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BOLOGNA | CUBO-Museo d’Impresa del Gruppo Unipol | Fino al 11 maggio 2024

Intervista a STEFANO NON e CLAUDIO MUSSO di Ilaria Bignotti

Perturbante. Distopica. Con una certa dose di inquietudine e una buona percentuale di smarrimento, si entra e si esce dai due spazi bolognesi di CUBO dove, nel contesto della manifestazione das.07, i dialoghi artistici sperimentali che annualmente il Museo d’Impresa Unipol organizza e apre in concomitanza con la kermesse di Art City Bologna, è in corso il one man show dedicato all’artista Stefano Non (Bergamo, 1984). Il progetto è a cura di Claudio Musso, uno dei critici e curatori più raffinati del panorama italiano contemporaneo, capace di porre in luce, attraverso scelte artistiche inedite e non facili, il problema, o meglio l’interrogazione necessaria nei confronti del paesaggio. Tema enorme, tema sovradosato, tema ingombrante e abusato, si sa. Ma la visionarietà cruda e intellettuale di Stefano Non, con la dedizione curatoriale di Claudio Musso, tirano fuori da questo tema un percorso di potente coinvolgimento, non scontato, accidentato e pieno di sollecitazioni.

Stefano Non, Giraffa con Giraffine Cosmiche al Museo terrestre, 2024, installation view. Foto: Vincenzo Ruocco

Ma attenzione, le opere sono anche belle da un punto di vista collezionistico: le quattro Giraffe di lamina metallica, origami che passeggiano a Spazio Arte in Porta Europa, sono sculture esatte, possenti, e lievissime; l’installazione di oggetti plastici chiamata, nel complesso, Genesis, in Torre Unipol, si slancia e riluccica tra i mattoni forati e parzialmente colorati, in una maglia non ortogonale che ci chiama e ci ammalia.
Non deve essere stato facile, mi viene da pensare, costruire questa mostra, che poi non è una mostra, è un viatico nella nostra testa, nei nostri meccanismi di pensiero, è un progetto radicale che ha saputo prendersi il suo spazio, il suo tempo, e ce lo dice in faccia. Ci fa pensare con il corpo, ci manipola la mente.
La curiosità di parlarne con curatore e artista è ovviamente altissima.

Un artista crea per avere qualcosa da guardare, mi vien da pensare guardando questa mostra: quali sono i sentimenti sulla contemporaneità che ti hanno guidato in questo disegno espositivo?
Stefano Non: Io creo per aver qualcosa da guardare, è vero. Creo per confrontarmi con il Creato, creo per gioco che è una cosa estremamente seria in realtà. La mia creazione nelle forme plastiche non prevede nessun tipo di disegno preparatorio, dovrei rincorrere con un medium un altro medium, poco sincera come cosa, e lo percepisco poi come una sottrazione di dignità alla Materia. Preferisco che sia agente con me della creazione, creare un patto, un mutuo soccorso. Quindi è vero che io guardo le mie opere come è vero che loro guardano me. Questo atto duplice ha il grande merito di placare momentaneamente quell’angoscia cosmica che muove il mio operare. Molto bella e puntuale la tua espressione sui sentimenti della contemporaneità, perché è di un sentire che si tratta, non di un fatto certo, di cui si occupa la Storia. Distinguerei due differenti scale paesaggistiche e mediali, legate però fra loro, in una macro e una micro. Parto da quella macro: guardando DADA 3000 I.E. ti accorgerai che è un video in massima parte americano. E qui possiamo parlare di un difetto di contemporaneità, per il fatto stesso che l’imperium statunitense − nel quale la nostra generazione si è culturalmente formata − non pare più così saldo e attrattivo, oggi tante cose che parevano ovvie vacillano. Il video 3D è al limite tra il sogno e il gioco, contiene in modo raffinato i suoi contrari: l’incubo e il rigore causale della logica. Pensa ad esempio alla scena dell’omicidio di Kennedy, in cui il killer si scopre essere Bruce Nauman vestito da pagliaccio (in una sua celebre opera, Clown Torture). L’omicidio di un presidente eletto è la negazione più terrificante del principio di democrazia rappresentativa, effettuato da un artista – a scanso di equivoci: Nauman è un genio − che ha capito e rappresentato con una capacità sopraffina l’irriducibile lato oscuro e opaco dell’animo umano. La crasi concettuale della frase «A brick is a brick subject to the laws of thermodynamics» se trasposta dal piano delle scienze naturali a un piano culturale, significa proprio questo: cambiamento, che può essere interpretato come instabilità o come novità. Io registro, rielaboro e restituisco questi cambiamenti, queste modificazioni. Creo immagini utili a posizionarsi fra questi due poli, che potremmo anche definire “geopoeticamente” come utopia e distopia. Non ho le forze né il diritto per giudicarle e considero l’arte una disciplina mossa dallo spirito che sfocia in un linguaggio caratteristico, specifico. Compito di una buona società è avvicinare quanto più possibile a quel linguaggio, non il contrario, pena il ridurre l’arte a mera comunicazione stereotipata o supporto a tesi pret-à-porter di carattere ideologico, da «atlante dei mali del mondo» per citare una felice espressione di Marco Meneguzzo. Il grande, grandissimo e controverso rapporto fra il quantitativo e il qualitativo innerva tutto il mio lavoro perché ha pervaso tutta la mia esistenza, e qui siamo al micro paesaggio mediale. La questione fondamentale è che il primo approdo all’arte per me non è venuto dal frequentare i musei, ma dagli spaghetti western, dai film distopici e dal genere Vietnam-war hollywoodiano trasmessi sulla TV commerciale italiana in seconda serata (la maggior parte su Rete4, eterogenesi dei fini). Pensando spazialmente: la produzione culturale di massa si presta a incursioni autoriali e artistiche forti, valide. Fatte in questa maniera sono comunque arte. Il fumetto è un altro campo pieno di esempi. È il quantitativo che si fa qualitativo. Come a dire: nell’eccesso di sovrastimolazioni mediali industrializzate della «shuffle era» – Gunther Anders ha coniato la bella e poetica definizione di dislivello prometeico − è necessario riuscire a riconoscere l’autenticità. Isolarla, farla emergere e rielaborarla per portarla nel mio discorso autoriale è ossigeno puro per me. In altri termini possiamo esprimerla come una critica al valore. Osservando poi in particolare i lavori di Genesis si capisce in modo evidente come la metafora di eccesso/difetto sia restituita. Chiaro è rischioso, perché molto meno comodo di utilizzare linguaggi già assimilati, che però essendo appunto già assimilati non possono più contenere quel carattere caustico e destabilizzante della vera ricerca. Vale per la parte video, vale per la parte plastica. Quantitativo che si fa qualitativo: il mio “studio” in sostanza è un’officina per la lavorazione di leghe leggere e una carrozzeria di car tuning, niente a che a vedere con l’atelier d’impostazione accademica. Aggiungo che video e soggetti plastici proposti con legami installativi insieme sono una scelta strategica: generano un ambiente mediale complesso e stratificato, altra caratteristica fondamentale del nostro tempo e, forse, del futuro. La produzione sociale è sempre più orientata alla spettacolarizzazione, quindi tende ad ibridare i mezzi puri nello spazio per aumentare l’engagement, il coinvolgimento immediato del consumatore. Un concerto fino a qualche tempo fa era un cantante che cantava e veniva amplificato, al massimo video trasmesso. Oggi lo spazio di un concerto contiene qualcuno che canta, un lightset, delle coreografie e i tempi sono completamente dettati dalla sua fruizione su altre piattaforme. L’engagement è una struttura del pensiero piuttosto acritica − quindi di segno opposto tra quantitativo e qualitativo − mimarla sarebbe banale e vuoto, però capire come funziona è utile per detournarla, per portarla su piani più pregni di senso e di vita.

Stefano Non, menoxmenougualepiù, 2024, installation view. Foto: Vincenzo Ruocco

Hai, immagino, lavorato sui due spazi museali con diversi sopralluoghi: quanto hanno influito gli ambienti sulla mostra e viceversa, quanto credi che questa mostra abbia cambiato gli ambienti
S.N.: Ho fatto un paio di sopralluoghi in ciascuno dei due spazi e mi sono fissato in testa tante loro immagini. Spazi molto diversi, quasi opposti nella loro articolazione. Lo Spazio Arte a Porta Europa è un volume unico, al piano terra, molto raccolto e isolato con visione rialzata sul livello della strada, in un parco dove spicca la suggestiva installazione del collettivo FUSE*. La metafora operativa da usare è quella dell’alleggerimento e dell’armonia, pochi segni ben disposti: aspetto cromatico delle giraffe che entrasse nel colore del pavimento per allungare lo spazio diminuendone la densità, video quadrato e centrale in spazio cubiforme per dare simmetria, audio diffuso e avvolgente. Lo Spazio Arte di Torre Unipol invece è un pieno “Display of Power”: l’edificio più alto di Bologna con vista su un paesaggio stratificato tra residui di campagna, industria in disarmo e arterie dei servizi. Interno nervoso e complesso con spazi frammentati in senso espositivo perché giustamente pensati in funzione dell’ergonomia produttiva. Generalmente per lo stesso principio espresso sopra per la materia tendo a lavorare con lo spazio e non a imporre soluzioni predeterminate. In questo caso è stato vitale per due ragioni: primo mi è stato chiesto di intervenire site-specific e secondo provare a piegare uno spazio del genere significava uscirne veramente malconcio, non aveva senso. Quindi ho giocato riempiendolo con mattoni Poroton© verniciati ad aerografo settato con pressioni dell’aria molto alte per entrare nei pori e per dare una resa molto ruvida, sbeccata. Come l’intonaco colorato dai graffiti quando si sgretola. I video wall senza cornice sono estremamente diretti, danno una spinta luminosa forte e sono montati su americane, effetto brutalista. Con Claudio abbiamo invaso tutto il perimetro dello spazio attraverso l’allestimento, anche nelle fasce oltre le aree verdi. Questa è stata una mossa vincente: mostra e paesaggio esterno non hanno soluzione di continuità, l’occhio corre dall’una all’altro e l’effetto è davvero potente. Gli spazi sono cambiati? Io ti direi di sì, però sarebbe più interessante chiederlo a chi lavora lì tutti i giorni, sono i più preparati per poterlo dire. Vedere però le maestranze prendersi del tempo dopo una giornata di lavoro estenuante per fermarsi a fare domande e fotografare sorridendo le opere e l’allestimento credo rafforzi molto la tesi del cambiamento, oltre a darmi grande soddisfazione come artista.

Stefano Non, menoxmenougualepiù, 2024, installation view. Foto: Vincenzo Ruocco

Spesso il curatore è chiamato a fare ordine nella progettualità rutilante dell’artista. Ci racconti Claudio come hai lavorato con Stefano?
Claudio Musso: Ho conosciuto prima l’opera e poi l’artista, attraverso una mediazione umana, lo sguardo attento e tagliente di Irene Biolchini, e una mediazione ambientale, la visita a Spazio Gamma in occasione della mostra Re_g(u)ard_e. Come succede spesso, l’idea di lavorare insieme è nata per caso (anche se, come dice il Maestro Oogway, il caso non esiste). Stefano stava muovendo i primi passi per giungere al terzo capitolo della trilogia a cui lavora dal 2020 e, grazie al suggerimento di Lorenzo Balbi, direttore del MAMbo di Bologna, il progetto è arrivato ad Angela Memola di CUBO. Al di là di questa doverosa ricostruzione, il mio approccio curatoriale cambia e si modifica cercando di corrispondere di volta in volta al modus operandi dell’artista. Stefano Non è un tornado, ti trascina e ti risucchia dentro i suoi mondi e, proprio come per lo spazio milanese che gestiva, è capace di creare una équipe che lo segue, dall’ideazione alla produzione. Insieme abbiamo visitato gli spazi espositivi, insieme abbiamo risposto alla sfida di due mostre pensate appositamente per gli ambienti, insieme siamo giunti a una struttura che ha una sua chiarezza formale tra video e scultura, tra immagine impalpabile e materia plastica, coincidentia oppositorum come direbbe l’artista. Il filo diretto tra me e Stefano si è aperto quando il progetto era solo un’idea ed è proseguito stringendosi sempre di più, tanto che ho potuto seguire passo passo l’elaborazione e la realizzazione delle opere, è stato come avere una videocamera accesa 24/7 nel laboratorio dell’artista.

Stefano Non, menoxmenougualepiù, 2024, installation view. Foto: Vincenzo Ruocco

Giraffa con giraffine cosmiche al museo terrestre e -x-=+ Menopermenougualepiù (Costruire sull’assenza del referente) sono i due titoli delle mostre nei due spazi di CUBO che solleticano l’attenzione e conducono il visitatore a un immaginario denso di rimandi e di sorprese. Chi ha dato i titoli delle mostre e come la tua narrazione, Claudio, ha seguito le opere?
C.M.: I titoli delle mostre sono frutto di un parto cerebrale dell’artista, al quale ho assistito con gaudio e giubilo. Il primogenito è stato Menopermenougualepiù, nato per accompagnare la proposta progettuale come traduzione di una formula matematica (espressione delle scienze esatte) accompagnata tra parentesi da una specificazione semiotica (imperniata su una locuzione delle scienze umane), tra duro e molle, hard e soft. Giraffa con giraffine cosmiche al museo terrestre è uno spunto narrativo, potrebbe essere la sintetica sinossi di un romanzo di fantascienza (come T.H.E.M., quello che Sergio Giusti ha scritto per il progetto Tempi Nuovi), funziona come uno stargate testuale verso una dimensione parallela.
Il testo critico che accompagna la mostra è stato scritto a partire da numerose pagine di appunti che avevo preso durante le telefonate, gli studio visit e le abbondanti chat con Stefano Non che consistevano in un fuoco incrociato di riferimenti alla filosofia, alla letteratura, al cinema, al fumetto e allo sterminato corredo iconografico che popola l’immaginario di entrambi, senza vincoli gerarchici tra “alto” e “basso”. In questo processo in fieri, a un certo punto sono arrivate le opere che, dalla dimensione ideativa, sono entrate nel mondo fisico e si sono conquistate uno spazio mentale oltre che un ingombro ambientale. La particolarità dei video e dei soggetti plastici esposti sta nell’apparire super leggeri e dotati di pura superficie pur essendo estremamente densi e ricchi di rimandi: il portato di un processo alchemico, il risultato di una sedimentazione concettuale.

Stefano Non, menoxmenougualepiù, 2024, installation view. Foto: Vincenzo Ruocco

Molto del tuo lavoro, Stefano, si basa su un’osservazione critica, nel senso etimologico del termine, sulla produzione di racconti e immagini attuali: scegliere, tagliare, comporre e ricomporre le icone e il racconto è al centro del video sulle giraffe e del video DADA 3000 I.E., un sogno lucido nel quale figure cardine dell’arte e della scienza del XX secolo si incontrano in paesaggi videoludici. Ci racconti meglio come avviene questa tua fine operazione di straniante taglia e cuci?
S.N.: La questione per i video analogici è operativamente semplice, uso programmi di editing comuni con interventi mai troppo elaborati, mentre per i 3D chiaramente i tagli e la scelta dei personaggi avvengono nella mia mente, poi scrivo un soggetto, uno storyboard e faccio regia e montaggio dirigendo un tecnico giovane e molto in gamba. Tutto muove però da un fatto di coscienza, quindi di posizionamento verso il mondo, immagini comprese; che pure sono mondo, rimediato, ma mondo. Un filosofo che apprezzo molto, Peter Sloterdijk, nel primo capitolo del libro Dopo Dio introduce una dicotomia che credo possa essere espressa come ontologica, si può essere del mondo o si può essere nel mondo. Per fare questo tipo di tagli, selezioni e rimescolamenti bisogna maturare una coscienza del secondo tipo. C’è un distacco, un riposizionamento e una tensione verso un sentire che non sono pienamente mondani. Insomma bisogna essere spinoziani, percepire che siamo attributi particolari nel tutto della grande sostanza che è la Natura. Sembra una sciocchezza, ma non è così. Lo spiego con un esempio dal video delle giraffe: a un certo punto del video c’è una giraffa grande in primo piano con le guance piene di erba, che mastica placidamente e guarda in camera. Una coscienza del primo tipo pensa che la giraffa stia guardando noi, una del secondo pensa che sta guardando altro. Ma cosa? Non lo potremo mai sapere e soprattutto di questo non sapere non potremo mai farcene una ragione. Qui il cerchio si chiude tornando alla nozione di angoscia cosmica, ovvero il sentimento necessario per fare buona arte.

Stefano Non, menoxmenougualepiù, 2024, installation view. Foto: Vincenzo Ruocco

Una domanda che spesso pongo ai curatori, che pare ironica ma non lo è affatto, è: chi te lo fa fare di fare questo lavoro? Ecco, vedendo la muscolarità di questo progetto, mi chiedo, Claudio, quanto hai dato, quanto hai ricevuto dal dialogo con l’artista…
C.M.: Chi me l’ha fatto fare proprio non lo so, ma ancora oggi, al di là delle difficoltà oggettive, quando lavoro attivamente come curatore penso che sia un privilegio raro. Mi sono formato in una scuola in cui si insegnava che il “mestiere” del critico d’arte, dallo studio alla scrittura fino alla divulgazione, dovesse essere imprescindibilmente connaturato al dialogo con gli artisti. Il rapporto con Stefano Non, nello specifico, mi ha portato a maturare consapevolezze riguardo alle letture trasversali che avevo fatto in precedenza, come la fondamentale importanza dell’immaginario fantascientifico nella percezione dello sviluppo del paesaggio urbano e i suoi riflessi sul pensiero filosofico. Dal canto mio, come sempre, ho fatto soltanto tutto ciò che era necessario per portare il progetto al suo compimento nel miglior modo possibile, che questo significhi partecipare a un gruppo di lavoro che amplia e rafforza le tue conoscenze o allestire qualche centinaia di chili di mattoni in pochi giorni, non fa differenza. Sui mattoni poi, quando inviti due bergamaschi (un artista e un curatore) a realizzare una mostra è il minimo che ti devi aspettare.

 

STEFANO NON. DAS.07 TEMPI NUOVI
Doppia mostra personale a cura di Claudio Musso

Fino all’11 maggio 2024

CUBO Museo d’impresa del Gruppo Unipol

CUBO in Porta Europa – CUBO in Torre Unipol

Bologna

Info: https://www.unipol.it/it/events/cubo/2024-02-02/tempi-nuovi-cubo-unipol

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