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Marina Abramović a Bologna con Seven Easy Pieces


Intervista a Renato Barilli

di Luisa Castellini


Venerdì sera, durante il lungo week-end di Arte Fiera 2011, Marina Abramović è a Bologna con Seven Easy Pieces presentata da Renato Barilli.
È il 2005: per un’intera settimana la Abramović, al Guggenheim di New York, ripete una serie di sette storiche performance. Alle cinque di Vito Acconci, Joseph Beuys, Valie Export, Gina Pane, Bruce Nauman fanno contrappunto la sua Lips of Thomas del ’75 e, gran finale, Entering the Other Side. Nasce così Seven Easy Pieces, con regia di Babette Mangolte, summa (e non solo) della storia dell’azione performativa scritta da una delle sue più alte protagoniste.

Luisa Castellini: Con Seven Easy Pieces Abramović scrive un nuovo capitolo della sua opera e, al tempo stesso, sublima brani fondanti la storia della Performance. Quali potenzialità dischiude questa sorta di trasfigurazione in se stessa e soprattutto negli altri artisti, che mette in atto nuove esecuzioni di “brani” ormai storici?
Renato Barilli: Il caso dei Seven Pieces è molto importante, infatti la performance era nata come proposta d’arte da consumarsi nell’attimo fuggente, sdegnando le vie tradizionali, care soprattutto all’Occidente, di fissare con materiali solidi ogni tipo di produzione evitando che si disperdessero nell’aria. Ma si era dovuto constatare che a questo modo le performance si sarebbero dileguate nel nulla, rimanendo solo nella memoria dei pochi presenti. E dunque, la registrazione è divenuta quasi subito un intervento integrativo e indispensabile per consentire anche a queste forme d’arte di sopravvivere. La stessa cosa è accaduta per le installazioni di Land Art, proprio per loro Gerry Schum, alla fine degli anni ’60, aveva fatto nascere la videoarte. Dopotutto, anche la famosa prestazione resa da Marina e Ulay all’entrata della GAM di Bologna rivive continuamente nelle immagini, anche se incerte e in bianco e nero, che se ne erano ricavate.

Come si configura, dunque, nel segmento performativo, la questione dell’interpretazione e della variazione? L’opera pone in nuova luce il problema della temporalità propria dell’atto performativo e della caducità dei mezzi di supporto, documentazione e registrazione: c’è dunque la volontà di assicurarne nel tempo la durata?
Non solo è stata superata la pretesa di un certo purismo, che inizialmente aveva respinto ogni tentativo di far durare il carattere effimero dell’attività performativa, accettando invece di farne degli oggetti di conservazione, perfino nei musei, come tanti altri, ma Marina è giunta a reinterpretare il genere come capace di fornire una sorta di spartito, che altri artisti possono riprendere in proprio. A questo modo è avvenuto un riversamento, dai parametri dell’opera d’arte eseguita una volta per tutte, a quelli della musica o del teatro, in cui l’opera, il testo o lo spartito, costituiscono solo una metà del lavoro, in quanto è pure richiesta la partecipazione di un esecutore.

Entering the Other Side dischiude a un nuovo tempo, dove forse il dolore non sarà più viatico necessario?
Effettivamente questa pièce sembra significare una svolta, in precedenza le performance di Marina mettevano a dura prova la sua stessa incolumità fisica, erano modi di saggiare la resistenza, la capacità di sofferenza del corpo umano, qui invece esso viene immerso in un’atmosfera leggera e ludica, di danza, di festa. Sarà interessante vedere quali saranno le prossime scelte dell’artista.

Quale distanza si registra, in termini di catarsi, tra l’astante, eventualmente presente all’azione performativa, e lo spettatore che la vive mediaticamente attraverso il video?
In effetti ogni forma d’arte fondata sull’attimo fuggente, sui valori del precario, sulle manifestazioni dirette del corpo richiederebbe una complicità da parte dello spettatore, coinvolgendolo il più possibile nell’azione, e inizialmente si è ragionato proprio in questi termini di un purismo radicale, disprezzando l’ausilio dei mezzi di conservazione. Ma poi, come detto sopra, si è capito che sarebbe stato uno spreco inutile, lasciare che prestazioni così suggestive si perdessero nel nulla. Ancora una volta, è lo stesso problema che si pone per la musica e per il teatro, i cui tesori sarebbero andati perduti se non si fosse accettata la logica della trascrizione grafica, con cui in fondo si allarga la sfera degli interventi, si apre uno spazio per chi intende appropriarsene attraverso il rito dell’esecuzione.

Come è mutato lo scenario della Performance da quando, proprio a Bologna nel 1977, lei curava la Prima Settimana Internazionale della Performance dove era presente l’Abramović insieme a Ulay?
Le vicende dell’arte procedono a onde alterne, io stesso, con gli amici Alinovi e Daolio, abbiamo insistito a fare la settimana della performance per altri quattro o cinque anni, dopo quella iniziale del ’77, ma poi abbiamo dovuto constatare che il fenomeno si stava esaurendo, il fiume rientrava negli argini, si tornava ad “opere fatte ad arte”, come quelle dei nostri amati Nuovi-nuovi. Ora direi che si è accettato il necessario passaggio attraverso il video, e dunque l’intero universo performativo rivive nella dimensione della videoarte, non per nulla dal 2006 conduco, con nuovi amici, una selezione annuale di questa forma d’arte divenuta il cardine della ricerca, compilando un Videoart Yearbook. Come dire che gli aspetti performativi ora non perdono tempo, si affidano subito al disco elettromagnetico.

In breve:
Lady Performance
Incontro con Marina Abramović con proiezione di Seven Easy Pieces (2005)
Un film di Marina Abramović, regia di Babette Mangolte
USA 2007, 95 min.
Produzione Sean Kelly Gallery, New York
A cura di Renato Barilli
con la collaborazione di Alessandra Borgogelli, Paolo Granata, Silvia Grandi

Venerdì 28 gennaio 2011, ore 21.00
Aula Magna di Santa Lucia
Via Castiglione 36, Bologna
Ingresso gratuito per il pubblico a inviti

Repliche:
Cinema Lumière della Cineteca di Bologna
Via Azzo Gardino 65, Bologna
Sabato 29 gennaio, ore 20.00
Domenica 30 gennaio, ore 14.00
Ingresso gratuito con tessera FICC
Info: www.ladyperformance.it

In alto:
Marina Abramovic performing Lips of Thomas at Solomon R. Guggenheim Museum, November 2005, photocredit Attilio Maranzano, © Marina Abramovic, courtesy of the artist and Sean Kelly Gallery, New York.
In basso:
Marina Abramovic performing Gina Pane’s The Conditionig, first action of Self-portrait(s) at Solomon R. Guggenheim Museum, November 2005, photocredit Attilio Maranzano, courtesy of the artist and Sean Kelly Gallery, New York.

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