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di CRISTINA MUCCIOLI

Educare oltre a impossibile è diventato difficile. Difficilissimo. Mentre istruire è diventato più semplice in regime virtuale e anche più efficace: si pensi alla possibilità di oltrepassare le pareti dell’aula per raggiungere un numero potenzialmente infinito di discenti. È all’interno della dimensione del progetto didattico e del trauma subito con la remotizzazione forzata per il Covid_19 che tenterò alcune considerazioni.

Usiamo anglicismi una parola sì e l’altra pure, e poi ci impantaniamo in un acronimo che sembrerebbe voler dire papà, invece è un trauma: la DaD, la didattica “a” distanza.
Ci ha salvati, la DaD, come non ammetterlo. Ha impedito l’arresto paralizzato delle scuole in ogni ordine e grado, a partire dal nido in taluni casi: piccolini di anni due davanti al tablet, con l’immagine animata della maestra che si danna per lo stimolo psico cognitivo dell’alunno infante. I docenti hanno potuto continuare a lavorare, a fronte di molte categorie di lavori finiti in cassa integrazione o, peggio, disoccupati e ridotti sul lastrico. I discenti hanno potuto continuare a imparare, a tenersi in pari con i programmi, a discutere le proprie tesi di laurea, a sostenere gli esami senza battute d’arresto coatto nel proprio percorso curriculare.

Siamo certi, però, che non vi sia, che non vi sarà spegnimento, in quello formativo?

Perché un conto è istruire, attraverso la trasmissione di contenuti. Tutt’altro è formare. E la formazione, avvertiva già Platone, avviene solo in presenza di corpi. Proviamo a pensarci. Non c’è contenuto, informazione, notizia, formula chimica, nozione filosofica che non possa essere trasmessa on line. E facendo un vero e proprio esperimento mentale, immaginiamo di poterci collegare su Zoom con chi consideriamo Maestro: esiteremmo? Non credo. Impareremmo? Senz’altro. Verremmo formati? Da vedersi, ma direi di no. Lo spazio fisico condiviso, con le sue ristrettezze, i suoi limiti, ci costringe ad autolimitarci, a rispettare gli altri e anche a chiedere rispetto per noi stessi. Ci insegna a stare nei tempi, a sapere che possiamo recare disturbo anche andandocene, ad essere responsabili anche del nostro aspetto. La formazione include il corpo perché esercita l’empatia, che si basa sull’accorgerci della semplice presenza altrui. Ci abitua a leggere la gestualità, gli sguardi, la stanchezza, la difficoltà, l’interesse e il disinteresse, l’entusiasmo e la passione sia di chi insegna sia di chi apprende. Lo schermo ci scherma da questa interazione quintessenzialmente umana.

A mancare, nella didattica a distanza non è tanto il corpo del singolo, quanto il corpo collettivo. Manca il corpo della classe. Punto totalmente irriflesso dalla politica.
A scuola, all’università, si incontra l’amico del cuore, ci si fidanza, magari con chi sarà la donna o l’uomo della tua vita. La classe, il corso di un’annualità ma anche di una semestralità può far accadere l’improbabile: quello di mantenere la propria coesione, le proprie relazioni a lezioni finite ed esami dati. A distanza di decenni si diventa gruppo, magari su una chat, e ci si rivede, ci si incontra nuovamente, ci si confronta, si rammemora insieme, cioè si cum memora.

Valeria Manfredda, Penelope

La sfida sarà salvare questa collettività anche senza corpo. Dobbiamo fare di immagini di monadi, a volte ridotte a uno schermo nero con l’iniziale colorata di un nome, un corpo sociale. Allora potremo tornare a educare, a essere educati come appartenenti a una collettività, a qualcosa di più grande della monade connettiva che siamo, al momento. Tanto per cominciare, questa monade isolata abbia una sembianza. La connessione video venga attivata da tutti i partecipanti. O il docente sarà alienato nel parlare da solo, a uno schermo nero in ascolto. Rendiamoci percepibili, almeno bidimensionalmente. Durante la discussione della tesi o durante gli esami è così, ma lo si esige per controllare l’esaminando, il candidato. Non è sul controllo, però, non è sulla sfiducia che si costruisce un’ipotesi di società che ogni classe è.
La chiameranno Etinet. Io la chiamo condizione minima per la didattica. Il resto è istruzione. Ma per quella soltanto non saranno necessari i docenti. Basterà un tutorial con voce fuori campo, e un call center per le FAQ.

Per le immagini a corredo di questo articolo ho pensato ai lavori di Valeria Manfredda, in tema di vita internettiana, del titolo Penelope realizzati in fibra ottica illuminata e telaio di legno. Lavori pensati e progettati durante l’Accademia.

Cristina Muccioli

Cristina Muccioli è docente di Etica della Comunicazione all’Accademia di Brera di Milano e di Antropologia culturale e Psychology of Design all’Istituto Marangoni.

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