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ALBISOLA SUPERIORE | Aedicula Raffaella Cortese | Fino al 13 gennaio 2024

Intervista a FRANCESCO ARENA di Tiziana Casapietra

Francesco Arena è un artista italiano nato a Torre Santa Susanna (Brindisi) nel 1978. La sua pratica artistica comprende la realizzazione di sculture, installazioni e performance attraverso le quali induce una riflessione sulla storia, sulla memoria, sulla politica e sulla filosofia. Elemento caratterizzante il suo lavoro è l’uso di materiali e forme essenziali, una chiara rivisitazione delle esperienze della Minimal Art e dell’Arte Povera con cui l’artista ama confrontarsi. Le opere di Arena sono state esposte in numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero, tra cui la Biennale di Venezia nel 2013.
Il lavoro che sta presentando nello spazio Aedicula (fino a gennaio 2024), aperto recentemente dalla gallerista Raffaella Cortese ad Albisola Superiore, in provincia di Savona, si intitola Lo Starec. Si tratta di un triangolo di rame, alto circa due metri e mezzo e con una base di circa settanta centimetri, che simboleggia la figura dello starec, termine russo che significa anziano e che si riferisce ai monaci cristiani ortodossi che vivono in eremitaggio e preghiera. L’opera presenta una scritta incisa su una parte del lato più lungo del triangolo (“separated from all, he is united with all” | Separato da tutti, è unito a tutti) e che si può leggere solo quando qualcuno lo solleva e lo tiene in piedi. L’opera, che senza un sostegno non può stare in equilibrio, allude alla tensione tra stabilità e instabilità, tra mondo e trascendenza, tra materia e spirito.

Francesco Arena, Lo Starec, 2023, rame, 250×70×42 cm. Foto: Federica Delprino – Omar Tonella. Courtesy dell’artista e di Galleria Raffaella Cortese.

Hai inaugurato l’installazione del tuo lavoro da Aedicula nello stesso sabato dell’attacco terroristico di Hamas in Israele. Già nel vederla, con il suo baricentro decentrato, la tua opera mi è parsa un chiaro riferimento all’instabilità e all’equilibrio precario delle nostre vite. Vite che richiedono un impegno continuo per essere mantenute in piedi, proprio come la tua opera che, senza la cura dell’altro, non può reggersi. Questa idea di instabilità sembra rispecchiare il clima attuale di incertezza, segnato da conflitti e tensioni in diverse parti del mondo. Come vedi la relazione tra l’opera d’arte e il contesto storico in cui viene presentata, e come pensi che “Lo Starec” possa offrire una riflessione o una reazione a questa realtà contemporanea di precarietà e conflitto? Del resto, la tua opera non può contemplare il conflitto con l’altro perché senza l’altro non si regge in piedi.
Credo che precarietà e conflitto non siano caratteristiche solo della realtà odierna ma siano caratteristiche della realtà contemporanea all’uomo e quindi della realtà che accompagna l’uomo da milioni di anni, sin da quando viveva in sparuti gruppi dispersi tra le foreste europee o le pianure africane e se non avesse trovato cibo sufficiente sarebbe morto di fame. L’essere umano si aggira fondamentalmente solo in cerca di equilibrio e sicurezza, questo equilibrio e sicurezza sono sia di natura contingente alle necessità fisiologiche della giornata (cibarsi, ripararsi, dare una chance alla propria progenie, ecc.) sia di natura metafisica (cosa siamo, perché viviamo, da dove veniamo, ecc.) quindi l’uomo si occupa ed è angustiato da sempre dagli stessi problemi solo con nomi diversi e diversi livelli di sovrastrutturazione culturale o edilizia. Attraverso l’arte, ma anche la religione e la magia, cerchiamo di dare un senso a ciò che ci circonda cercando di smentire ciò che ha detto Cormac McCarthy nel suo ultimo libro, che “il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere”.

Un altro aspetto che vorrei discutere con te è la doppia anima dell’opera. In “Lo Starec” vedo una certa ambivalenza: da un lato la sua forma fisica che è essenziale e raffinata, dall’altro il suo significato concettuale che invece è tragico. Questa ambivalenza sembra richiamare un conflitto tra l’estetica e il contenuto concettuale dell’opera. Tu come vedi questa complessa relazione tra l’aspetto esteriore dell’opera e il suo significato profondo?
Aspetto e significato, forma e sostanza. Significato non è la parola giusta, se penso alla parola significato immagino qualcosa di ben delineato, di univoco; invece, le opere più che altro sono oggetti (forme?) che rilanciano domande (significati?) che spesso cambiano da fruitore a fruitore, ma anche da momento a momento nello stesso fruitore. Quando riguardo le mie opere a distanza di tempo le interpreto in modo spesso molto diverso rispetto ai “significati” che ci avevo affogato dentro quando le avevo pensate, però la forma è sempre la stessa e questo perché in realtà l’unica cosa che possiamo governare è la forma, la materia fisica di cui le cose sono fatte, tutto il resto è incontrollabile, i sentimenti, le idee (anche questa parola però non è corretta), mutano e la cosa che rende l’opera d’arte diversa da un altro oggetto è la capacità di essere un manufatto contro cui queste mutazioni si scontrano, filtrano, e la rendono diversa senza cambiarla.

Francesco Arena, Lo Starec, 2023, rame, 250×70×42 cm. Foto: Federica Delprino – Omar Tonella. Courtesy dell’artista e di Galleria Raffaella Cortese.

In effetti l’idea che la forma sia l’elemento stabile in un’opera d’arte mentre il significato può essere mutevole è affascinante. Come credi che la forma de “Lo Starec” interagisca con i cambiamenti di percezione e interpretazione del suo significato nel tempo? In che modo la tua scelta del materiale e l’aspetto fisico dell’opera, la sua forma, il suo stare e non stare, contribuisce a questa continua interazione?
In alcune opere la forma, nel tempo, è mutevole come il significato perché alcuni materiali sono destinati a cambiare, anche materiali apparentemente resistenti come il bronzo o la pietra cambiano aspetto, da lucidi diventano opachi, si ossidano, a volte si consumano, certo questi cambiamenti sono al di là del tempo umano, sono molto lenti soprattutto quelli che riguardano il volume di un oggetto mentre la patina ha un tempo più umano. Questi cambiamenti sono spessi reversibili, il bronzo ossidato lo si può rilucidare, lo stesso vale per il marmo e anche un significato sprofondato nelle stratificazioni del tempo può essere recuperato, riscoperto, ma un volume perso è difficile da ritrovare. Certo l’artista conosce bene le caratteristiche del materiale che decide di utilizzare e i suoi cambiamenti sono messi in conto e spesso governati attraverso istruzioni o la scelta di lasciare che le cose mutino da sé.
“Lo Starec” è di rame, un materiale assolutamente mutevole, se lo si tocca si ossida, ma per essere agito “Lo Starec” ha bisogno di essere toccato, di essere tenuto, la sua interazione con ciò che gli sta attorno è totale perché il suo materiale, apparentemente fermo, rispecchia tutto ciò che gli sta attorno, ogni cosa può entrare per un momento nella sua superficie senza lasciare ricordo del suo passaggio, ma se troppo toccato non rispecchierà più ciò che lo circonda perciò ha bisogno di essere accudito, pulito come fosse un corpo, la scultura spesso è un altro corpo, fermo, che chiede un’interazione con il corpo di chi passa.

Nel comunicato stampa che presenta questo tuo lavoro, si parla dell’origine del termine “Starec” e la sua connessione con l’anzianità, l’intelletto e lo spirito. Ma questo lavoro si relaziona anche con altre parole, quelle che compongono il messaggio inciso sul suo lato lungo (“separated from all, he is united with all” – Separato da tutti, è unito a tutti) e che si possono leggere solo quando qualcuno tiene l’opera in piedi. Puoi spiegare come hai scelto di lavorare con tutte queste parole e come hai trasformato le parole in un’opera d’arte, con questa forma e questo materiale?
Nella tradizione russa lo Starec è appunto il monaco saggio, un padre spirituale, vuole essere di conforto e il suo conforto principale è l’ascolto, ascolta e suggerisce, per questo ha bisogno di essere lontano dal frastuono del mondo per poterlo curare. Questo credo sia il senso delle parole dello Starec Zosima nei fratelli Karamazov, “separato da tutto, unito a tutti”, è un messaggio semplice che però per me aveva bisogno di essere supportato, nel senso di farsene carico letteralmente con lo sforzo fisico, a volte alcune cose non basta dirle ma occorre agirle, metterci un po’ di fatica e di pazienza, quella che occorre al performer per tenere la scultura in piedi con il proprio peso affinché il messaggio dello Starec sia visibile, senza questo sforzo fisico l’opera è un’altra cosa, un’altra forma.

Mi piace pensare all’opera d’arte come a un oggetto che trova la sua completa realizzazione al di là dello spettatore e oltre il suo sguardo. Questa tua opera invece cerca il coinvolgimento attivo dello spettatore. Credi che lo spettatore sia sempre necessario all’opera d’arte? O forse, come penso io, l’opera non ha bisogno di nulla perché esiste al di là di noi?
Ne “Lo Starec” è importante l’incontro, chi passa da Albisola e guarda attraverso la porta a vetro dello spazio di Aedicula può vedere un oggetto orizzontale sul pavimento oppure un oggetto verticale sostenuto da una persona, non c’è una regola che dice quando la scultura sarà stesa o in piedi. C’è un testo che racconta cos’è la cosa che abbiamo davanti, ma l’incontro con l’opera sarà sempre al cinquanta per cento perché sarà in piedi oppure stesa ma non entrambe le cose, l’altra metà la completa mentalmente chi guarda, la scultura è lì in una delle due forme, disponibile all’incontro con l’altro, presente comunque anche se nessuno la guarda, come il monaco nella sua cella a disposizione del frastuono del mondo.

Ho fatto caso alla tua firma nella mail. Vedo che abiti a Cassano delle Murge, una località decentrata rispetto ai tradizionali centri artistici come Milano. Anche la tua mostra presso Aedicula ad Albisola sembra abbracciare una scelta di “decentralizzazione”, sia tua, sia di Raffaella. Mi pace vedere questa scelta in relazione all’opera di cui abbiamo parlato, priva di bari-centro. Puoi condividere con noi come il vivere e lavorare in zone decentrate influisca sulla tua pratica artistica?
Non avverto molto questo senso di decentramento forse perché “solitude is multitude is solitude is multitude is solitude is multitude …” (nda: l’artista si riferisce alla scritta incisa su un’altra sua opera intitolata “Cintura”) e poi viaggio molto, perciò, non vivo il paese come una condizione così permanente e anche perché il mio non è un tentativo di isolarsi, non so se questa condizione influisca sul mio lavoro, non ne conosco altra.


Francesco Arena. Lo Starec

7 ottobre 2023 – 13 gennaio 2024

Aedicula Raffaella Cortese
via C. Colombo 54, Albisola Superiore (SV)

Info: https://aedicula.raffaellacortese.com/

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