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di ROBERTO FLOREANI

“Che dire? Al grande Rob con cui spero di fare grandi cose.
Un abbraccino”.
Andrea

Ci si sarebbe dovuti sentire con Andrea Di Marco a giorni per commentare i risultati elettorali delle regionali in Sicilia. Invece le parole son restate ruvide in gola. Come ci si sente quando si perde l’ennesimo amico? Senza direzione. Ci si guarda intorno come ci si trovasse in mezzo ad una stanza vuota, senza sapere da che parte uscire o se uscire o entrare da un’altra parte. Si prendono libri comuni in mano, si cercano quelli che raccontano di esperienze vissute insieme ad altri amici, insieme a Maurizietto Sciaccaluga, andatosene anche lui, nel soffio di cinque anni fa. Andrea, quello della fantastica foto sospeso per aria, né qui né altrove. Andrea con lo sguardo profondo, sornione e disincantato, attento a cogliere le cose della sua terra: gommoni, serrande, pile di cassette, roulottes, pali della luce, giostrine, pompe di benzina, carriole: un nuovo, grande Guttuso. Avrei dovuto spedirgli da mesi la foto che lo avrebbe fatto felice: un Ape-car azzurrino della Piaggio, soggetto storico delle sue opere, trasformato in micro-camper…

Andrea, il siciliano orgoglioso che decise di pubblicare nel suo catalogo forse più importante “Un paio di cose da sapere su Di Marco”

Forse uno dei periodi più importanti e di cambiamento della mia vita cominciò nella primavera del ’93, quando a casa di un mio amico di Perugia, Mario Consiglio (premetto che in quel periodo non volevo assolutamente fare ritorno a casa, per cui giravo l’Italia in cerca di un luogo dove stabilirmi) sentimmo la notizia dell’attentato al giudice Falcone. Da lì in poi venne fuori la consapevolezza che il rischio di abbandonare gli affetti più cari al proprio destino portasse allo snaturamento del mio io più profondo e questo odioso senso di colpa che mi attanagliava mi portò a ritornare definitivamente a Palermo dove, dopo pochi giorni, a due passi da casa mia, saltò in aria anche Borsellino. Era un caldo pomeriggio semiestivo, di quelli sornioni da Tour de France, affogato nel totale silenzio da siesta, rinomata abitudine sicula, poi il botto, cui seguirono altri meno potenti, i vetri del palazzo in frantumi per lo spostamento d’aria ricaddero nel giardino di casa… di certo, da quel momento in poi, ho cercato di trarre la mia ispirazione politica e sociale dal lavoro dei due magistrati, in cui idealmente mi riconosco. Si doveva stare vicini, dare un contributo alla città per farla rinascere, traendo energia dai movimenti dell’antimafia che la società civile aveva messo in atto….

Restano in sospeso per sempre le cose che si sarebbero potute fare insieme, noi due con lo zaino e nient’altro, come il giro della Sicilia Occidentale partendo da Palermo o un tour sull’Altopiano di Asiago, tra le tracce della Grande Guerra. Una fortuna. Una sorta di corda doppia che unisce per sempre, basta lasciar scorrere lentamente il nodo, per evitare l’impotenza della distanza.

Quando ci si accorge di pensare insieme molte cose che diventano comuni, poi, alla fine dei giorni, ci si ritrova? Io lo spero.

 

 

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