, op. cit., p. 84

[7] Orietta Rossi Pinelli, op. cit., p.10

[8] Video intervista di Silvia Giambrone tratta dal catalogo dvd, Intell-Ego, mostra a cura di Roberto D’Onorio, Museo Bilotti, 2012, Roma, 11’40’’

[9] Video intervista di Silvia Giambrone eseguita in occasione della mostra Io dico Io – I say I, presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, a cura di Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini, dal 01/03/2021 al 23/05/2021, 2’30’’

 

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