FORLÌ | Fondazione Dino Zoli | 24 febbraio – 14 aprile 2018
Intervista a SILVIA BIGI di Elena Dolcini
Silvia Bigi (Ravenna, 1985) inaugura L’Albero del Latte, una sua personale, a cura di Francesca Lazzarini, negli spazi della Fondazione Dino Zoli a Forlì.
Questa mostra, che sigilla un progetto iniziato qualche anno fa durante una residenza dell’artista a Dubrovnik nei Balcani, non è la prima a Forlì per l’artista ravennate, che nel novembre 2017 ha partecipato alla collettiva all’Oratorio San Sebastiano come terza classificata a “1502”, concorso biennale organizzato dall’associazione [dif-fù-sa contemporanea] e dall’Assessorato alle Politiche Giovanili e alla Cultura del Comune di Forlì e riservato ai giovani artisti romagnoli.
Bigi ha scelto la fotografia e il video come media d’elezione; formatasi sia in Italia sia negli Stati Uniti, l’artista ravennate ha all’attivo mostre personali e collettive, residenze sia in Italia che all’estero e workshop, spesso da lei stessa tenuti, sulle potenzialità espressive del mezzo fotografico, come ad esempio sulla pratica del ritratto.
Vorrei soffermarmi sul titolo di questo progetto, L’albero del Latte, un’espressione formata da due sostantivi che, nonostante il genere grammaticale maschile, sono “performativamente” femminili: entrambi sottendono azioni al femminile, come il far crescere frutti, ospitare vite o il dar da mangiare, penso ai nidi degli uccelli, ma anche al neonato che per i primi mesi di vita non beve e mangia altro, se non latte. È un titolo che, al di là dell’essere citazione, ben si sposa con la tua ricerca, introspettiva, intimista, in continua ricerca d’identità, al plurale. Come potresti spiegare questa dimensione familiare e personale nei tuoi lavori?
Ogni ricerca parte dalla propria necessità di trovare determinate risposte e ciò conduce a una nuova versione di se stessi. Qualche anno fa, ho realizzato un’opera dal titolo The line between you and me con soggetto il confine, la linea che è polarità di incontro e di trasformazione reciproca fra noi e l’altro. Siamo chi siamo e ci definiamo ogni giorno grazie all’altro. È qualcosa di difficile da accettare, credo, perché significa accettare la possibilità di essere feriti. Il mio obiettivo è di includere la ferita come parte inevitabile e necessaria. La mia vita è, senz’altro, il punto di partenza di ogni mio discorso, ma arriva un momento in cui ciò che sto tentando di dire ed esplorare non mi appartiene più. Attingo al mio vissuto perché posso parlare solo di ciò che conosco, ma devo uscire dal contingente per trovare ciò che di mio fa parte di una storia collettiva più ampia.
Prendiamo in considerazione Gli Anelli dell’Albero e Il Sangue e il Latte. Il cerchio, in entrambe le opere, oltre ad essere accorgimento formale, sembra farsi portatore di simboli. Come spesso è accaduto nella storia dell’arte, anche tu utilizzi questa figura geometrica non solo come contenitore, ma anche come volano di senso. Sbaglio?
Assolutamente vero, la forma del cerchio non è solo un pretesto estetico o una necessità tecnica. Trovo che il cerchio abbia il potere di condurre chi guarda a una profonda attenzione verso il soggetto, e soprattutto al cuore delle cose. A livello simbolico, il cerchio descrive molto chiaramente il mondo ciclico di cui parlo in questo percorso espositivo. Un mondo secolare fatto di regole, limiti culturali ma anche di leggi biologiche inarrestabili. Il titolo della mostra, L’Albero del Latte, si riferisce a un’espressione utilizzata nel Kanun di Lek Dukagjini, antico codice consuetudinario balcanico, per definire la stirpe femminile e distinguerla dall’Albero del sangue, la discendenza maschile: quest’ultima l’unica ad avere effettivo valore all’interno della società.
Ne Gli anelli dell’albero natura e cultura dialogano sollevando questioni sul significato di lignaggio femminile. Scientificamente, la discendenza femminile, il viaggio che permette di ripercorrere la storia delle nostre origini da noi sino idealmente alla nostra prima madre sul Pianeta, è l’unica ad oggi ricostruibile grazie ai test di DNA mitocondriale. Ho osservato la struttura di una matrioska, oggetto del folklore russo, e ho notato che, vista dall’alto, assomiglia agli anelli di un albero. Albero genealogico ed elemento vegetale, ma anche anelli come fessure del tempo, tracce portatrici di un ambiente. Quasi si trattasse di una mappa che indica da dove veniamo e chi siamo. Le affinità fra i vari elementi mi sorprendono ancora.
Con L’Albero del Latte emerge il rapporto che la fotografia intrattiene con l’antropologia e la sociologia; i tuoi riferimenti a codici, folklore e tradizioni culturali riflettono una fotografia che non è mai mera documentazione del visibile, ma anche racconto sociale, etnografia, se non di un popolo, di una sua porzione, di una comunità specifica.
È per caso questo un segno della dipendenza del medium fotografico da altre forme di creazione e manipolazione culturale, per così dire della sua non-autonomia o, invece, del suo essere ricchezza esplicativa, strumento di impatto estetico che veicola messaggi con una forte carica espressiva, forse più di qualsiasi altro?
La fotografia ha molte anime e mi diverte esplorarle. La mostra parte da un objet trouvé: immagini d’archivio che ritraggono alcune tobelije, le vergini giurate balcaniche. Prima del ritrovamento, ero stata selezionata per una residenza artistica a Dubrovnik, eppure le immagini le ho raccolte a poche settimane dalla partenza e ad una manciata di metri da casa mia, a Ravenna. È stato questo dettaglio ad avermi ricordato che, alla fine, sarei dovuta ritornare a casa, nei luoghi del mio albero, delle mie origini. La mostra termina con un secondo ritrovamento, un codice di leggi in lingua romagnola, tramandato da donna a donna in segreto e scritto con il ricamo.
Forse, ho sentito l’esigenza di uscire dal medium fotografico proprio per mostrare come esso sia versatile e potente, capace di entrare in dialogo con altri mezzi e rafforzare ogni discorso. Amo esplorare i limiti della fotografia e amo reinventare il nostro sodalizio passo a passo.
Pensi che esista un’urgenza di genere per cui il femminile debba, in maniera compatta, reagire e proporre un’alternativa alla sua condizione attuale? Se sì, cosa pensi dovrebbe essere messo in pratica? In maniera specifica nel mondo dell’arte.
Una delle opere in mostra raffigura due sorelle: Vukosava e Stana Cerovic, del Montenegro. La prima donna vissuta secondo le regole della sua società, la seconda disobbediente alle stesse. Stana è stata l’ultima vergine giurata dei Balcani. Le vergini giurate erano donne che si trasformavano in uomini, cambiando nome, abiti, atteggiamenti, per sfuggire a un matrimonio combinato o per potere ricevere un’eredità o ancora rimanere con la famiglia di origine senza essere da essa sradicate, come esigeva la legge di patrilocalità (si poteva scegliere se vivere con il padre o con il marito, uniche due opzioni). Stana e Vukosava mettono in luce una condizione ineluttabile della donna, mai estinta: quella di vivere in bilico tra il bisogno di affermare diritti e scelte personali e la propria biologia, fatta di cicli e scandita da tempi ben precisi: sentenze inappellabili della natura femminile. La donna di oggi è ancora chiamata a scegliere, a sacrificare all’occorrenza l’una e l’altra parte di sé, come fecero Stana e Vukosava. Non a caso gli anni in cui ci si dovrebbe affermare lavorativamente, gli anni che permettono di assumere posizioni di potere o comunque di affermazione sociale, coincidono con l’età fertile. I due tempi sono in conflitto e sembra che nessuno si renda conto di quanto ciò sia grave.
Credo che molte donne nell’arte siano un po’ come le tobelije balcaniche, a volte per necessità e altre per vera e propria strategia: giocano secondo regole maschili, nascondendo l’altra parte di sé. Non credo ci sia nulla di male in questo, per certi versi è stato un obbligo per molte donne “travestirsi” da uomini per essere finalmente viste, ma forse è ora di far tramontare questa tradizione. Accettando la duplice natura, le due donne compresenti in noi, possiamo non solo portare autenticità nella nostra pratica artistica, ma anche trasformare un’apparente debolezza in una potente risorsa.
Silvia Bigi. L’Albero del Latte
a cura di Francesca Lazzarini
24 febbraio – 14 aprile 2018
Inaugurazione sabato 24 febbraio ore 18.00
Fondazione Dino Zoli
Viale Bologna 288, Forlì
Info: +39 0543 755770
info@fondazionedinozoli.com
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