Nello studio di Renzo Marasca a Lisbona
Intervista all’artista di Valeria Carnevali
Un terso pomeriggio a Lisbona ed una piacevole visita nello studio di Renzo Marasca, uno dei nostri artisti connazionali che hanno scelto la capitale lusitana come base di vita e di lavoro. La pittura si fa trasparenza, dalle sue parole emerge una profonda riflessione sul legame tra l’esperienza artistica e l’ambiente.
Renzo apre le porte sulla sua produzione recente, e la sensazione è di freschezza immediata: la chiave della sua ricerca attuale è la trasparenza, ed il risultato sono grandi lavori su carta che sorprendono per originalità cromatica e resa materica. Il luminoso studio all’ultimo piano di un vecchio palazzo della Graça è un approdo per questo ingegnoso pittore eminentemente europeo: passa ramingo dalle colline marchigiane (nasce a Jesi nel 1977) a Istanbul, soggiorna lungamente a Barcellona e a Berlino, per scegliere infine la chiara luce del Portogallo. La sua opera si nutre dell’esperienza masticata in una vita nomade che assorbe sensazioni nei luoghi che elegge come dimora, e di cui metabolizza ogni aspetto: cultura visiva, storia dell’arte, letteratura e filosofia, situazione politica e risvolti sociali, ma soprattutto fenomeni e suggestioni ambientali. La sostanza della sua astrazione si basa su un’incessante indagine formale, che sperimenta con coerenza e determinazione in tecniche pittoriche inconsuete e originali, volte al raggiungimento di una raffigurazione ideale che si traduce in riflessioni sulla monocromia, sulla reiterazione e la sovrapposizione di segni, sulla composizione di campiture dense e ricche di lavoro. Da questo incontro è nata una conversazione epistolare che si è svolta nei giorni seguenti, quando Renzo era immerso nel giallo del paesaggio estivo dell’Alentejo per una residenza.
Ciao Renzo, vivi a Lisbona ormai da parecchio tempo. La trasparenza e la leggerezza che caratterizza la tua produzione recente deriva dalla luce e dall’aria che ti dà la città?
Ciao Valeria, sì, senz’altro. Sono un pittore e credo che il contesto esterno abbia un’importanza fondamentale nel definire la grammatica della pittura. La luce forte e sincera di Lisbona è quasi un elemento architettonico, accentua i volumi e definisce le trasparenze; suggerisce un approccio culturale e scandisce il tempo della città. Da questo punto di vista la luce non riguarda soltanto il fattore fisico dovuto alla collocazione geografica, ma influisce in maniera significativa sulla cultura che un luogo esprime.
Ma il concetto di trasparenza assume anche riferimenti simbolici, come metafora e come allusione…
Non si può parlare di trasparenza senza considerare quell’elemento, naturale e fisico, che nella storia dell’essere umano, ha sempre avuto un ruolo non soltanto simbolico ma, addirittura, iniziatico: la luce. La trasparenza, infatti, trova la sua origine dal latino trans parere, ossia far apparire, lasciar vedere, lasciar conoscere; rimanda al trasparente, ad una materia che fa passare la luce attraverso sé stessa. Intrinsecamente legata alla luce, che è alla base della conoscenza umana, la trasparenza porta inevitabilmente in sé il valore del pensiero simbolico.
La tua ricerca intellettuale è profonda e pari a quella tecnica: non è facile rendere la trasparenza con i mezzi tradizionali della pittura e tu sei arrivato a questi risultati attraverso lungo studio e sperimentazione. Vuoi accennare a come hai proceduto?
Avvertivo l’esigenza di liberarmi dal supporto della tela perché la pratica della mia pittura stava cambiando e i materiali fino ad allora usati non erano più soddisfacenti. Ma non volevo cadere nell’escamotage formale di rinunciare al “luogo simbolico” dove avviene l’atto del dipingere. Quando nel 2019 mi venne proposto di esporre in una torre eptagonale nel sud delle Marche (“Tenere il punto”, a cura di Milena Becci, TOMAV, Moresco (Fm), n.d.r.) accettai producendo una serie di lavori site specific. All’ultimo piano esposi una grande carta monocroma in blu cobalto e la istallai di fronte ad una feritoia che si apriva verso est. La luce filtrava attraverso di essa e disegnava una forma al centro del quadro che, a seconda della posizione del sole, mutava di dimensione e intensità. Più tardi, nel mio studio di Lisbona, ho iniziato a sperimentare tecniche e materiali che mi dessero la possibilità di utilizzare, in pittura, la luce come soggetto dell’opera. Così ho messo a punto una ricetta per un’emulsione di cera acquosa, che desse alla carta di riso quella trasparenza che cercavo. Dipinta in orizzontale, la carta accoglie i diversi strati di cera che, depositandosi, formano una “pelle” pittorica trasparente e leggera che rende visibile il processo in una sorta di cristallizzazione temporale. Inoltre la trasparenza così prodotta fa sì che la luce non sia più rappresentata attraverso l’artificio del chiaro-scuro secondo un’ottica scultorea dei volumi, ma è la luce stessa che, incontrando la superficie – trasparente – del quadro, si fa soggetto. Reputo fondamentale anche l’utilizzo della gestualità e del segno come elemento strettamente legato alla presenza dell’umano. In questo corpo di lavori la luce e la trasparenza trasformano la materia del gesto in impronta, lasciando allo spettatore la percezione della leggerezza.
Sei nel caldo torrido e nella campagna gialla e arsa dell’Alentejo, dove le condizioni sono molto diverse da quelle della città sull’oceano. Cambia il tuo stato d’animo e con esso la tua pittura?
In questo momento mi trovo ad Alvito, una cittadina al centro della regione dell’Alentejo per un periodo di studio con il geografo Jeorge Gaspar, relativo alla conformazione del territorio, in relazione alle mutazioni storiche e culturali. Così leggo il paesaggio circostante con occhi nuovi. Scopro rapporto tra questo territorio e quello toscano; capisco il tipo di relazione sociale tra le terre coltivate e la loro produttività; scopro che la conformazione urbana delle città del sud del Portogallo è di ispirazione romana; scopro lo stile architettonico sviluppato dai musulmani che si trovavano in questi territori poi diventati cristiani; scopro, passeggiando nei campi riscaldati dal sole verticale, che in Europa la contaminazione culturale è ovunque, persino nel giunco che nasce nei fossi del paesaggio brullo che qui chiamano charneca. In questa immersione la pratica della mia pittura è en plein air. Ho la borsa, la carta, i pennelli, i colori e, come un pittore di fine ‘800, mi brucio nei campi, guardando.