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INTERVISTA AD EMILIO ISGRÒ di Anita T. Giuga
tratta da Espoarte Contemporary Art Magazine n.66

Emilio Isgrò per la prima volta riunisce a Marsala, in un percorso dedicato, le opere rivolte alla Sicilia. Il bianco albinus che illumina e la combusta opera al nero che ottunde si alternano attraverso i diversi lavori, esplicando capitoli di un paradosso alchemico e linguistico. E qui l’eterodossia e il “non credo” tipici di Isgrò riassumono il fasto e il peana dedicati a una terra palcoscenico, con un argot che è insieme tragoedia e paracqua esistenziale; strumento d’inganno e mediazione per gli abitanti di un suolo fertile, ma fitto di crudeltà ed espiazioni metafisiche.L’11 maggio 1860 Garibaldi sbarcava a Marsala e il 14, a Salemi, dichiarava di assumere la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele. Era l’abbrivio della campagna che avrebbe portato l’intero Regno delle Due Sicilie a unirsi al Piemonte e all’Italia. La Sicilia ha così avviato la storia nazionale, eppure resta una mala madre, gravida di vanità umane e paesaggistiche. Marsala, la città che accolse Garibaldi, ha ricordato quell’avvenimento capitale con una mostra coraggiosa, lontana da agiografie e dossografie storiche o filosofiche: Emilio Isgrò. Disobbedisco. Sbarco a Marsala e altre Sicilie. Quel “Disobbedisco!” è consanguineo all’affermazione che Garibaldi pronunciò nel 1866 (Obbedisco!), ma la sovverte. E non vuole essere un’alzata di scudi antirisorgimentale, semmai, chiarisce Isgrò, un rifiuto verso chi ha tradito e manipolato lo spirito di quel momento di svolta.Isgrò propone al Carmine un itinerario in cui ogni sala manifesta un epos irregolare: dai melodrammi ai Mantra siciliani (per madonne toscane) è il silenzio dei non allineati che abita le stanze di un progetto unitario. A chiudere il giro è Sbarco a Marsala, installazione espressamente concepita per il 150° anniversario dell’impresa garibaldina e donata alla città. La ricorrenza si è arricchita delle valenze dell’atto politico e ha celebrato i travagli dell’intelligenza per mezzo dell’arte. Giacché, se la modernità è finita, come afferma Eugenio Scalfari, forse solo l’arte può salvarci dai barbari. Allorquando i barbari non sono gli stranieri, che balbettano un idioma extraeuropeo, ma i nostri parigrado; quelli che avendo accantonato l’usanza di dubitare hanno tolto spazio al pensiero della differenza.La musica sta alla vecchia Europa come il libro (il testo) a tutta la cultura Occidentale. Isgrò è consapevole di ciò a tal segno che a Marsala ripropone i pianoforti, altro suo oggetto fraseologico. Diversamente, nell’ex convento del Carmine, non campeggiano gli antichi strumenti a coda – neri, imponenti e con gli spartiti sbiancati da platonica luce (Chopin, partitura per 15 pianoforti, installazione, Rotonda della Besana, 1979) –; la scelta è invece caduta su quelli a muro e da salotto.Il pianoforte, oggetto-feticcio del dramma borghese Ottocentesco, ingessato dalla vernice bianca, invaso da un vortice di formiche operose/inoperose che ne colonizzano pentagrammi e cassa armonica, diviene “macchina celibe”. Isgrò cancella, lo ha sempre fatto, per enfatizzare una presenza, velata e immensa. E una volta che si è cancellato resterà lì per sempre, come affermava Ernst Hemingway. Egualmente l’effige di Garibaldi giace occultata (cancellata) da un sudario che lascia fuori appena i segni di riconoscimento del condottiero.Il monumento posticcio è disarticolato; adagiato su uno stilobate, bianco anch’esso, e reca un epitaffio di dedica da parte del popolo siciliano. Lo Sbarco si offre, dunque, come pretesto più che narrativo, per quanto raccolga i codici secretati della vita transfuga dell’artista. L’occasione si presta, innanzi tutto, con rigore filologico, a postillare la multiforme identità dell’Isola e del suo non estinguersi nelle fioriture barocche della forma. Da quasi 50 anni l’opera di Isgrò assume il linguaggio come elemento principe di riflessione diretta, apertura immaginativa e descrizione delle sinapsi tra comunicazione e fenomenologia della tecnica artistica. Del concettuale fecondo Isgrò ha interpretato, di là da ogni malintesa appartenenza geografica, il gioco desacralizzante che si è trasformato in nuova categoria espressiva. L’azione di Isgrò deriva dalla tabe avvertita da un artista pienamente Novecentesco, che alla caduta dell’auctoritas del poeta oppone il romanzo elementare.Così la disobbedienza, se si sceglie di darle un valore etico, diventa teatro sociale e civile partecipato.Emilio disobbedisce anche al divino, suggerendo che si tratti appena delle rondini; toccando certi temi e correndo il rischio di confondere il popolo paziente (sic!).L’artista approda alle cancellature intorno al 1964 e quel momento di rivolta si tradurrà, man mano, in verifica dei clivaggi fra segno verbale e segno iconico, sensazione formale e piacere dell’ossimoro tra definizione e oggetto. Egli erige un sistema che apre nuovi sentieri estetici, attraverso la sostituzione di un ordine del discorso con un altro che, con gli scarti sull’evidenza della parola, provoca “assenze”, “tagli” liturgici, in relazione a un mondo di segni reali divenuti illeggibili. Il morbo della lingua non si traduce mai, però, in nichilismo, quanto in autenticità della superficie. Altrimenti l’artista non sarebbe in grado di restituire nulla.Isgrò si è quindi cimentato in un coup de théâtre, fantasticando un possibile ritorno di Garibaldi in Sicilia. Egli ha dato voce a un breve dialogo sulla storia esoterica dell’Unità d’Italia, con una mise en scène scritta appositamente per la vernice e pubblicata all’interno del catalogo edito da Silvana Editoriale. La performance si è svolta dal tetto dell’ex convento, nel tardo pomeriggio di un 13 maggio ventoso. Isgrò ha tirato fuori dal suo guardaroba poetico il bon mot di un Garibaldi stanco e bastian contrario, seguito dal controcanto degli attori del coro. Sotto lo sguardo dell’artista, coperto da una tunica bianca decorata da nugoli di formiche, un’accolita di politici, fra i quali spiccava il ministro Alfano e la sua scorta, il sindaco di Marsala e il presidente dell’Ente mostre del Comune di Marsala.
Abbiamo quindi deciso di intrecciare con Emilio Isgrò un dialogo vis-à-vis:

Anita Tania Giuga: A cosa disobbedisce Emilio Isgrò oggi?
Emilio Isgrò
: All’idea, soprattutto, che l’arte sia una professione paragonabile a quella del medico, dell’avvocato o dell’imprenditore edile, per i quali l’interesse economico è la prima voce in capitolo, con tutto ciò che ne consegue in termini di mondanità e chiasso mediatico. Mentre, il vero artista, per come lo concepisco io, può trarre energia anche dall’anonimato e dal silenzio, come quei fisici nucleari che se ne stanno rintanati nei laboratori di Pasadena o di Ginevra e alla fine vincono il Nobel. Non voglio apparire un provocatore, ma l’artista di razza lavora soprattutto per se stesso e per la propria felicità. Fino a quando scopre che la sua felicità è necessaria e condivisa. È questo il vero premio.
Negli anni Trenta del Novecento, quando Salvador Dalì cominciò a corteggiare un po’ troppo i ricchi americani che passavano da Parigi, André Breton lo escluse immediatamente dal giro dei suoi amici, chiamandolo “Avida Dollars”. Oggi l’americano Jeff Koons può dire che l’arte vale quanto costa, e nessuno osa ribattere, perché il trend è quello: la più totale coincidenza tra prezzo e valore. Tutto questo non è arrivato all’improvviso, ma risale almeno all’ideologizzazione del denaro operata al tempo della Pop Art, quando Andy Warhol pretendeva cifre da capogiro per mostrare la sua parrucca a una cena d’amici. L’artista come produttore carismatico di rendita finanziaria. Eppure l’arte non è una professione che debba rendere necessariamente in termini di economia, o non lo è del tutto, come non lo è l’eucarestia per i preti più santi. Vendere le ostie, in altri termini, è peccato di simonia. E vendere l’arte? Si può sicuramente, per ragioni pratiche, concrete, ma ora mi pare che si sia passato il segno, scaraventando il Beato Angelico, che non percepì mai un soldo per i suoi meravigliosi affreschi, nella categoria degli esclusi e dei reietti. Bisogna ritrovare quell’equilibrio che io conobbi nei miei primi anni di lavoro: quando l’arte era sì un affare, ma lo era sui tempi lunghi, e il mestiere di mercante potevano permetterselo soltanto dei signori ben dotati di mezzi. Gli altri si arrangiavano vendendo quadri dozzinali e croste sottobanco, e con quelli finanziavano gli artisti nei quali credevano davvero. In ogni caso, era sempre netto il divario tra arte commerciale e arte di ricerca, il che consentiva di gratificare, giustamente, gli artisti più disintereressati al successo troppo facile. Ora, invece, non si rende neppure quell’omaggio alla virtù che un tempo gli ipocriti rendevano ai santi, in nome di un sistema totalitario che, dagli Stati Uniti alla Cina, è uguale dappertutto.

Cosa vuol dire essere un artista siciliano di lungo corso e di grandi rivolte?
Sono felice che qualcuno scopra la vena “siciliana” che scorre in larga parte del mio lavoro. Questo non per un malinteso localismo, ma perché penso che l’arte debba sottrarsi all’omologazione dell’universo alla quale oggi è sottoposta. L’arte non deve dire sempre “obbedisco”, come disse Garibaldi sofferente e stanco al Comando Supremo che gli imponeva di arretrare. L’arte, semmai, deve imparare a disobbedire anche ai suoi committenti se vuol sopravvivere. Proprio per questo ho cancellato il famoso telegramma dell'”obbedisco”. Perché fosse chiaro a tutti, anche a chi non si occupa d’arte ma sa perfettamente chi è Garibaldi, che è finito il tempo di un’arte che parla soltanto a se stessa.
Per quanto poi riguarda il mio legame con la Sicilia, devo dire che è ancora fortissimo, ma non esclusivo, perché vengo da una famiglia che mi ha educato all’amore e al rispetto per le culture e le persone diverse da me, anche le più distanti. È per questo che in Brasile mi sento brasiliano, in Germania tedesco e in America americano. Questo non mi impedisce, tuttavia, di vedere anche i limiti dei popoli da me avvicinati, non diversamente da come vedo i difetti della mia terra.

Esiste un concettuale caldo?
Non credo che sia un problema di caldo o freddo, quanto di efficacia e di presa. Io, per esempio, ho cercato sempre di comunicare, coinvolgendo e lasciandomi coinvolgere, sempre in vista, naturalmente, di una comunicazione più alta. E quando questo non è avvenuto – giacché il pubblico non voleva saperne – ho cercato di capire se il limite fosse mio o del pubblico, o magari di entrambi. Cosicché, non capisco il compiacimento di certi concettuali alla reazione algida provocata dalle loro tautologie. Mah!

Progetti futuri?
Il 4 settembre inauguro una grande retrospettiva alla Taksim Cumhuriyet Sanat Galerisi di Istanbul, su invito ufficiale dalla città, proclamata quest’anno capitale europea della cultura. La mostra – promossa dal Coppem, dall’Università Aydin e dal Centro Luigi Pecci di Prato – sarà curata da Marco Bazzini.

BIO
Emilio Isgrò nasce a Barcellona Pozzo di Gotto (ME) nel 1937.
Si trasferisce a Milano nel 1956 e fin dagli esordi accompagna la produzione artistica con l’attività di scrittore e poeta. Nello stesso anno pubblica la raccolta poetica Fiere del Sud per le Edizioni Arturo Schwarz.Nel 1964 realizza le prime Cancellature: enciclopedie e libri completamente cancellati, con i quali contribuisce allo sviluppo in Italia della “poesia visiva” e dell’arte concettuale. Le sue “cancellature” lo collocano tra gli artisti dell’avanguardia intellettuale più lucida della sua generazione. Nel 1966, in occasione della mostra alla Galleria Il Traghetto di Venezia, pubblica Dichiarazione 1, in cui precisa la sua concezione di poesia come “arte generale del segno”. Nel 1972 è invitato alla XXXVI Biennale d’Arte di Venezia, a cui partecipa anche negli anni 1978,1986 e 1993. Nel 1977 riceve il primo premio alla XIV Biennale d’Arte di San Paolo del Brasile.Negli anni ’80 contamina la propria produzione artistica con influenze musicali: nel 1979 alla Rotonda della Besana di Milano presenta Chopin, partitura per 15 pianoforti e nel triennio 1983-1985 dà l’avvio con la trilogia L’Orestea di Ghibellina ai grandi spettacoli della Valle del Belice. Il Teatro alla Scala di Milano gli commissiona, nel 1985 (anno europeo della musica), un’installazione multimediale nella chiesa cittadina di San Carpoforo, denominata La veglia di Bach.Nel 1990 elabora una nuova Teoria della cancellatura e, nel 1992 partecipa alla mostra collettiva The artist and the book in twentieth-century Italy, organizzata dal Metropolitan Museum of Modern Art (MoMA) di New York; mostra che sancisce il suo definitivo successo nel panorama artistico. Nel 1994 viene ospitato alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia, nella mostra I libri d’artista italiani del Novecento, che apre le porte delle grandi mostre antologiche successive: nel 2001 Emilio Isgrò 1964-2000 presso il complesso di Santa Maria dello Spasimo a Palermo; nel 2002 al MART di Rovereto (TN); nel 2008 al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato (Dichiaro di essere Emilio Isgrò). Nel 1998 dona al suo paese natale il gigantesco Seme d’arancia, simbolo di rinascita sociale ed economica dei paesi mediterranei.

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