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EDITORIA | Giulio Einaudi Editore

di FRANCESCO FABRIS

La dimensione politica dell’arte, tema da sempre scandagliato, è un dato acquisito e fatto proprio dall’occhio del fruitore quantomeno dalla metà del ‘900, nel simbolico e cocente scontro ideologico tra astrattismo e realismo. L’attività dell’artista “politico” può essere individuata e rincorsa, anche a ritroso, sino alle origini delle dicotomie di pensiero tra potere costituito ed istanze di rinnovamento, denuncia o riflessione.
In duecento pagine, però, Vincenzo Trione ci regala una lucidissima traiettoria sulla figura dell’artista politico immerso nel contemporaneo, un percorso fenomenologico e critico che rappresenta una luce guida per distinguere gli approdi più recenti.
Il suo Artivismo. Arte, politica ed impegno, pubblicato nel gennaio 2022 per i tipi di Einaudi è un vero compendio delle istanze politiche nell’arte, condotto attraverso gli atteggiamenti degli artisti contemporanei, le loro tecniche ed i loro ritrovati, la loro assimilazione all’artista intellettuale, le peculiarità dei tempi indagati tra soluzioni tecniche e linguaggi anche estremi.
Ne esce una indagine profonda, dettagliatissima e colta, ricca di rimandi, citazioni e panorami geografici e culturali essenziali per l’orientamento nel palcoscenico mondiale delle esposizioni, delle Biennali, dello star system e del mercato.
L’analisi anche ricostruttiva che Trione fa dell’artista contemporaneo è al contempo esaltazione del suo ruolo di guida ed attribuzione di responsabilità. A lui, invero, il compito di far cogliere il limitare dell’abisso senza fornirne una rappresentazione prettamente visiva.

La dimensione intellettuale, lo si comprende da subito, è il limitare del giudizio negativo. Al di sotto chi realizza qualcosa, al di sopra chi fa arte politica.
Il mezzo è indifferente, ed il testo è una utilissima guida non solo tra opere ed artisti del mondo ma anche tra generi diversi ma compenetrati, quali arti figurative, narrativa, cinema, graphic novel e filosofia.
Tutto, dunque, può assurgere ad opera politica, applicando la realizzazione alle aree di attività e critica che Trione enuclea con occhio attento e rivede nelle categorie che qualifica “immaginari migranti”, “poetiche dell’antropocene”, “muri dipinti” e “global activism”.
All’interno di queste aree anche semantiche, si muovono artisti che vedono il loro ruolo come “avventura civile” ed intellettuale.
I loro tratti comuni sono la concentrazione sulla visività, sfruttando quel che è vicino e che non riusciamo a vedere per parlarci di cosa ci stiamo perdendo e del perché non lo osserviamo più. Si occupano del presente, e sono soliti utilizzare i materiali ready made della cronaca per restituire situazioni difficili in maniera visibile ed esplicita.
Sapendo che la storia delle idee e quella delle azioni raramente si incontrano, gli artisti intellettuali si muovono sincroni e concordi.
Essi “svolgono la loro funzione prima e dopo gli eventi, non durante gli eventi stessi”, per mantenere una distanza dal fatto che agevola l’esame e la riflessione.
Se l’arte ha il potere demiurgico di svelare il presente non leggibile, il ruolo dell’artista intellettuale e politico è quello di decrittare, da lontano, i codici di un presente sepolto da un bombardamento di stimoli, immagini, temi e fatti, violenti, raccapriccianti ed eticamente inqualificabili, che fanno però parte integrante del nostro pavimento umano. Tanto da non farci più caso, se non per appoggiarci la nostra posizione eretta alla ricerca di un futuro di sola incertezza.

Tornando alle aree di indagine, il libro è un dettagliato spaccato delle emergenze più evidenti e praticate dai contemporanei politici.
Lo sguardo degli artisti politici cala sui fenomeni umani quali migrazioni e dramma dei rifugiati, per raccontare vite rigurgitate dalla globalizzazione.
Gli esuli, gli ultimi, i profughi sono oggetto di cronaca o di descrizione poetica, dall’epico colossal catastrofistico Human Flow di Ai Weiwei (2017) a Map di Mona Hatoum, ove il mondo è rappresentato da una distesa di biglie di vetro a simulare l’instabilità dei flussi umani, sino all’esperienza fisicamente immersiva ideata, a ricreare il confine Messico-Usa, da Alejandro Gonzales Inarritu.
L’analisi si spinge all’età della terra, l’Antropocene, in cui gli individui si limitano ad osservare gli esiti di una natura erosa fino a scomparire, suscitando prese di posizione e riflessioni artistiche che muovono dai post naturalismi ispirati alla land art sino alle collaborazioni con scienziati, tecnici, con la bioarte e con un rinnovato interesse per l’anima mundi, da salvare anche attraverso il riciclo dei suoi materiali di risulta.
La banalità del mondo è vieppiù combattuta da irruzioni artistiche che sfociano, muovendo dalle culture graffitiste ed underground, in movimenti globali quali la street art, dove il messaggio effimero di opere destinate alla cancellazione naturale ha in sé la forza della censura di un mainstream che interessa anche la performance ed artisti globalizzati come Banksy.

Human Flow, Ai Weiwei

La prospettiva che conferisce circolarità e completezza all’analisi del fenomeno, riguarda però quello che l’autore chiama il “controdiscorso sull’arte politica”, ossia un lucido vademecum sulle pratiche da evitare per poter essere annoverati nel museo immaginario dedicato all’arte politica contemporanea.
I mostri, le tentazioni, le scorciatoie e le rapide da evitare sono rappresentate per l’artista politico dal moralismo, dalle anestesie, dalle estetizzazioni e dai traumi senza traumi.
La fuga dal politically correct, dall’eticità comune e diffusa e dai moralismi è l’unica via per una oggettiva e rinnovata lettura dal presente che, allo stesso modo, mal tollera tanto il neo giornalismo di inchiesta quanto la anestetizzazione già preconizzata da Susan Sontag.
In maniera lucida e determinata, la scrittrice americana compiva una severa condanna dei caroselli di immagini ormai destinate solo ad assopire i sensi, che si danno come una serie di istantanee vuote e distanti dallo spettatore, così impotente invece che responsabile e reattivo.
Il sonno della coscienza dunque, cullato da forme di apprezzamento estetico del dolore e dell’annientamento che li hanno trasformati in ordinarie ipotesi estetiche.
Da ciò, l’inammissibile estetizzazione che giunge a rendere apprezzabili immagini colte durante il percorso museale o in galleria, dove l’afflato documentaristico e testimoniale è soffocato dall’urgenza estetica e rassicurante. Il mostro, da lontano, appare innocuo, ripetitivo e banale, quasi bello.
Nel museo immaginario, dunque, vi è spazio solo per gli artisti “impolitici”, non manifestanti, non sorretti da ideologie ma portatori del compito di raccordo tra arte e politica così difficile da incontrare dalla nascita del concettualismo duchampiano in poi.
Le fondamenta della loro missione sono la riscrittura delle realtà, mai riconoscibile nelle loro opere ma solo riscritta in chiave espressiva, fatta soltanto intuire, attraverso suggestioni attive anche nell’inconscio, ossia in quello spazio vuoto e non visibile dove si colloca il gesto artistico più riuscito.
Sono i nipoti di Goya (I disastri della guerra), di Grosz (in Eclissi del sole) di Picasso (con Guernica) e di Gericault (con la Zattera della medusa), i maestri che non hanno trascinato la politica nell’arte ma che, al contrario, hanno utilizzato la lente dell’arte per scandagliare la prima, metterla a nudo, per scoprirne la forza di resistenza e coscienza morale, senza speculazioni dirette sulle immagini imposte dalla storia.
Tutti i prescelti, tra i più grandi artisti contemporanei, hanno a che fare con la materia bruciante del presente che però declinano in una lettura autonoma grazie alla forza innovativa dell’arte.
Lo spazio immaginario del museo è dunque idealmente riservato, tra gli altri, ad Anselm Kiefer, Christian Boltanski, Shirin Neshat ed Haans Hacke.
Comune, a questi indiscussi maestri ed alle loro opere più famose, la lontananza da ideologismi ed intrattenimento, dalla mera cronaca, dal fastidioso procedere didascalico.
In loro le dolorose tematiche dell’ultima guerra, l’incubo della Shoah, l’idea della civiltà in macerie e della condizione femminile nelle morse culturali neanche troppo lontane sono rese attraverso una colta evocazione, la suggestione del vuoto, la meticolosità di una ricostruzione non descrittiva. Un lavoro, in altre parole, condotto sullo spazio mistico ma non inerte che l’arte deve lasciare, per la natura che le è propria.

In questa chiosa museale di Trione, trova d’altronde corpo la massima di un artista intellettuale per antonomasia: “i capolavori sono sempre ideologici e politici” (Pier Paolo Pasolini).

 

Vincenzo Trione
Artivismo
Arte, politica, impegno

2022
Vele
pp. 232
€ 13,00

www.einaudi.it

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