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Webcam, l’immagine di una comunità senza spazio

di Alberto Gianfreda

Solo pochi mesi fa mi confrontavo con i colleghi della scuola di scultura per approfondire il rapporto tra didattica e spazio. Seppur nella differenza delle riflessioni sembrava certo che lo spazio fisico fosse la condizione irrinunciabile per migliorare la qualità dell’insegnamento e dei risultati, almeno fino a quando il lockdown non ha messo in scacco le attività di laboratorio obbligando anche l’Accademia alla chiusura. Da oltre un mese i corsi pratici, scultura e tecniche, si stanno svolgendo online in completa assenza di spazi fisici condivisi, costringendo a rivedere qualsiasi riflessione fatta in precedenza sul rapporto di indispensabilità tra spazio e didattica.
Senza che ci fosse il tempo di prepararsi a nuovi metodi di insegnamento, ho iniziato ad operare a pieno regime, ripetendo modelli e orari dei corsi pre-quarantena, accorgendomi, giorno dopo giorno, che non è possibile replicare le lezioni e che, soprattutto, non è possibile rivolgere allo studente le medesime richieste di prima che si giustificavano sulla convinzione che spazi e strumenti, messi a disposizione dall’istituzione, fossero uguali per tutti.

Screenshot degli studenti che dialogano durante il corso di tecniche della scultura, 20 aprile 2020

Non essendo possibile “riprodurre” le attività pratiche, mi chiedo, che cosa sia importante salvare e riportare nella didattica online dell’esperienza laboratoriale. Adesso le condizioni di partenza non sono più accomunate dall’istituzione ma sono profondamente differenziate da studente a studente perché strettamente dipendenti dal contesto famigliare e domestico. Queste differenze, che in una situazione di “normalità” vengono affievolite e rese meno rilevanti da spazi e strumenti comuni, diventano al tempo del lockdown determinanti nella definizione delle pratiche di insegnamento. Infatti, nel gruppo c’è chi (come accade sempre) non ha lo studio personale sotto casa e chi con cinque fratelli deve dividere il piano d’appoggio. Chi ha materiali naturali da raccogliere nel giardino e chi ha un piccolo balcone. Queste differenze che possono essere più facilmente rilevabili incontrandoci fisicamente, risultano invece mascherate dall’immagine generata dalla webcam che è, di fatto, l’unico spazio di cui disponiamo per relazionarci.
Questa immagine-spazio però non agisce come lo spazio fisico comune, che unisce generando un gruppo dalle uguali condizioni ma, nella sua pochezza, svilisce i soggetti, manca di specificità e finisce per uniformare omologando. In questo senso l’immagine livella il gruppo verso un punto qualitativamente indefinito. Le immagini della webcam non hanno odore, non hanno sapore, non sono gustose. Hanno persino una scarsa capacità di solleticare la vista, unico senso su cui dovrebbero saper agire con forza.

Screenshot degli studenti che dialogano durante il corso di tecniche della scultura, 20 aprile 2020

Osservando le reazioni degli studenti e confrontandoci, mi accorgo che risulta urgente ricreare proprio il senso di comunità. In accademia la comunità si definiva naturalmente nei laboratori attraverso la generazione di forme e trasformando materiali in linguaggi. Il gruppo si identificava nel fare intelligente della mano. Gli studenti lavoravano gomito a gomito, guardandosi l’un l’altro, attivando percorsi di autoformazione che si intrecciavano con quelli di formazione.
Oggi per ricostruire la comunità avendo a disposizione solo la limitatezza di queste immagini, elevate a interfaccia principale per la didattica, risulta evidente l’urgenza di attuare una “strategia” dell’attenzione e della cura verso il singolo. Bisogna tenersi aperti ad esiti inattesi e mettere in discussione quella richiesta uniformata che prima era giustificata da altre condizioni. Alla classe che, per prima, richiede di ricevere un’indicazione chiara sulla consegna, non è possibile dire dall’inizio e con precisione quale sia l’attesa. La richiesta non può più essere valida per tutti ma necessita di essere specificata singolarmente: va quindi pattuita assieme. La richiesta dovrà essere il frutto di una responsabilità condivisa tra docente e studente, dalla quale nessuno dovrà desiderare sottrarsi.
L’attenzione alle diversità che, per certi versi, era già in atto prima della quarantena nella didattica dell’arte, oggi richiede di essere potenziata. Questo potrebbe insegnarci a tener conto delle differenze che pongono le condizioni iniziali, che speriamo tornino a diminuire riappropriandoci degli spazi comuni, ma anche a scoprire che la distanza forzata, appena tollerabile in questa situazione, può forse portare ad una crescita delle diversità nelle risposte degli studenti. Differenze che non saranno dovute alla distanza fisica in sé, ma al conseguente innalzamento della specificità della richiesta. Più specificità nella richiesta indurrà a maggior specificità nella risposta, conducendo, nei nostri laboratori domestici, alla crescita di una vera molteplicità dei linguaggi che, a volte, gli spazi delle nostre istituzioni tendono a farci uniformare.
Che dalla didattica dell’arte abbia inizio una vera comunità di Babele dove però le differenze si parlano!

Screenshot degli studenti che dialogano durante il corso di tecniche della scultura, 20 aprile 2020

Alberto Gianfreda nasce a Desio (MB) nel 1981.
Nel 2003 si diploma in scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove si specializza nel 2005 in Arti e Antropologia del Sacro. Dal 2005 collabora con l’Accademia di Belle arti di Brera di Milano presso la quale è attualmente docente di Tecniche per la scultura. Per la stessa istituzione ha ideato e coordinato il progetto MI VIDA experiment indagando i temi della didattica e dello spazio. Nel 2014 fonda assieme ad un gruppo di altri artisti e la curatrice Ilaria Bignotti il movimento Resilienza italiana.
Gianfreda dedica studio e ricerca al linguaggio della scultura, indagando le connessioni tra i temi della resilienza e dell’identità. Cerca nella capacità di adattamento della materia, attraverso sistemi di assemblaggio mobili, irripetibili variazioni formali che rendono la scultura unica in uno specifico momento.

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