Intervista a LAMBERTO TEOTINO di Livia Savorelli
Si concludono oggi, con questo sesto episodio dedicato a Lamberto Teotino (1974), le ricognizioni originate da un’attenta e approfondita selezione di alcune opere che hanno colpito particolarmente la mia attenzione ad Arte Fiera e che ho avuto il piacere di approfondire al mio rientro direttamente con gli autori. Dopo i primi cinque capitoli – dedicati rispettivamente a Silvia Camporesi, Tiziana Pers, Amanda Chiarucci, Paolo Ciregia ed Elena Modorati – ritorniamo alla proposta della galleria milanese mc2gallery, che ha presentato in occasione dell’evento bolognese uno stand dedicato al ritratto in cui tre artisti – oltre a Teotino, Paolo Ciregia e Justine Tjallinks – “declinano tra fotografia e pittura la tematica del ritratto, fino a giungere alla sua negazione in favore appunto di una simbologia del ritratto”.
Vanti una pluriennale ricerca legata alla fotografia, declinata attraverso diverse modalità che ricercano la contaminazione con la pittura e la scultura, con riferimenti a cinema e letteratura. La fotografia appare quindi come esito finale sempre celandosi dietro il velo dell’ambiguità, per svelare gradualmente la sua natura spuria. Tracciamo insieme un bilancio della tua ricerca, quali traguardi importanti credi di essere riuscito a raggiungere e quali rimangono sogni da realizzare?
Sono molti anni che mi occupo di indagare il linguaggio fotografico, inizialmente realizzavo io gli scatti ma via via ho abbandonato lo strumento per dedicarmi a fotografie recuperate da archivi sul web. Mi ha sempre interessato studiare l’immagine, la necessità continua è stata la ricerca verso un nuovo metodo di rappresentazione, l’accanimento di presentare un procedimento tecnico e concettuale innovativo all’interno di un campo visivo. Ho studiato molto i meccanismi percettivi di un’immagine e questo mi ha permesso di vivere l’opera come se fossi io lo spettatore, l’idea di spostare l’attenzione più che sul contenuto della scena sulla sua superficie mi ha sempre intrigato, sentivo che mi dava la possibilità di aprire dei varchi. Sparizioni, spostamenti, buchi neri, abrasioni, macchie ecc. sono alcuni elementi che hanno trovato spazio nel mio modo di interagire con la superficie.
Molte volte ho dato spazio all’inganno con l’intento di non rendere chiaro se il risultato finale fosse un’immagine modificata oppure partorita senza ritocchi.
Ho sempre pensato ad un’immagine come ad un dipinto, non a caso il mio linguaggio degli esordi era la pittura poi per esigenze stilistiche ho fatto altri percorsi.
Ad Arte Fiera, nello stand di mc2gallery, le tue opere hanno dialogato insieme a quelle di Paolo Ciregia e Justine Tjallinks sulla tematica del ritratto, declinata tra fotografia e pittura attraverso l’ambiguità della percezione. Di fatto i tuoi lavori sembrano a prima vista opere pittoriche ma l’inganno viene svelato man mano che ci si avvicina e si comprende che ci si trova di fronte a una stampa fine art. Il paradosso è che, in questi lavori, la fotografia suggella la cancellazione, l’imperfezione, la perdita dell’identità… Ci spieghi questa ricerca concettualmente e praticamente?
A prima vista possono sembrare dei dipinti, forse anche alla seconda e alla terza (qui mi riallaccio al discorso che facevo precedentemente sul concetto di inganno in cui non si capisce l’origine della tecnica), ma la cosa divertente e doppiamente spiazzante è che non sono nemmeno fotografie, solo chi le ha viste dal vivo si rende conto di questa cosa.
Questo progetto secondo me è l’unico tra tutti quelli in cui ho utilizzato la stampa a pigmenti che funziona solo se le opere vengono viste dal vivo, altre invece possono essere fruite sia su pubblicazioni cartacee che da un monitor, ma queste opere funzionano solo dal vivo per la resa del pigmento sulla superficie della carta. Durante la lavorazione mi rendevo sempre più conto di non riuscire a collocarle per la loro natura ambigua poi le ho definite pitture senza materia e fotografie senza scatto. Nella pratica sono delle immagini d’archivio di dipinti che ho recuperato dal web e che successivamente ho rielaborato e presentato sotto forma di stampa creando così dei “non” ritratti.
Queste opere fanno parte del progetto “1816”, un periodo storico molto tormentato perché, proprio in quell’anno, una serie di eruzioni vulcaniche cambiò completamente il ciclo delle stagioni, l’inverno durò così a lungo che cancellò completamente l’estate, causando morti per gelo e carestie che devastarono l’Europa… Tu, lasciandoti ispirare dall’atmosfera noir, hai dato una tua interpretazione, partendo anche dagli influssi che ai tempi si ebbero in campo letterario…
Il progetto analizza il secolo XIX, in particolare l’anno 1816 in cui s’intrecciano fatti e avvenimenti rilevanti che determinano la storia contemporanea in maniera significativa, lo storico John D. Post lo ha battezzato “l’ultima grande crisi di sopravvivenza nel mondo occidentale”; fu l’anno senza estate, un disastro naturale come fiore all’occhiello della piccola era glaciale che terminò a metà del secolo.
Gli alti livelli di cenere nell’atmosfera, la diffusione di epidemie, la distruzione di raccolti, la morte di bestiame e le abbondanti nevicate dell’estate di quell’anno, in cui si moriva di freddo, costrinsero l’essere umano a non uscire dalle case, questa estrema condizione di vita fu prolifica per due tra i più grandi scrittori dell’epoca, e fu così che Mary Shelley e John Polidori, costretti a rimanere al chiuso, gareggiarono su chi avrebbe scritto la storia più spaventosa, successivamente diedero alla luce due tra le opere letterarie più scure della storia: Frankenstein e Il vampiro.
La prima opera che ha dato vita al progetto è The Year Without Summer che inizialmente volevo dare come titolo al progetto, poi invece mi sono reso conto che l’anno, cioè il 1816, era il legante di tutto.
Quali sono i progetti che ti vedranno impegnato nel corso dell’anno?
Dopo 1816 in maniera naturale mi sono spostato verso l’indagine del video d’archivio e ho realizzato che si stava creando quella che poi, successivamente, ho definito “la trilogia dell’archivio”. Negli ultimi dieci anni ho fatto una enorme ricerca nella rete, inizialmente ho recuperato fotografie d’archivio, poi immagini di dipinti d’archivio per passare nell’ultimo periodo al video d’archivio. Ora ho ultimato questo progetto video intitolato First Experiment on Failure of Quantum Gravity, composto di vari video indipendenti tra loro, installati attraverso un supporto realizzato da un display in formato 4:3 e da un computer Raspberry Pi che, attraverso un software dedicato, consente di riprodurre il video all’infinito.
Ogni monitor installato riproduce ciclicamente un esercizio fisico, sono scene amatoriali in cui vengono mostrati individui solitari che si allenano nella propria disciplina sportiva. Questo sistema di immagini in loop mette a dura prova i limiti dell’umano e ci fornisce un’estrema visione del supereroe contemporaneo che ripete una specifica azione in maniera ciclica. Esaminando le teorie sulla fisica classica e la fisica quantistica, si viene a creare un cortocircuito nei confronti dei modelli gravitazionali e dello spazio-tempo dimostrando di fatto l’esistenza del vuoto e il fallimento della gravità quantistica.
Cambiamo la prospettiva… da artista a fruitore di Arte Fiera. Quale lavoro ti ha maggiormente colpito e ti è rimasto nel cuore?
Mi hanno incuriosito opere di autori meno recenti, su tutte la video installazione di una performance realizzata nel 2004 da Jimmie Durham intitolata Smashing.
www.lambertoteotino.com
www.mc2.gallery
Gli episodi precedenti:
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #1: Silvia Camporesi
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #2: Tiziana Pers
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #3: Amanda Chiarucci
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #4: Paolo Ciregia
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #5: Elena Modorati