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Silvia Camporesi da Forlì

Con quali oggetti e spazi del tuo quotidiano stai interagendo di più?
Ho un rapporto quotidiano con la mia libreria. Prima della reclusione la guardavo di sfuggita ogni volta che entravo in casa, pensando che era particolarmente in disordine e che avrei dovuto riorganizzarla, dando un ordine sistematico ai volumi. Mettere ordine è stata la prima cosa che ho fatto e mi sono resa conto della quantità di libri che ho comprato e che ancora non ho letto. Così ogni giorno li guardo, ne scelgo di nuovi, li sfoglio, di sera e di notte li leggo. Al momento ne sto leggendo tre contemporaneamente: un romanzo (La versione di Barney di Mordecai Richler), una raccolta di racconti (I sommersi e i salvati di Primo Levi) e un saggio (Lettori selvaggi di Giuseppe Montesano). Gli altri oggetti con cui ho un rapporto quotidiano sono i giochi delle mie due figlie, e anche in questo caso, passo parte della giornata a rimetterli in ordine.

Cosa ti manca? La tua personale esperienza dell’“assenza” e della “mancanza”.
Mi manca viaggiare, andare in giro a presentare il mio lavoro e i miei libri, interagire col pubblico; mi manca insegnare, mi manca il fare una mostra (me ne sono saltate tre piuttosto importanti); mi mancano le relazioni, i contatti, gli abbracci, la spontaneità con cui ci avvicinavamo agli amici, mi manca andare a pranzo fuori, vedere mostre, andare al cinema. Mi manca nuotare e passeggiare.
Sono assetata di esperienze fuori casa e sono satura di schermi di computer, di persone viste in modalità digitale, di ritardi sulla voce e di conversazioni che si interrompono a causa delle linee.

Come immagini il mondo, quando tutto ripartirà?
Storicamente le pandemie hanno costretto le persone a rompere col passato e a inventare in poco tempo qualcosa di nuovo. Dovremmo attraversare questo varco alleggerendoci, togliendo gravità alle cose e ripensando il nostro vivere in maniera più equilibrata, più spontanea, più rispettosa. Sarebbe auspicabile che questo passaggio ci spinga a lasciare indietro l’odio, il razzismo, lo specismo, le nostre vecchie idee e che alleggerisca i nostri cuori, le nostre menti. Ma non sono certa che andrà così e che sapremo trarre insegnamento da questo periodo drammatico. Anche in arte immagino che sarà tutto da ripensare, credo si andrà verso un naturale abbandono della sovrabbondanza sia da parte degli artisti che dei fruitori, per avvicinarsi ad una modalità di relazioni e di proposte più essenziale e profonda, volta ad una rinnovata e necessaria sintesi.

Quando tutto questo finirà: una cosa da fare e una da non fare mai più.
Quando tutto questo finirà vorrei andare a nuotare, cosa che mi manca moltissimo. E poi vorrei fare una passeggiata al mare e una in montagna, per constatare che la natura in questi mesi è andata avanti indisturbata e, senza di noi, lo ha fatto nel più splendente dei modi.
E vorrei non avere più l’impulso di cambiare marciapiede quando incrocio una persona.


Silvia Camporesi
(Forlì, 1973). Laureata in filosofia, attraverso i linguaggi della fotografia e del video costruisce racconti che traggono spunto dal mito, dalla letteratura, dalle religioni e dalla vita reale. Negli ultimi anni la sua ricerca è dedicata al paesaggio italiano. Dal 2004 tiene mostre in Italia e all’estero.

Nel 2007 ha vinto il Premio Celeste per la fotografia; è fra i finalisti del Talent Prize nel 2008 e del Premio Terna nel 2010; ha vinto il premio Francesco Fabbri per la fotografia nel 2013, il premio Rotary di Artefiera 2015, e il Premio BNL 2016. Ha pubblicato cinque libri: La Terza Venezia (Trolley, 2012); Journey to Armenia (Quaderni di Gente di Fotografia, 2014), Atlas Italiae (Peliti Associati, 2015), Il mondo è tutto ciò che accade (Danilo Montanari Editore, 2019) e Doppio sguardo (Contrasto Books, 2019). Affianca l’attività artistica all’insegnamento. Sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private. L’ultimo progetto al quale sta lavorando si intitola Il paese sommerso. È rappresentata dalla Galleria Sara Zanin Z2O. www.silviacamporesi.it

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