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Intervista a ELENA MODORATI di Livia Savorelli

Giungiamo oggi, con Elena Modorati (1969), al quinto episodio delle ricognizioni che originano da un’attenta e approfondita selezione di alcune opere che hanno colpito particolarmente la mia attenzione ad Arte Fiera e che ho avuto il piacere di approfondire al mio rientro direttamente con gli autori. Dopo i primi quattro capitoli – dedicati rispettivamente a Silvia Camporesi, Tiziana Pers, Amanda Chiarucci e Paolo Ciregia – ci avventuriamo nella poesia dei lavori della Modorati presentati dalla Labs Gallery di Bologna. Entriamo in un mondo in cui, nel rapporto tra sfondo e figura, ambiente ed individualità, il discorso diventa immagine e si perde la percezione di ciò che è reale e ciò che è ricreato, in una surreale messa in tensione che è una delle cifre stilistiche dell’artista milanese.

Veduta di Partiture Illegibili (Max Cole, Marcia Hafif ed Elena Modorati), a cura di Angela Madesani, Stand Labs Gallery, Bologna, ad Arte Fiera 2020. Courtesy l’artista

Labs Gallery per il suo stand ad Arte Fiera ha presentato il progetto curatoriale Partiture Illeggibili, a cura di Angela Madesani, che ti ha visto protagonista insieme ad altri due artisti: Max Cole e Marcia Hafif. Una vera e propria mostra, affiancata a quella omonima inaugurata nello scorso dicembre in galleria e in corso fino al 22 febbraio, che ha messo invece in dialogo le opere di Greta Schödl, Leila Mirzakhani e Nina Carini.
Partiture Illeggibili è, di fatto, un dialogo intorno al segno… Come hai raccolto l’invito e come ti sei posta in dialogo con Cole e Hafif?

Il dialogo con le altre due artiste presenti nello stand ad Arte Fiera è stato immediato e naturale. Pur seguendo differenti logiche e direzioni, i lavori declinano una comune temperatura, un certo modo di accostare rigore e semplicità, razionalità e finezza sensibile. L’allestimento ha poi articolato un rapporto di pesi e volumi trasversale, una ulteriore ”partitura” d’insieme.

Elena Modorati, Interno Fiammingo, 2013, cera, ferro, 47×50 cm. ©Bruno Bani. Courtesy Labs Gallery

Tra i lavori in mostra, Interno Fiammingo, è un’opera che mi ricollega alla tua ricerca, per l’utilizzo ripetuto del modulo in cera che sigilla un foglio scritto. La parola viene così “protetta” ma perde la sua definizione, divenendo sempre più sfocata, divenendo così segno. Come hai declinato questo filo conduttore, nelle delicate teche – Eugènia, Discourse, figure (per G.M.) o Scacchi – all’interno delle quali un objet trouvé dialoga con altri da te modellati con la cera, ricreando atmosfere che hanno il sapore di quotidianità ma anche di irreale sospensione e tensione tra gli elementi. Che ruolo ha la percezione?
La questione del segno la intendo in un’accezione molto allargata, derivata da un paradigma ”mitico” quale può essere il gesto – il ”primo” gesto pur se indefinitamente ripetuto – che segna la trasformazione del paesaggio, del mondo, da estraneo in umano: una linea sul terreno, un solco, che funzioni anche come spartiacque, incipit di una partitura appunto, istituzione di un qui e, di conseguenza, di un altrove… Il rapporto fra tavoletta scritta e natura morta esprime innanzitutto questa centralità fisica, spaziale.
Quindi, a partire da questa centralità, credo vada intesa la dialettica continua fra sguardo e mondo, la specifica dinamica di percepire, rielaborare e dunque esprimere, trascrivere, di ognuno. La realtà si presenta come enigma sfuggente, opacità e ambiguità: lo sguardo appartiene alla stessa dimensione eppure opera aggiustamenti, cerca di ordinare, organizzare, essenzialmente sulla base della propria esperienza. Le mie nature morte, come hai anticipato, provano a lasciare agire il paradosso della relazione e della ripetizione, le corrispondenze baudelairiane e la differenza che agita la serialità… sono una specie di indicatore di attenzione attraverso cui le categorie di reale e artificiale si confondono e collimano in una indefinita allusività.

Elena Modorati, Discourse, figure (per G.M.), 2019, carta cerata, specchio, fiori cerati, in teca di plexiglass, 21x27x19 cm. ©Bruno Bani. Courtesy Labs Gallery

Una di queste opere, Discourse, figure (per G.M.), è un omaggio al grande Giorgio Morandi e alle sue Nature Morte. Come origina questa tua riflessione e come hai declinato il lavoro?
Discourse, figure (per G.M.) è una natura morta esplicitamente riferita a Morandi. In effetti questa tipologia di lavori è il risultato di una riflessione sulla sua opera fin dall’inizio (ma anche il mio gioco, la mia ”casa della bambole”). L’impressione è che la straordinaria intensità dell’opera di Morandi derivi da come la dimensione ambientale – protagonismo della luce, famosa ”polvere”, costruzione spaziale della composizione – riduca il singolo oggetto a presenza sostituibile, silenziata appunto, ma proprio per questo motivo, in un implacabile rispecchiamento con la nostra condizione esistenziale, lo carica di un languore pungente.
Tornando a Discours, figure (il titolo è quello di un saggio del filosofo Jean Françoise Lyotard), il lavoro è composto da due piccole pile di fogli di carta cerata; a sinistra, ho copiato stralci di vecchi testi critici su Morandi, a destra ho disegnato la linea di contorno di alcuni suoi vasi di fiori. Le due pile sono parzialmente sovrapposte al centro formando un intreccio, su cui è posato uno specchietto da borsa in parte dentro una custodia; in corrispondenza dei fiori disegnati, due fiori cerati sono riflessi nello specchietto, in una specie di chiusura dell’intreccio. Un dispositivo che mima una sequenza ossessiva, come a dire: il rapporto fra l’atto del nominare e ciò che è nominato è a doppia banda.

Elena Modorati, Eugènia, 2019, cera, ciotola in ceramica, in teca di plexiglass, 21x27x19 cm. ©Bruno Bani. Courtesy Labs Gallery

Oltre alla collettiva Le supermarché des images, recentemente inaugurata al Jeu de Paume di Parigi e che resterà allestita sino al 7 giugno 2020, ci dai qualche anticipazione sui prossimi progetti che ti vedranno impegnata in questo 2020?
La mostra al Jeu de Paume mi ha permesso di entrare in contatto con alcune interessanti gallerie con cui si sono aperte possibilità che per il momento non hanno una definizione precisa. Altri progetti, a Milano, Torino e Bologna, tra breve si preciseranno meglio…

Cambiamo la prospettiva… da artista a fruitore di Arte Fiera. Quale lavoro ti ha maggiormente colpito e ti è rimasto nel cuore?
Difficile scegliere un’unica opera preferita. In fiera ho visto diverse cose particolarmente interessanti, per esempio i tappeti di Mondino che vedevo dal vivo per la prima volta… Dovendo proprio scegliere, però, opto per un lavoro di Mario Airò: due grandi carte vergini sovrapposte ai cui bordi, stretto fra le due, un filo di nylon molto spesso sbalza il suo moto a spirale.

Elena Modorati, Collezione di farfalle, 2016, cera, carta cerata, contenitori in osso, in campana di vetro, 40xø20. ©Bruno Bani. Courtesy Labs Gallery

Gli episodi precedenti:
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #1: Silvia Camporesi
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #2: Tiziana Pers
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #3: Amanda Chiarucci
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #4: Paolo Ciregia

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