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Giubilei Regnani Editore

Intervista a ANGELO CRESPI di Alessandra Redaelli

Dopo Ars Attack, il bluff del contemporaneo (Johan & Levi, 2013), 100 anni di arte immonda (Il Giornale, 2017) e Costruito da dio (Johan & Levi, 2017), Angelo Crespi torna in libreria con un altro saggio contro le storture dell’arte contemporanea, accusata di aver rinunciato al bello in nome del nuovo, del sorprendente e – anche – del ripugnante.

Angelo Crespi, ph Walter Capelli

Edito da Giubilei Regnani, Nostalgia della bellezza. Perché l’arte contemporanea ama il brutto e ci specula sopra è una cavalcata attraverso le storture di un sistema descritto come malato, sia dal punto di vista estetico che da quello etico. Un testo costruito come un’intervista che, nell’incalzante botta e risposta con un immaginario spettatore, si fa leggere tutto d’un fiato. La nostalgia di cui parla Crespi non si riferisce tanto a un passato di armonia e di saper fare, quanto piuttosto a una bellezza futura, vista come redenzione di un sistema destinato fatalmente a saziarsi di opere volutamente mal fatte, ovvietà, calembour e provocazioni che sembrano voler sbeffeggiare lo spettatore.
Sottolineando come la definizione di “arte contemporanea” sia oramai una stortura semantica, trovandosi le radici di questo preteso contemporaneo nell’orinatoio di Duchamp del 1917, e ricordandoci come le stesse neuroscienze dimostrino la vocazione umana al bello, l’autore ci porta nei templi segreti dell’art system, dove gli addetti ai lavori (gallerie di grido, case d’aste, curatori, collezionisti pronti alla speculazione) si considerano oramai sacerdoti di una religione misteriosa e molto elitaria che – come nel passato i chierici con il latino – utilizza un linguaggio incomprensibile per dare senso e forza a opere incomprensibili, molto spesso inequivocabilmente brutte, certificando così che cosa è arte e cosa no, con evidenti conseguenze sul mercato. Abbiamo chiesto all’autore di raccontarci la sua nostalgia della bellezza.

Oggi la bellezza è reazionaria o rivoluzionaria?
Tecnicamente io sono un reazionario, reagisco al brutto che mi circonda e che mi duole in senso fisico. Non posso essere biasimato se reagisco a un sopruso, e quello del brutto rispetto al bello è un vero e proprio sopruso a danno dell’uomo e dell’umano. La bellezza invece è rivoluzionaria, perché è in grado di sovvertire il mondo dell’arte contemporanea che ama così tanto il brutto. E poi la bellezza è una forma simbolica che invece di procedere verso l’insignificanza e l’annullamento, produce continuità nel sistema, mutamenti di forma, nuovi significati.

Dalla tua disamina si deduce che la nostra è la prima civiltà che preferisce il brutto al bello. Perché? Cos’è accaduto?
Dovrei affidarmi alla teologia, ma preferisco semplicemente inscrivere questo slittamento in un contesto di tramonto della civiltà occidentale in cui prevalgono, dal punto di vista filosofico, il relativismo e il nichilismo, entrambi fenomeni avversi alla Bellezza. Nelle terre del Leviatano, annotava Ernst Jünger, regna il cattivo gusto.

Nel libro lanci una provocazione: l’arte contemporanea ci odia. Come si manifesta questo odio?
L’arte contemporanea concettuale aborre la bellezza e il senso delle cose, predilige il brutto e l’insensato, e così facendo svilisce l’umano. Di fatto ci odia, odia le aspirazioni migliori della nostra civiltà, il nostro passato, la tradizione, l’idea di trascendenza.

L’aggettivo “contemporaneo” attribuito all’arte è oramai, come sappiamo, insensato, almeno dal punto di vista temporale. “Contemporaneo”, dunque, indica uno stile?
Secondo me sì. Poiché viviamo in una sorta di “presentismo” per cui si dilata l’idea di contemporaneità, con “arte contemporanea” deve essere definita non tanto l’arte che ci è coeva, bensì uno stile che ha strettamente a che fare con l’arte concettuale, in cui si predilige il concetto alla forma, il pensiero al fare. E per questa ragione, prescindendo dalla forma, è il primo stile nella storia che tende al fatto male cioè al brutto. Ma visto che è uno stile finirà, e a quel punto i collezionisti più chic dovranno buttare nella spazzatura gli squali sotto formaldeide, gli emoritratti, le installazioni fatte di muco e piscio, gli stronzi giganti, e altre amenità del genere.

Angelo Crespi, Nostalgia della bellezza, Giubilei Regnani, cover.

Escluse le categorie della bellezza e del saper fare, superato l’oggetto a favore dell’idea e azzerato il ruolo valorizzante del museo, pare che a determinare lo status di arte sia rimasta solo la possibilità dell’oggetto in questione – o dell’idea – di scatenare una discussione sull’arte. È tutto qui? A cosa porterà questo?
Non saprei, per ora l’idea che opera d’arte è una cosa che fa discutere, ci ha condotto all’insensatezza per cui l’opera più acclamata degli ultimi anni è una banana appesa con lo scotch pagata – si dice – 120 mila dollari. E questo è svilente perché la banana, al contrario della vera arte, non ci dice nulla di interessante su di noi, sulla nostra vita, sull’amore, sulla bellezza, sul mondo, sulla morte; ci dice solo che il meccanismo dell’arte contemporanea è malato e che qualcuno ci vuole speculare sopra.

Allo stesso modo, se il furto costante delle idee annulla anche l’ipotesi che sia l’intuizione iniziale a dare valore, tutto si riduce alla firma e dunque al brand?
Hai ragione, se non conta aver avuto per primo l’idea, se non conta averla materialmente realizzata ben potendo farla realizzare da altri, se non conta averla fatta meglio di chi l’aveva già pensata, mi domando quale sia il criterio per giustificare l’opera d’arte. Se togliamo queste tre caratteristiche all’opera d’arte concettuale, non resta che la riconoscibilità dell’artista, la forza del suo brand. Mi sembra assurdo che l’opera valga non per la bellezza o la riuscita, bensì solo per il marchio o perché esposta in un museo. Così la bandiera tagliata di Vezzoli vale più della bandiera tagliata di Mr. Savethewall anche se aveva avuto prima l’idea.

E intorno a tutto questo si muove un mercato scivoloso, basato su criteri volatili e il cui andamento è determinato da una quota minima delle transazioni reali.
Il mercato è l’unico decisore, il prezzo è l’unico certificatore: d’altronde l’arte antica costava perché valeva, l’arte contemporanea vale perché costa. 

Ma di questo sistema così pericolante, basato su criteri estetici vaghi e su un mercato imprevedibile, cosa resterà dopo la pandemia?
I super ricchi, che con la peste sono diventati ancora più ricchi, probabilmente continueranno a speculare sulle schifezze. Le persone normali invece credo abbiano bisogno di più bellezza, perché la bellezza ci permette di abitare meglio il mondo, di meglio comprenderlo, ci permette di provare piacere, quel piacere disinteressato nei confronti dell’oggetto e del suo possesso che è poi il piacere della contemplazione, facoltà assolutamente inutile e nello stesso tempo indispensabile per dare senso alla nostra vita. Ed è per questo che considero la pittura l’unica vera avanguardia in grado di produrre bellezza e dunque di salvarci. Amo la figurazione e l’astrazione, pittori come Samorì o come Floreani, ma sempre nel perimetro aureo della pittura.

Angelo Crespi si occupa di arte contemporanea e cultura. Nel 2017 ha pubblicato un pamphlet sull’architettura, Costruito da dio. Perché le chiese contemporanee sono brutte e i musei sono diventati le nuove cattedrali (Johan & Levi), e un saggio su Marcel Duchamp, 100 anni di arte immonda (ed. il Giornale). È l’autore di Ars Attack. Il bluff del contemporaneo (Johan & Levi, 2013). Attualmente è consigliere di amministrazione del Piccolo Teatro di Milano e del Museo Maga di Gallarate. 

Info: www.giubileiregnani.com

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