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LAVENO MOMBELLO (VA) | fino al 19 agosto e fino al 16 settembre 2018

Intervista ad IRENE BIOLCHINI e MATTEO ZAULI di Luca Bochicchio

L’occasione è la doppia mostra inaugurata il 15 luglio al MIDeC Museo Internazionale del Design e della Ceramica di Laveno Mombello, diretto da Lorenza Boisi: la collettiva Caducità. Il frammento come auto-rappresentazione nella ceramica d’arte italiana, a cura di Irene Biolchini, e la monografica Carlo Zauli. Scultore, ceramista, designer, a cura di Matteo Zauli.

Carlo Zauli, scultore ceramista designer, a cura di Matteo Zauli, installation view al Midec. Foto di Davide Vergnano

L’evento segue di pochi giorni l’inaugurazione del 60° Premio Faenza, un appuntamento (soprattutto nell’edizione d’onore di quest’anno) che si rivela sempre momento di confronto e riflessione sulla ricerca ceramica contemporanea, e che porta Faenza al centro del dibattito internazionale. In questa città vivono e lavorano entrambi i curatori citati, Irene Biolchini e Matteo Zauli, impegnati in un’incalzante e interessante alternanza di progetti di aggiornamento, di ricognizione e retrospezione, rispettivamente autonomi ma in alcuni casi complementari.
Ho voluto quindi approfittare di questa occasione, di questa inaugurazione che vede i due curatori condividere gli spazi del MIDeC con due mostre molto diverse tra loro, per soffermarmi insieme ad essi sul loro lavoro e sulla condizione attuale dell’arte ceramica.

Installation view di Caducità, MIDeC, Cerro di Laveno Mombello. Foto di Davide Vergnano

Nella tua attività di curatrice vanti una rara e singolare esperienza decennale nell’analisi dell’uso della ceramica nei linguaggi artistici contemporanei. Nel 2008 hai infatti curato la mostra Nuove Argille. Linguaggi della giovane ceramica d’arte italiana (FRAC, Baronissi, Salerno), nella quale erano presenti molti artisti all’epoca individuabili appunto come “giovani promesse”, oggi riconosciuti come autorevoli interpreti della scultura contemporanea in ceramica. Puoi provare a tracciare un bilancio della attuale ricerca artistica in ceramica? Hai ancora l’opportunità di lavorare come osservatrice dei fenomeni germinali, quelli appunto considerati più giovani?
Irene Biolchini:
La mostra del 2008 è stata fatta con entusiasmo, prima che con militanza. Ero all’ultimo anno di università e volevo fare un bilancio con un gruppo di artisti che sentivo vicini, e non solo anagraficamente. All’epoca la ceramica non era quella materia cool che sembra essere oggi, anche se molte delle loro ricerche sono poi riemerse nella scena contemporanea. Come curatore trovo nello scambio con chi sta cercando il proprio linguaggio una potenzialità metodologica: si lavora assieme alla costruzione del risultato finito di mostra, discutendo apertamente sugli sviluppi del lavoro e la direzione da intraprendere.  Per questo parlo di linguaggio: non mi interessa tanto il dato generazionale, quanto piuttosto una verginità nei confronti della materia. Ci sono artisti che appartengono a generazioni diverse dalla mia, specie in questa mostra, che grazie alle loro provenienze da altri ambiti riescono a sviluppare una freschezza rispetto al materiale. L’unica riflessione che mi sento di fare rispetto alla ceramica contemporanea – così variegata da obbligare a pericolose generalizzazioni se trattata come insieme – è proprio la sua apertura verso nuove possibilità: mi sembra che (finalmente) la tecnica stia lasciando il passo all’idea e all’ibridazione.

Installation view di Caducità, MIDeC, Cerro di Laveno Mombello. Foto di Davide Vergnano

Oggi, dieci anni dopo quella prima e quasi pionieristica mostra, sei la curatrice, insieme a Claudia Casali, del catalogo del Premio Faenza 2018, un’edizione d’onore della quale sei anche un critico (più giovane) della commissione. 
Sgomberando il campo da qualsiasi pretestuosa giustificazione genetica (sei nata e cresciuta a Faenza, terra di ceramica e del museo più rappresentativo in questo senso, il MiC), come valuti oggi il tuo lavoro di curatrice in questo specifico settore, e come d’altra parte credi si possa conciliare l’attività di guest-curator in un museo come il MIC con quella di critico militante o curatore indipendente, ammesso che tu ti ritenga tale.
I.B
: Per rispondere a questa domanda devo fare una premessa: io ho studiato storia dell’arte a Siena. Per via di quella formazione ho un assoluto rispetto della parola militanza, che coincide per me con una determinata stagione della critica. Mi sembra che oggi si parli troppo spesso di militanza, ma che pochissimi riescano veramente ad applicarla (nel migliore dei casi è una convivenza con una determinata comunità, nel peggiore una parola ad effetto). Militanza, come indipendenza, sono termini che richiederebbero coerenza e (soprattutto) autonomia: per me questa autonomia è rappresentata dalla qualifica di ‘ospite’. Sono paradossalmente ospite nel luogo in cui sono nata, curando per il MIC progetti specifici, disegnati appositamente per quello spazio, costruiti nel tempo. Questo mi offre la possibilità di instaurare delle relazioni umane con gli artisti con cui lavoro, creando legami e progetti che resistono al tempo. Non credo che la mia sia una militanza, intesa appunto nei termini che descrivevo, né un’indipendenza, quanto un esercizio di libertà. La stessa libertà che cerco di portarmi dietro anche quando lavoro in spazi esterni (come nel caso di Laveno o dei progetti a Malta).

Installation view di Caducità, MIDeC, Cerro di Laveno Mombello. Foto di Davide Vergnano

Caducità, al Museo Internazionale del Design Ceramico di Laveno, è il tuo progetto più recente, una mostra collettiva con cui, a mio avviso, sei riuscita a trovare un equilibrio tra le singole individualità artistiche (non poche e di altissimo livello), il concept al centro della riflessione e il mezzo espressivo, la ceramica appunto.
Parlami proprio del concept, come hai pensato di calarlo nella condizione contemporanea che viviamo e, nello stesso tempo, come hai coinvolto gli artisti intorno ad esso.
I.B: Mi interessava indagare come l’interiorità venisse resa da artisti provenienti da diverse generazioni (e che utilizzano diversi linguaggi) tramite visioni parziali e frammentarie. Il tutto trasposto in ceramica, un materiale che per via delle sue capacità plastiche immobilizza il gesto individuale. C’è un’ossessione per la rappresentazione del sé, ma questo Io è sempre diviso, mascherato, bendato, porzionato. Gli artisti coinvolti sono stati contattati proprio parlando del concept; in alcuni casi avevo già chiari i lavori (avendo già lavorato con alcuni di loro), in altri la selezione è avvenuta proprio discutendo assieme del testo Caducità, scritto da Freud nel 1915. Questa mostra è stata possibile solo grazie ad una certa libertà anarchica rispetto alle semplificazioni generazionali e alle convenzioni della tecnica, e per questo sono grata agli artisti che hanno creduto nel progetto e a Lorenza Boisi, il direttore artistico del MIDeC.

Carlo Zauli, Primario Esploso, 1977. Foto di Cristina Bagnara

Matteo, il tuo lavoro di curatore viaggia su due binari paralleli, quello di curatore d’arte contemporanea e quello di curatore dell’eredità di tuo padre. La mostra inaugurata a Laveno rappresenta una tappa di questo secondo aspetto: a che punto è il lavoro critico e storiografico su Carlo Zauli? E come si inserisce la mostra di Laveno in questo tuo percorso?
Matteo Zauli
: Ho sempre l’impressione che il lavoro curatoriale, critico e storiografico su mio padre sia da sviluppare enormemente, non tanto in senso stretto ma quanto in relazione al proprio tempo e al proprio contesto di riferimento, lavorando sui diversi ambiti espressivi della sua ricerca: la scultura, la ceramica in particolare e il design. Un lavoro che è sintetizzato nella mostra che, con Lorenza Boisi, abbiamo pensato per il museo di Laveno Mombello, un luogo davvero pieno di fascino e contenuti. Ma sono convintissimo che il mio ruolo in questo senso, riguardo al lavoro di mio padre, dovrebbe essere quello di collettore: è molto più interessante che di Zauli ne parli qualcun altro, che certamente può fornire visioni più inedite sul suo lavoro. Mi auguro, cioè, per il bene dell’opera zauliana, di rimanere più spesso dietro le quinte.

Museo Carlo Zauli, sala forni. Foto di Andrea Santucci

Una delle pratiche che più ti rappresentano è la residenza d’artista al MCZ. Molti colleghi possono testimoniare quanto sia ampio e condiviso il riconoscimento di questa tua attività nel sistema dell’arte contemporanea, nelle sue molteplici sfumature. Da un paio d’anni hai iniziato dei workshop estivi condotti da un guest artist, nel 2017 Paolo Polloniato, nel 2018 Silvia Celeste Calcagno. Non è un caso che entrambi abbiano ottenuto riconoscimenti importanti nel Premio Faenza. Che tipo di dialogo sei interessato ad animare all’interno di questa triangolazione tra territorio, arte contemporanea, artigianato ceramico e istituzioni museali?
M.Z: Sono da sempre interessato a vedere la ceramica da prospettive inedite e inusuali, che possano fornire ai ceramisti ed agli artisti che lavorano con questo materiale meraviglioso spunti e materiali intellettuali concreti, dai quali far scaturire innovazione nel proprio operare quotidiano.
In questo senso stiamo tentando di innescare cortocircuiti concettuali, ma non privi di emotività, nel sistema delle città delle ceramiche, un network davvero molto stimolante da questo punto di vista, e nel quale vedo moltissime potenzialità inespresse.

Workshop Aicc 2018, Silvia Celeste Calcagno, BLESS THIS HOUSE, video installazione. Foto di Fabio Liverani

Aggiungiamo, infine, il tuo progetto forse più giovane e, a mio avviso, interessante: l’esperienza curatoriale a Montelupo Fiorentino. Dopo la direzione artistica di Marco Tonelli, hai dato vita, nelle ultime due edizioni 2017-2018, a due progetti molto differenti: una residenza caratterizzata da un folto numero di artisti in stretta collaborazione con gli artigiani locali, e una mostra collettiva di artisti internazionali su un tema tradizionale come quello del vaso. Ci sveli alcune peculiarità concettuali e operative dei due interventi?
M.Z: Mi lusinga particolarmente il tuo parere in proposito, che coincide con il mio! A Montelupo siamo riusciti a compiere un iter progettuale a mio modo di vedere virtuoso: per la prima volta la presenza in bottega di un artista non ceramista non solo viene vissuta come un elemento stimolante e con la quale interagire dal punto di vista tecnico, ma diviene la scintilla per un inedito progetto produttivo della bottega stessa, che, in tal modo, si serve dell’artista come di un proprio consulente artistico. Ne nascono oggetti che davvero appartengono al catalogo produttivo della manifattura, ma che respirano di aria nuova, di rarefatta atmosfera contemporanea, e che immediatamente portano la manifattura stessa a poter idealmente essere presente nei contesti internazionali più importanti.

Francesco Simeti per Materia Montelupo, a cura di Matteo Zauli, 2017. Foto di Mario Lensi

Le mostre:

Caducità. Il frammento come auto-rappresentazione nella ceramica d’arte italiana
Artisti: Valentina d’Accardi, Vincenzo Cabiati, Silvia Camporesi, Arianna Carossa, Pino Deodato, Loredana Longo, Nero/ Alessandro Neretti, Ornaghi Prestinari, Paolo Polloniato, Laura Pugno, Alessandro Roma, Andrea Salvatori, Marcella Vanzo, Marco Maria Zanin

a cura di Irene Biolchini

15 luglio – 19 agosto 2018


CARLO ZAULI. Scultore, ceramista, designer

a cura di Matteo Zauli e Lorenza Boisi

15 luglio – 16 settembre 2018

MIDeC 
Palazzo Perabò 5, Cerro di Laveno Mombello

Info: https://midec.org/

 

 

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