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INTERVISTA A MICHELE ZAZA di Luisa Castellini
Tratta da Espoarte Contemporary Art Magazine n.68

Per Michele Zaza l’immagine non è mai stata un simulacro ma viva testimonianza del farsi dell’uomo nel tempo. Un farsi che necessariamente conduce alla trasfigurazione, attuata nella ricongiunzione del corpo con la sfera del simbolo e dell’archetipo, sia questo colore, postura, mimica nell’immagine che conquista l’ambiente domandando l’esperire, e quindi manifestando quel possibile che si dà nel celarsi. L’affermazione dell’esserci nel e oltre il proprio tempo, atto estremo di affermazione in quel dispiegarsi dell’alterità che rende l’uomo tale.

Luisa Castellini: È attraverso un corpo e un mistero, l’Incarnazione, che l’Occidente supera in parte la diffidenza nei confronti dell’immagine aprendo anche i battenti a opere che mirano all’alterità. Nella sua ricerca corpo, mistero e possibilità sono sempre stati presenti e nel corso del tempo hanno conosciuto diversi tempi e latitudini: dove l’ha condotta questo viaggio?
Michele Zaza: La cultura occidentale si è sempre mossa su un versante cristologico, nel senso che l’idea prende corpo nell’immagine, nella figurazione concreta dell’essere umano. Non a caso il Cristo risorge per riscattare la carne e continuare a essere uomo perpetuando il mistero della vita e della creazione. Lungo il percorso della creatività che da sempre si estende dalla condizione umana alla condizione dell’assolutezza, l’incarnazione e la partecipazione si trasformano lentamente in una sorta di stato trascendentale, poiché l’immagine desiderata mira a conquistare il valore ascetico-sostanziale: una metafisica fattuale. Il viaggio è infinito. Riconduce a se stessi. La libertà e la necessità s’incontrano in un mondo ideale, quasi ad integrarsi. Tuttavia, la libertà, superando i vincoli che la legano alla necessità, potrà pensare e produrre immagini dell’anima. Una trasfigurazione esemplare dell’identità condivisa con l’alterità, simile a un’entità cosmica la cui intimità non esclude l’altro.

Il la della sua ricerca evoca una sorta di work in regress, per dirla con Claudio Costa, vissuto in prima persona e insieme alla sua famiglia: quale rilievo ha assunto il muoversi in una consonanza identitaria nell’avvicinamento a una dimensione di trascendenza, mitica?
Il desiderio di sublimare la realtà quotidiana, nonché l’aspirazione sempre crescente all’idealità, mi conducevano alla comunità dei miei genitori, alle mie radici, alla mia nascita, al mio corpo come corpo del loro corpo. La riconoscibilità della mia identità ha posto il termine finale del filo conduttore della ricerca nella conquista del fondamento antropologico. La consapevolezza della lotta per cambiare il mondo e l’uomo. Dal momento che il linguaggio dell’artista è epifanico, la dialettica apparenza-essenza rivela l’anima segreta della realtà, l’habitat familiare o il contesto domestico. I corpi viventi finiscono per sottrarsi al loro habitat quotidiano per vivere uno spazio “favolistico”, creato a propria misura. Se la povertà spirituale sottrae l’uomo al dubbio, alla critica, alla consapevolezza della propria condizione di ripetizione ineluttabile, al contrario la ricchezza spirituale conferisce all’uomo una potenzialità creativa, riconquistando uno spazio circolare ed eroico, propulsore di infinite significazioni. L’intento è raggiungere e comprendere l’unità di tutte le cose. Un’unità differenziata e molteplice che interpreta e reinventa il mondo dei sensi.

Da una sorta di condensazione antropologica – tra coscienza dell’opacità del tempo, di prassi e costrizioni – alla ricostruzione di un’aderenza tra l’uomo e il senso del possibile, il suo percorso si è dispiegato in primis quale potenzialità semantica: qual è il rapporto tra parola e messa in immagine nella sua ricerca?
Il superamento della materia (piacere feticistico) e della sua corruttibilità sensibile, come anche l’acquisizione fisica dello spazio, concede all’essere la conoscenza, la trascendenza, la creatività e l’idealità. La rappresentazione non è la mimesi del visto e vissuto, ma del pensato. L’artista in quanto corpo trasfigurato assume la conformazione di una visione variabile, divenendo luogo di resistenza alle logiche proprietarie, all’opacità del mondo e del quotidiano. Il che conduce alla facoltà costitutiva dell’esistenza, al suo esser progetto, autoprogettazione dell’immagine rimessa alla decisione della propria individualità. Idealmente il mio pensiero espresso in anteprima mediante la parola può svelare un intreccio di significati nascosti, conferendo un valore più intenso alla raffigurazione stessa. Spesso considero l’immagine non sufficientemente efficace rispetto al titolo al punto di doverla sperimentare nuovamente.

Colore, postura, mimica e impianto narrativo traghettano il corpo nella sua fisicità a farsi geografia plausibile, non solo immaginifica, di altri luoghi: il riconoscimento, l’appropriazione dell’archetipo e quindi la re-iscrizione di nuovi codici mitopoietici per quali direttrici si attua nella sua architettura? È possibile superare la nostalgia propria della maschera prima e dell’immagine poi?
Il ruolo ontologico del concetto di corporeità trova la sua motivazione nel rifiuto di una visione che riconduce all’obiettività, a tutto ciò che si configura come un corpo convenzionale. Il corpo è qualcosa che abita nel mondo senza essere una cosa del mondo, perché ci appartiene. Non si manifesta in un senso unico, la sua apparizione è vettore di qualità dialettiche. Esiste per osservare, interrogare, criticare, creare. Porre confini, determinare altri spazi e immagini. Un progetto poetico che sottrae l’uomo a un’esistenza meramente opaca. A questo punto si può dire che nostalgia e passione della maschera, ancor prima dell’immagine, si equivalgono. Il pretesto è produrre un movimento emozionale: un viaggio continuo nella formulazione di icone, ridefinito costantemente come un itinerario su cui si ricompone e incarna una sorta di unità perduta. Sovente la chiamo “nuova cosmologia umanistica” dove, tolto ciò che appare superfluo, si può vedere la “proposta” di un nuovo essere.

Stelle di pane, cibo simbolico di carne e spirito, ovatta, per un ambiente, quello della fruizione, che si è fatto sempre più totale. La costruzione di uno spazio da respirare sottende l’intenzione di creare un momento rituale e dunque di operare in un’ottica di comunione?
Non esiste una separazione tra me e le cose più vicine, come non esiste una distanza tra me e le cose più lontane. Tutte le cose che abitano in me esistono nell’universo. La modificazione del “proprio mondo”, insieme del “proprio corpo”, è il farsi della “propria esistenza”. Il confine del corpo corrisponde al confine del mondo. Ciò che appare estraneo deve essere pensato come realtà possibile e ideale. La trasfigurazione del corpo e la trasformazione dello spazio, nelle mie ultime opere, rivelano un cosmo materiale/immateriale, insieme psichico. Un cosmo dove si sedimentano segni e simboli, le molliche di pane e il colore del cielo, le forme plastiche e i gesti del corpo, i movimenti del volto e delle mani nelle foto e nei video. Un processo di visione onirica capace di rigenerare l’invisibile quanto il potenziale visibile. La mia ipotesi di “centralità-totalità” mi permette di concepire una rappresentazione dove convergono idealmente terra, cielo, uomo, coscienza. Si tratta di una configurazione ideale del mondo a partire dal suo naturale fondamento antropologico. Una sorta di paradiso inventato, etere spirituale dell’infanzia e della bellezza, che possa trascendere gli ambiti della morale e della sociologia. Una favola ritrovata, capace di portare l’essere oltre se stesso.

Le sue immagini si muovono nella consapevolezza della distanza fondante, che ha del magico, tra presentazione e rappresentazione: se l’icona si fonda sul tentativo di aderire al prototipo cosa mette al riparo l’immagine dall’esaurirsi nel suo essere fine e non anche mezzo?
La vita è inconcepibile senza il corpo. Vivere significa prendere corpo. La presenza del corpo rende esistente il mondo. Il corpo diviene la figurazione concreta della conoscenza del mondo. L’esistenza dell’uomo non è puramente biologica, essendoci nell’uso del proprio corpo un elemento di creazione che impedisce di separare ciò che è naturale e ciò che è prodotto o indotto, il fine e il mezzo. Il corpo diviene zona di trasformazione dal naturale al culturale e viceversa.

L’impiego della fotografia nella sua ricerca si è mosso su vie differenziali con una netta predilezione per la creazione: come si è sviluppato nel corso del tempo?
Se nelle esperienze attuali la fotografia, allontanandosi da una posizione artistica autoriflessiva e critica, esalta la qualità linguistica, o stilistica, ponendosi come autoreferenziale, nella mia esperienza essa acquista un ruolo partecipativo. A partire dalla sua innocenza tecnologica, la fotografia è un mezzo efficace ad alta fedeltà per visualizzare infiniti viaggi nell’immaginazione umana. È un reportage della mia “rivolta” personale, della mia autarchia, dei miei artifici, del divenire di stati emozionali e di risvegli fuori dal tempo. Mi concede la facoltà di esternare i desideri di libertà, di tradurre in immagini uno spazio diverso dalla spettacolarità effimera della società opulenta con tutta la sua velocità consumistica. La fotografia direzionata contro i grandi media di comunicazione, testimonia l’urgenza della diversità: la proposizione della propria identità. Forse può stabilirsi come un punto iniziale per un’arte epica.

Come si caratterizzano le due personali in corso da Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea e a Palazzo Bertalazone?
Nella mostra di Alessandria e in quella a Torino la trasfigurazione del corpo e la trasformazione dello spazio rivelano un cosmo creativo, psichico. Il mio volto, insieme a quello di Annamaria, dialogano ed entrano in simbiosi con forme plastiche, elementi cosmici, in un’atmosfera che tutto reinventa e al tempo stesso tutto promuove. È nella rappresentazione di un nuovo vivente che si trova la possibilità di un universo immaginario, fatto di volti che si scoprono e si nascondono dietro l’apertura e la chiusura delle mani, sicuri di voler occupare uno spazio magico e cosmologico. Il volto come contenuto umano. La sua carnalità partecipa al divenire dell’esistenza, mentre la sua valenza archetipica, con i rimandi al cielo e al sole, proietta infiniti orizzonti visivi immaginari. Nell’
Apparizione magica di Alessandria o nell’Apparizione cosmica di Torino la molteplicità dell’essere è percorribile. Il sensibile si fa elemento del cosmo. Nello spazio di Roberto Allegretti la video-installazione attua una “ipotesi” di visione onirica, che iniziata in precedenza quale Universo estraneo (Luciano Amelio, Napoli 1976), appare qui sviluppata nelle sembianze di un habitat celeste trasformabile: il pavimento si smaterializza diventando cielo, luogo di germinazione di forme plastiche astratte, simile a una “emanazione” di eternità che tutto rinnova, scandita dal battito del cuore, suono cosmico della vita.

BIO
Nato a Molfetta nel ’48, si iscrive al corso di scultura di Marino Marini all’Accademia di Brera a Milano, ove si diploma nel ’71. L’anno dopo presenta alla galleria Diagramma/Inga-Pin di Milano
Cristologia: la sua ricerca si sviluppa in numerosi cicli tra cui Spazio del verbo essere, Mimesi, Anamnesi. Partecipa a Documenta (Kassel, 1977 e 1982), alle Biennali di Parigi (1975) e San Paolo (1977). Nel ’78 lo spazio diventa un Racconto celeste: partecipa alla Biennale di Venezia con una sala personale nel 1980 e l’anno dopo espone al Musée d’art moderne de la Ville de Paris, mentre inizia a inserire elementi scultorei nelle sue opere. Negli anni ’90 i volti si volgono alla trasfigurazione e il viaggio diventa un “ritorno verso se stesso” in una consonanza tra uomo e cosmo densa di simboli e presenze.Negli anni 2000 è al Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea di Roma e al Musée d’Art Moderne et Contemporain di Ginevra. Le sue opere sono conservate in molte collezioni pubbliche tra cui Centre Pompidou, Musée d’art moderne (Parigi); Staatsgalerie (Stoccarda); Museum of contemporary art (Téhéran); Kunsthaus (Zurigo).

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