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CANNETO SULL’OGLIO (MN) | BonelliLAB | 23 aprile – 14 luglio 2012
  • I frutti puri impazziscono | testo di Andrea Bruciati

Come se la terra sotto i nostri piedi fosse la deiezione di un qualche cielo
E noi sviliti prigionieri destinati alla fame fino a ingoiare sozzume

William Carlos Williams, Spring & All, 1923

Mi piace pensare alla tela come un respiro all’infinito orizzontale. Mi piace concepirla come una sorta di spazio dialettico fra l’essere e le sue necessità ultime: in cui cioè si assiste al confronto fra la purezza dell’ideale e il suo venirne a capo come corpo fisico tangibile. La pratica pittorica quale sistema cognitivo che non segue una sua deduttività logico-razionale ma quale metodo di indagine e interrogazione continua circa le modalità del suo stesso linguaggio e come espressione di una mitologia tutta personale dell’artista. Questa congruenza fra l’immagine e un alfabeto pittorico fa sì che si traduca plasticamente in una liberatoria letteratura fantastica, una sorta di scala dell’essere aristotelica, percorsa da motivi simbolici, suggestioni e messe in scena ricorrenti in cui si muove, spesso disordinatamente, l’ego dipinto.
La tela però è anche un incontro di amorosi sensi dove è l’anima psichica del soggetto a riemergere, frutto stimolato da una necessità primaria, dettata da un desiderio insopprimibile. La tela è ben altro che un luogo esente dalla promiscuità, in cui frutti puri modernisti non possono che implodere: L’impeto dell’energia pittorica e un immaginario dirompente, vividamente commisto di una personalissima intesa con il reale e di una iperbolica immaginazione, liberano l’artista dal pudore della rappresentazione iconica. Cedere allora e abbandonare la razionalità, la ricerca di qualche astrusa certezza attraverso la pratica pittorica per sondare nuove dimensioni e costruire una personale geografia tellurica. Come il desiderio, il dipingere allora è annebbiamento controllato della coscienza che, attraverso piccoli dissesti, quasi invisibili crepe, cambi d’umore, può darci l’illusione di gestire un disastro alla portata di tutti, l’apocalisse dietro l’angolo.

In Lorenza Boisi, Francesco Clemente, Francesco De Grandi, Valerio Nicolai, l’eclettismo iconografico, condotto secondo una modalità veritiera ed identicamente istrionica, toglie ogni possibile riluttanza nel continuare e perseverare nella pratica pittorica. Coesi seppur eterocliti, essi volgono il proprio interesse ad un celebrato ritorno alla soggettività, che non impallidisce dinanzi ad eventuali accuse di romanticismo, di mancata originalità, perché forte di una adesione simpatetica con la natura ultima dell’artista. Non bisogna mai dimenticare quanto un corpo di colore funga da luogo di attrazione, repulsione, appropriazione simbolica. Sempre, dietro ad uno spiccato materialismo, ad un raffrontarsi diretto con la materia ctonia, fa da contraltare l’aspirazione verso una vera alterità trascendente, motore e processo della tensione espressiva. Al di là della materia seducente nella stesura delle paste cromatiche, se ne percepisce comunque l’incanto: il tempo cessa di essere sequenziale e la tela si offre come una finestra aperta all’infinito. Accorgersi che il paradiso è una condizione del tuo sguardo, come ama sussurrare De Grandi.
La pittura per degli sciamani moderni, condotta secondo modalità liquide in Clemente più acide e disincantate per Nicolai; quale appropriazione non solo contemplativa ma soprattutto come pratica magica ed omeopatica che crede naturalmente di assorbire, con la sostanza materiale, la pasta e il pennello, una parte di quell’assoluto. A differenza di altre metodologie, nella pratica pittorica, fondamentale è l’arte di incorporare, in quanto atto che tende ad aprire, o a far germogliare, la potenza, l’essenza forse, ancestrale dell’atto di somiglianza. Mi piace assistere ad un porsi, fisico, quasi senza pelle dell’artista dinanzi alla tela, dove il cambiamento di stato avviene per contatto, per digestione stessa della realtà attraverso la pittura. Mangiare ciò a cui si vuole somigliare per diventare tutt’uno con ciò che si vuole essere: il mondo, le emozioni che trasmigrano osmoticamente sulla superficie. Come in un’antica leggenda americana degli indiani Kobeua, avviene lo stesso procedimento cosmetico: se un cacciatore uccide un falco ne spremerà il bulbo oculare, come fosse collirio, nel suo occhio poiché ne verrà posseduta, e pertanto potenziata, del rapace la vista.
Niente di più vero se per l’appunto la stessa Boisi afferma:

“Essere pittore significa principalmente essere Pittura. Sentire Pittura”.

Bibliografia di riferimento:
Giuseppe Civitarese, La violenza delle emozioni, Milano, Raffaello Cortina 2011.
James Clifford, The Predicament of Culture, Cambridge (MA), Harward University Press 1988 (Il frutti puri impazziscono, Torino, Bollati Boringhieri 1993).
Georges Didi-Huberman, L’image ouverte. Motifs de l’incarnation dans les arts visuels, Paris, Gallimard 2007 (L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, Milano, Bruno Mondadori 2008).
Hal Foster, Compulsive Beauty, Cambridge (MA), The MIT Press 1993.
Massimo Recalcati, Il miracolo della forma: per un’estetica psicanalitica, Milano, Bruno Mondadori 2011.

  • La realtà è qui | testo di Daniele Capra

Sarei sceso in guerra contro la società, o forse mi sarei soltanto limitato a riprendere le ostilità. Non provavo più alcun timore. Mi dichiarai libero da ogni regola, eccetto quelle che io stesso avessi voluto accettare. E anche quelle le avrei mutate a mio piacere. Avrei afferrato tutto ciò che avrei desiderato. Avrei ripreso ad essere quello che ero, e con più determinazione.

E. Bunker, Come una bestia feroce, Einaudi, Torino, 2001, p. 284.

 Abbiamo passato gli ultimi decenni a discutere l’attualità e l’inattualità della pittura, decretandone la morte e la rinascita, alternando ripetutamente momenti di entusiasmo ad altri di scarsa attenzione, come se tale medium avesse in sé delle caratteristiche di attualità/inattualità a prescindere dai cui i contenuti estetici, linguistici o politici delle singole opere. Viste con gli occhi dell’oggi, tutte quelle che abbiamo alle spalle paiono invece occasioni mancate, onanismi intellettuali da Pangloss – il precettore di Candido nell’omonimo conte philosophique di Voltaire che incarna il ruolo del filosofo chiacchierone – troppo entrati nella parte. Banalmente abbiamo adottato un approccio ideologico a questa forma espressiva, caricando di volta in volta la parola pittura di tendenze reazionarie o progressiste, a seconda delle nostre finalità e di una retorica avanguardistica che, ora che siamo in piena epoca successiva al postmoderno, finalmente pare in declino. E giova segnalare comunque come tutt’ora nel nostro Paese, in ambienti accademici e nel gergo degli addetti ai lavori, l’uso della parola “pittore”, nel senso di “artista che pratica la pittura”, sia usata in forma limitativa, sottendendo cioè un sottile disprezzo o valutazione negativa nei confronti della persona cui è riferita.


La pittura invece, al pari degli altri media, sopra qualsiasi motivazione possibile ed immaginabile, semplicemente esiste, e non ha bisogno di chiedere permesso a nessuno per stare al mondo, come è sempre stato a partire dalle grotte di Lascaux ed Altamira a Picasso (il quale sembra amasse ripetere che “dopo Altamira tutto il resto fosse è decadenza”). È solo necessario avere le orecchie per ascoltarla parlare, per leggere quelle parole che troppo frequentemente sono state solo manipolate. In ultima istanza potremmo così definire l’opera pittorica essenzialmente come un campo di relazioni con codici che sono propri, ma che sono sottoposti a continui micro-aggiustamenti. Se da un lato sembra ancora efficace l’idea che l’opera sia a tutti gli effetti un ipertesto in cui è possibile muoversi in forma trasversale e senza un ordinamento cronologico prefissato, non dobbiamo sottovalutare come l’ipertesto stesso sia costantemente e perennemente aggiornato dal continuo lavorio di coloro che partecipano sia alla ricezione dei contenuti che alla produzione. Potremmo cioè dire che il senso è una costruzione collettiva che avviene ai giorni nostri con le stesse dinamiche accelerate dei social network: l’ipertesto non è cioè fisso e concluso, ma risente di una nuvola di relazioni che tengono in tensione l’opera e la fanno appartenere al mondo affidandole “banalmente” lo status di arte.
La pittura è tutto questo, e non esclusivamente una delle tecniche utilizzata dagli artisti: è una brutta bestia che gioca con la realtà, a partire proprio da sé, e che continua ad esistere anche se siamo al buio o se non guardiamo nella sua direzione, come testimonia il lavoro di Matteo Fato, Giovanni Frangi, Giuseppe Gonella ed Aleksander Velišček. Nel lavoro dei quattro artisti, infatti, sono presenti le polarità fondanti di ogni pratica di ricerca, quegli approcci che combinati opportunamente rendono possibile collocare sul piano interpretativo ogni declinazione artistica. Gli elementi sono quelli della modalità estetica pura, cui fa da converso l’aspetto politico-sociologico, e su piano adiacente l’analisi percettiva visionaria che ha una controparte sull’opera stessa nella riflessione metaartistica e nel tentativo di trasformazione.
Deformando il celebre motto, possiamo così cogliere come painting for painting’s sakes sia la direzione verso cui tira la corda Gonella, attento a fare della pittura un discorso sulla superficie, sulla composizione e sulla tecnica; come pure quella engagé sia il lato caldeggiato da Velišček, che è attento a smascherare, anche nella sua crudezza, i rapporti di potere che simboli o pornografia mettono in scena. Parimenti Frangi è la ricerca sulla percezione e sulla visione, sulla “emotion recollected into tranquillity” cara a Wordsworth, mentre Fato riflette sulla valenza stessa della pittura, del soggetto, e sulle possibilità di sottrarsi alla nuda bidimensionalità del medium.
Inevitabilmente queste sono le direzioni principali, le componenti più forti cui sono attratti i quattro artisti, ma non sono certo le uniche dato che, banalmente, sono il risultato di interazioni complesse. Il gioco è così quello di individuare relazioni di forza e dipendenza tra le polarità (con l’avvertimento metodologico che le chiavi di lettura non aprono certo tutte le porte), avendo la cura e le attenzioni del caso, dato che ci si sta muovendo in una scacchiera che è prima di tutto un campo di battaglia. Ma è dalle frizioni continue che nasce la dinamica del senso, di quel valore che trasforma un pezzo di tela o una carta in un oggetto che non smette mai di interrogarci. La realtà è qui, non sentite bussare alla porta?

  • Route tournante en sous bois | testo di Federico Mazzonelli

Che cos’è un quadro? Quali sono i limiti dell’immagine dipinta e quale la possibile estensione di quest’immagine al di là della sua dimensione puramente spaziale? Il problema del quadro (e della percezionedelle immagini in esso contenute, che possiamo anche chiamare estensione) caratterizza uno dei temi più dibattuti della cultura visiva occidentale fin dal Quattrocento. Tema molto suggestivo ma fin troppo complesso per essere in questo contesto anche solo accennato, può tuttavia costituirsi come una sorta di prospettiva di lettura aperta rispetto alla complessità e all’irriducibilità della pittura contemporanea, soprattuttto in un momento come l’attuale che ha ormai sancito la definitva caduta di ogni etichetta ideologica, storica o metastorica, di questa disciplina (non solo il modernismo, con l’enfasi della grande astrazione, ma anche il neo-espressionismo, il transavanguardismo e in generale tutto l’approccio post-moderno e oltre). Il percorso visivo di Route tournante, costituito dai lavori di Pontrelli, Manto, Beninati e Silva, trova quindi un insolito punto di partenza nella definizione di quadro data nel 1690 dallo storico francese Furetière e ruota attorno ad una serie di dicotomie formali e contenutistiche quali testo e fuori-testo, immagine e anti-immagine, verità ed illusione, rispetto alle quali si posizionano e si strutturano i lavori di questi artisti.

“Quadro: immagine o rappresentazione di cosa eseguita da un pittore con pennello e colori. I quadri dipinti su tela sono più comodi per il trasporto. I quadri con bordura fanno miglior figura degli altri. Sono senz’altro i quadri tra le curiosità più belle.”

La definizione di Furetière acquista, al di là del contesto specifico, un significato importante rispetto al percorso visivo lungo il quale si sviluppa Route tournante en sous bois, per la preminenza che il teorico francese riserva, con uno spirito sorprendentemente contemporaneo, all’aspetto dell’immagine e della rappresentazione, prima ancora che al soggetto che la crea -il pittore – o alla sua dimensione materiale -colori, supporti, dimensioni e strumenti di realizzazione). La pittura di Route tournante opera infatti per immagini, per suggestioni visive. Sospese tra le parole e le cose, equidistanti tanto dalla fisicità dell’oggetto rappresentato quanto dalla volontà di fornirne una descrizione/definizione, le immagini che abitano questi lavori sembrano assestarsi nella dimensione del divenire, partecipi delle forme che hanno creato e al medesimo tempo ambiguamente distanti, sempre altrove rispetto a se stesse, in un continuo rimando, immaginifco e atemporale, a tutto ciò che, pur essendone parte determinante, è rimasto fuori dal loro campo visivo. Che si tratti di una ricerca che instaura un dialogo, un rapporto dialettico, con le forme naturali (Dacia Manto), con un complesso e labirintico sistema di riferimenti culturali e personali costantemente incrociati e sovrapposti (Manfredi Beninati), con la natura ibrida e impersonale dell’immaginario contemporaneo e delle sue iconografie (Pontrelli), o con una dimensione quasi pre-linguistica, fatta di istanze psicologiche ed emotive prima ancora che narrative (Silva), questi lavori sembrano ritrovare un denominatore comune nel loro carattere eccessivo, o meglio, di continua deviazione rispetto ai contesti ai quali fanno riferimento. Essi sembrano lavorare piuttosto sull’idea di un’immagine capace di designare al medesimo tempo la prossimità e la distanza, l’interiorità e l’esteriorità, la similarità e la differenza. La nozione di parergon, o contro-opera (anche questa di memoria cinque-seicentesca anche se assolutamente contemporanea) diviene in tal senso importante nella logica del percorso visivo che stiamo per tracciare, inteso come ciò che all’opera si aggiunge e, nello stesso tempo, le si contrappone.

“Un parergon” – scrive Deridda- “va contro, accanto, in aggiunta all’ergon, al lavoro compiuto, al fatto, all’opera ma non rimane in disparte, bensì entra in contatto e coopera, da un certo al-di-fuori, con il di-dentro dell’operazione. Non semplicemente da fuori, nè semplicemente da dentro. È come un accessorio che si è costretti ad accogliere sul bordo, a prendere a bordo”.

I lavori di Dacia Manto sembrano trovarsi simultaneamentee al di qua e al di là di un margine, della frontiera che separa l’interno dall’esterno del mondo naturale, inteso più che come paesaggio come luogo dell’instabilità e della modificazione mutazione. Nel suo (nella sua ricerca) lavoro il rapporto col mondo naturale assume il carattere dell’immersione, in un’oscillazione tra una crescita organica e quasi pneumatica dell’opera, come fosse un respiro che lentamente si stabilizza, e una progressiva perdita di ogni punto di riferimento. Attraverso l’uso delle grafiti, dei pastelli, di processi chimici di modificazione e alterazione delle carte, l’opera ha una dinamica di crescita, di ramificazione e di sviluppo che porta in sè una visione pànica e sottilmente ansiogena della natura. Nel progressivo sprofondamento dei segni che attraversano la superficie, tracciando un terriorio che si sviluppa in profondità ma che cresce anche orizzontalmente e verticalmente oltre i limiti spaziali imposti, i lavori della Manto divengono presenze visive ambigue, lungo le quali si attua una dinamica di reversibilità e di continuo sconfinamento tra corporeità fisica e percezione psicologica. La trama del disegno ritaglia percorsi infintesimali di luce e di ombra, in un lento manifestarsi del vivente, laddove all’artificialità della superficie-schermo si sostituisce una membrana permeabile tra il dentro e il fuori, capace di confondere l’esterno e l’interno, separandoli ed unendoli. A questa dimensione liminare dell’immagine sembra rifarsi anche il lavoro pittorico di Beninati, dove però alla natura sembra sostituirsi la cultura, ovvero un dialogo con il mondo circostante che si attua sotto forma di narrazione onirica o mnemonica, capace di attraversare e ricreare continuamente la propria storia, le sue forme, i suoi luoghi, fino a interrogarsi sulle dinamiche che sottendono la genesi stessa della nararrazione e della creazione di un immaginario. È una finzione pittorica, quella di Beninati, che non si realizza nell’ambiguità delle sue immagini quanto piuttosto nella loro duplicità, in un continuo rimando tra il carattere simulato dell’immagine, la finzione, e l’affermazione di una sua presenza, di una sua realtà autonoma, di un suo spessore quasi ultra-fisico. Nella pittura di Beninati la finzione è un’azione che modella qualcosa di nuovo, un’immagine altra rispetto all’esistente. Sia che si tratti di soggetti appartenenti al repertorio dei generi artistici canonici -ad esempio le nature morte o le vanitas, sotto forma di vasi di fiori, di mensole, tavole abitate da candele, cibi, teschi ed altre suppellettili tipiche di queste composizioni- oppure di tele nelle quali si aprono complessi interni di stanze o grandi paesaggi onirici, i suoi quadri appaiono quasi ricamati, tessuti nel colore come fossero arazzi. Ma se dipingere una tela, narrare una storia, lavorare per suggestioni visive significa sempre fingere, è altrettanto vero che tale finzione diviene lo specchio che ci consente di riflettere il mondo, l’orizzonte mobile che sta dietro la scena e di cui ci si serve per riscrivere la propria storia, attuare un’azione di continuo filtraggio rispetto al reale del nostro stesso vissuto.
Anche nel lavoro di Gioacchino Pontrelli la dialettica immagine/anti-immagine sembra ribadire la necessità di una continua oscillazione tra ciò che il reale è e ciò che esso diviene una volta inserito nella dinamica della rappresentazione pittorica. Nelle immagini di Pontrelli, sia che mantengano riferimenti riconoscibili a luoghi ed oggetti, sia che vengano sottoposte ad una sorta di deflagrazione, la manipolazione o addirittura la cancellazione dello spazio che circonda i frammenti inquadrati sembra assumere la medesima importanza di ciò che viene rappresentato. È anzi proprio in virtù di questa cancellazione/alterazione che lo spazio inquadrato – anche se asistematico, continuo e talvolta al limite di una nonforma – diviene paradossalmente misurabile. Frammenti di paesaggi, luoghi, oggetti, interni ed esterni, pieni e vuoti, textures, spazi piani o movimenti quasi a strapiombo nel colore, danno vita ad una visione frammentaria ma ugualmente totalizzante che scorre lungo una superficie pittorica in continuo movimento tra interno ed esterno, tra verità ed illusione, tra la superficie del mondo così come la conosciamo e l’estensione virtualmente infinita ch’essa può assumere nella sua rappresentazione. Se tuttavia la ricerca di Pontrelli, anche nel nuovo corso che il suo lavoro ha preso negli ultimi anni, ribadisce un dialogo preferenziale con i nostri archetipi visivi contemporanei più che con le presenze reali della nostra esistenza (risultando in tal senso indicativo di quale grado di realtà tali iconografie hanno saputo conquistarsi) l’opera di Caterina Silva, che chiude idealmente il percorso della mostra, ribalta i termini della questione. La sua ricerca, pur rilanciando un’idea di complessità del fare pittorico e di riconoscimento del suo potenziale immagnifico, assume spesso un carattere ed un forma quasi pre-linguistici, come se il lavoro si posizionasse idealmente a monte dell’immagine, nei luoghi che ne precedono e al tempo stesso ne rendono possibile l’emersione. La pittura è vissuta dall’artista attraverso un rapporto orizzontale tanto con i suoi materiali quanto con le possibilità formali che questi le offrono, divenendo, nel percorso visivo che abbiamo tracciato, punto finale e ripartenza; il cul de sac della visione, la nostra route tournante en sous bois. L’artista opera nell’ottica di una rottura dell’ordine iconografico, attraverso una pratica di lavoro che la porta di volta in volta a definire l’immagine proprio attraverso una sua delicata ma inesorabile sovversione. Un segno, un supporto, una tela, un margine, un colore, al pari di un processo mentale o emotivo, sono tutti elementi che vengono interiorizzati, divenendo quasi semplici strumenti per compiere la ricognizione di un terriorio visivo che nasce dall’assenza di confini rigidi, dalla rottura di un’ordine di continuità interna, dall’autonomia anorganica delle sue parti. I lavori di Caterina Silva, nei quali non solo l’ordine di apparizione dei singoli elementi può variare continuamente ma la tela stessa e i materiali di volta in volta utilizzati possono divenire oggetti manipolati, svelati o nascosti, aprono un campo visivo privo di gerarchie, in un sistema di rimandi capace di moltipicarsi senza soluzione di continuità. (potenzialmente infinito.) È la pittura che rincorre il suo sogno; inseguire le immagini e fissare la loro scomparsa, raccoglierne i frammenti attorno ai quali possono nascere nuove galassie di memorie e di sensibilità.

  • Bestiario allegorico: scimmie e onicocefali | testo di Alberto Zanchetta

Ormai non si critica più l’eccessivo eclettismo degli artisti, si condanna più spesso la coerenza di un pittore. È come se questi ultimi fossero inebetiti a forza di studiare tutto ciò che riguarda la pittura: che quella loro ossessione sia per davvero un demerito? Nel secolo scorso si è fatta strada una frase erroneamente attribuita a Duchamp – si tratta di un vecchio adagio della fine dell’Ottocento – che recita: «bête comme un peintre», dove per bête si intende non già la “bestia” ma lo “stupido (come un) pittore”. L’affermazione sottintende una pedissequa riproduzione della pratica pittorica, recriminazione tutt’altro che nuova se si considera il fatto che persino Nicolas Poussin ammetteva il proprio sconforto di fronte ai suoi contemporanei; scrivendo che «la povera pittura è ridotta alla ripetizione a stampa» Poussin intendeva dire che i pittori del suo tempo si ripetevano a tal punto da assomigliarsi come tante copie. Risalendo ancor più indietro nei secoli, la questione era stata [im]posta dalla religione cristiana che esortava i pittori a essere degli abili copisti affinché assicurassero la diffusione votiva dei santi. Ancor oggi la propensione a reiterare serve a rafforzare i soggetti e i concetti, non bisogna dunque temere di ripetersi perché – come spiegava Aragon – «ciò che val la pena di dire una volta è bene dirlo due o più volte».

È sempre esistita una frangia di artisti che banalmente replicano le immagini all’infinito, ma ce ne sono altri che reinventano l’identità della pittura nello spazio e nel tempo. Non dimentichiamo infatti che quasi tutti i grandi Maestri hanno realizzato dei d’après dai loro predecessori. Cimentandosi con la grande tradizione pittorica, ogni artista si è posto il problema dell’originalità attraverso cui riuscire a rendere nuovamente attuale la pittura. «Anche ripetendosi», diceva Man Ray, «dipingere diventa l’abitudine irrinunciabile di tutta una vita». Gli artisti in generale, e i pittori nello specifico, sembrano ossessionati da un’idea (che è anche idioma), un’intuizione che rinnovano nel corso della loro esistenza. Si pensi alle tante Madonne di Raffaello o alle nutrite schiere di bottiglie di Morandi, soltanto lo sguardo di un profano potrebbe tacciarle d’essere noiose o tutte uguali. Lavorando su quest’ossessione, i pittori tendono a perfezionarsi per raggiungere quello chef d’œuvre che tanto ammiriamo nei musei. Il problema della pittura come tecnica e come autenticità diventa quindi un problema di conoscenza. Agli “stupidi pittori” che svolgono il proprio incarico ad libitum – ottusità tipica dell’asino, bestia da soma che esegue i suoi compiti in automatico – se ne contrappongono altri la cui perseveranza e abnegazione denuncia un accanimento verso il linguaggio. Ebbene, al lapidario “stupido come un pittore” dovrebbe far da contrappeso un altro adagio: “tenace o testardo come un pittore”.
L’epos moderno associa l’asino alla stupidità, dimenticando invece che egli è simbolo di sobrietà. In molti sono disposti a riconoscere in lui solo una leggendaria ma ingiusta stoltezza; di contro all’indolenza, in passato veniva più spesso additato per la sua pazienza e umiltà. La proverbiale testardaggine dell’asino corrisponde alla non meno provvidenziale indole dei pittori, atteggiamento che sovente finisce per irretire i loro detrattori. Nell’iconografia tradizionale, la personificazione della Pictura si trova assai di frequente in lotta con la Calunnia, l’Odio, l’Ingratitudine e l’Invidia. Al Louvre è conservato un dipinto di Louis Lagrenée, L’amore delle Arti consola la Pittura per gli scritti ridicoli e velenosi dei suoi nemici [1781], in cui un amorino offre conforto alla Pittura, incoronandola quale regina di tutte le arti. Ma l’antagonista più ostile della pittura è certamente l’Ignoranza, riconoscibile per le sue orecchie d’asino. Oltre che saccente, l’Ignoranza è – metaforicamente parlando – cieca, come dimostrano le figure zoocefale che nel Seicento venivano associate agli iconoclasti. Tali creature, ottuse e colleriche, irrompevano nei Cabinet d’amateur distruggendo tutto ciò che era in rapporto con la cultura; si accanivano soprattutto sui quadri, oltre che sulle statue, sui libri e altri oggetti del sapere. Tra queste figure spiccava quella dell’onicocefalo, uomo dalla testa d’asino (da non confondersi con l’onicocentauro, che ha corpo d’uomo fino all’ombelico) che si apparenta all’allegoria dell’Ignoranza. Nel Settecento l’uomo dalla testa d’asino si trasforma poi in critico d’arte – capace di asineggiare «sopra scolaresche di zucca» avrebbe detto Gadda – e così via sino al Novecento, allorquando Ugo Ojetti ne denuncia la condotta, sospettando che la critica d’arte sia «un quadrupede ammaestrato».
La storiografia ci restituisce un emblematico caso di onicocefalo: a Roma, sulla parete di una casa del Palatino è stata rinvenuta la blasfema incisione di una crocefissione in cui il Cristo ha la testa di un equino. In qualche modo la bestia non è estranea alla vita del Salvator Mundi, appare infatti nella Natività, quindi nella Fuga in Egitto, infine nell’Entrata di Cristo in Gerusalemme. Ma laddove sono in tanti a stigmatizzare i vizi degli uomini attraverso le teste d’animali, altrettanti sono quelli che vi infondono virtù umane. Nei suoi disegni e dipinti di creature zoocefale, Savinio recriminava il fatto che la maggior parte delle persone vedeva in essi «delle caricature, perché non sanno che in queste forme apparentemente ibride e fondamentalmente armoniose e complete è l’espressione del carattere umano più profondo e sacro». All’opposto del Cristo onicocefalo, rappresentazione che intendeva ridicolizzare il culto cristiano, possiamo trovare le divinità egizie o indù, come ad esempio Hanuman, che ha il volto di una scimmia ed è venerato per la sua saggezza, onestà e giustizia. Se com’è vero nella letteratura teologica l’asino veniva identificato con il paganesimo – in contrapposizione all’ebraismo simboleggiato dal bue – è altrettanto vero che i cristiani del Medioevo identificavano la scimmia con il demonio, ragion per cui in alcuni quadri allude al peccato originale. Tuttavia, nella Madonna di Brera [1510], dipinta da Giovanni Bellini, ha ben altro significato la scimmietta abbarbicatasi su una colonna che porta impresso il nome del pittore.
Nel Medioevo il “pittore” era sinonimo di “imitatore” e veniva equiparato ai Primati nostri antenati. Benché il paragone possa sembrare poco lusinghiero, l’accostamento non sempre aveva un intento spregiativo. Come detto in precedenza, la ripetizione affonda le sue radici nella natura e i suoi rizomi ci permettono di orientarci nel tempo. De facto: nel corso dei secoli il pittore era chiamato a essere un imitatore più che un inventore, studiava e educava il proprio occhio alla natura, cercando di comprenderla dal punto di vista pittorico. Se Bacone affermava che Ars est homo additus naturae [«L’arte sta nell’opera umana in accordo con i modelli naturali»], la questione si protrae fino agli inizi del Novecento, trovando risoluzione nelle parole di Cézanne, che riteneva l’arte una «imitazione della natura in una invenzione fantastica». Esiste insomma un Mondo della Natura e un Mondo dell’Arte, e poiché le opere pittoriche possono essere superiori alla natura, bisogna distinguere tra l’imitatio insipiens e l’imitatio sapiens.
La parodia dell’attività umana sottoforma di scimmia non sempre cerca di mettere in ridicolo l’artista, egli stesso si presta a questa deformazione. Tra le molte scimmie pittrici ricorderemo quelle che appaiono nei quadri di Chardin, Teniers e Decampas; ovviamente non si tratta solo di una bizzarria, la cronaca ha spesso fornito notizie di veri Primati pittori, come la scimmia Congo, le cui opere furono paragonate agli espressionisti americani, e ancora: lo scimpanzé “Pierre Brassau”, con cui un giornalista si fece beffe dei critici d’arte, e Jiggs, la cui fama non è dovuta [sol]tanto alle sue creazioni artistiche ma al fatto di essere stata una delle ultime Cheetah del cinema. Com’è noto, gli scimpanzé possiedono facoltà intellettive più spiccate di ogni altra scimmia, predisposizione che le rende facilmente addomesticabili; ma per quanto possano essere istruite alla disciplina pittorica, le loro capacità imitative non potranno mai essere equiparate alla “creazione autentica” di un pittore. In questo senso è d’obbligo rifarci alla puntualizzazione di Lichtenberg: «Anche la scimmia più perfetta non saprebbe disegnare una scimmia. Questo lo sa fare soltanto l’uomo, il quale è anche l’unico che consideri un pregio il saperlo fare», ed effettivamente è ciò che accade nell’Atelier del pittore [1730 c.]di Alessandro Magnasco. Si vedano inoltre le opere di Gabriel Cornelius von Max, in cui le scimmie si prodigano in differenti attività umane. Più che di scimmie pittrici, nel caso di von Max troviamo dei Pongidi che si soffermano a guardare le opere d’arte, sicché alcuni di questi primati vengono apostrofati dallo stesso artista come “critici d’arte” [1889].
Esiste insomma una consuetudine tra i pittori/critici e le scimmie/asini, indaffarati a scambiarsi ruoli e fattezze. A seconda delle culture e delle epoche sembrano posti a salvaguardia della pittura oppure contro di essa. Comunque sia, non capita spesso di vederli assieme; fa eccezione l’opera Ni más ni menos [1798-99], che Goya include nei suoi Caprichos, in cui una scimmia ritrae un asino: il Pongide maneggia la tavolozza e il pennello con destrezza, raffigurando l’equino con il muso agghindato da una sontuosa parrucca (la satira era rivolta a quei vanitosi mecenati che si facevano ritrarre da artisti che acconsentivano perché lusingati dall’incarico). La “capricciosa” alleg[o]ria di Goya rinverdisce lo sbeffeggio rivolto alle artes liberales, quando cioè i pittori ridicolizzavano se stessi in qualità di bertucce e facevano assumere ai critici o al pubblico la fisiognomia dei somari. Si tratta comunque di episodi anodini, perché la malizia è soltanto nell’occhio di chi guarda: non si può giudicare le persone in-degne, né dis-onorarle a seconda del mestiere. Le j’accuse che vengono mosse alla pittura – quasi ci fosse un complotto di lèse-majestè – derivano da una cattiva coscienza, e comunque da una cattiva conoscenza di cosa rappresentino veramente le scimmie e gli asini nell’arte. Evitiamo però di credere che le une e gli altri siano mansueti… mai lasciarsi ingannare dalle apparenze/allegorie.

Come una bestia feroce
Manfredi Beninati / Matteo Bergamasco / Lorenza Boisi / Francesco Clemente / Francesco De Grandi / Fulvio Di Piazza / Matteo Fato / Giovanni Frangi / Giuseppe Gonella / Dacia Manto / Valerio Nicolai / Giovanni Manunta Pastorello / Gioacchino Pontrelli / Caterina Silva / Aleksander Velišček / William Marc Zanghi

a cura di Andrea Bruciati, Daniele Capra, Federico Mazzonelli, Alberto Zanchetta

BonelliLAB
Via Cavour 29, Canneto sull’Oglio (Mn)

Inaugurazione sabato 21 aprile ore 18.00
23 aprile – 14 luglio 2012

Orari: da lunedì a venerdì 9.30 – 12.30 e 14.30 – 19.00; sabato 15.00 – 18.30
Info: +39 0376 723161, lab@bonelliarte.com

www.bonelliarte.com

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