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INTERVISTA DI LUISA CASTELLINI
tratta da Espoarte Contemporary Art Magazine n.70

«Una foto sola non mi basta mai» mi racconta Mario Cresci: non nega l’appartenenza alla propria generazione, cresciuta sull’indagine attenta e intessuta in progetti ordinati in serie ma guai, oggi, a parlargli di quella progettualità che ha coltivato per anni. Alle spalle le precoci sperimentazioni negli anni ’60, l’attenzione alle forme, l’amore per il paesaggio e la rivelazione della cultura materiale di quel Sud mai dimenticato: da tempo Cresci, allergico alla ripetizione, rivolge il suo sguardo all’interno. A luoghi specifici dal potenziale simbolico ma come ieri non per raccontarli: per condurre a viverli. Nel suo percorso, dove l’arte è sempre stata il milieu eletto di confronto, ogni elemento è confluito naturalmente in una sintesi che trova nell’opera, intesa in senso ampio, l’esito più alto e intenso dell’uomo, emblema del suo anelito alla permanenza ma non dimentico della propria fragilità. Il tutto vissuto attraverso il continuo mettersi alla prova, anche con le possibilità che la tecnologia offre. Per non essere la citazione di se stesso e perché il digitale non “solo” ha modificato gli orizzonti operativi e metodologici degli autori ma lo stesso sguardo…

Luisa Castellini: Da alcuni mesi sei impegnato in un grande progetto itinerante che ti ha già condotto alla Pinacoteca Nazionale di Bologna e che oggi approda a Roma, all’Istituto Nazionale per la Grafica, per poi riportarti a giugno a Matera. Come nasce questa avventura?
Mario Cresci: Il progetto nasce da un’idea del Soprintendente della Pinacoteca Nazionale di Bologna, Luigi Ficacci, con l’intento di porre in dialogo le collezioni del museo con il contemporaneo. La nuova generazione di soprintendenti si sta impegnando per avvicinare le persone all’arte con uno sguardo meno statico. Il mio progetto, Forse Fotografia, si articola in tre atti che rispecchiano altrettanti orientamenti della mia ricerca: l’arte, la traccia, l’umano. Ciascuna delle sedi accoglie un excursus di miei lavori storici ma, soprattutto, uno o più interventi site-specific nei quali impiego video, luce e fotografia in sinergia. Negli ultimi tre anni ho iniziato a lavorare nei luoghi dell’arte in senso ampio: il primo è stato la Pinacoteca dell’Accademia Carrara a Bergamo, dove mi sono concentrato su alcuni dipinti del Lotto e del Moroni. Così a Bologna, nella Pinacoteca Nazionale vicinissima all’Accademia di Belle Arti, ho lavorato in relazione alle opere esposte con animazioni video sugli affreschi di Vitale e interventi fotografici su alcuni dipinti del Reni e su dittici medievali di particolare rilevanza. Ho cercato di attraversare in punta di piedi la storia dell’arte del passato lasciando alcune tracce della mia presenza.

Nella tappa romana, con Attraverso la traccia, rifletti sul disegno e usi la fotografia come mezzo di rivelazione innestando una sorta di parallelo con i procedimenti di stampa…
Mi relaziono con la vocazione del luogo, l’Istituto Nazionale per la Grafica, e uso la fotografia pensando alle sue origini, al suo essere “scrittura di luce” linguaggio della visione che proviene dal pensiero e dallo sguardo sul mondo per ricrearne altri diversi e non veritieri. Anche a Roma continuo a pensare che la fotografia è per me un continuo pretesto per creare altri mondi lontani e diversi dalla realtà. La traccia non è solo quella segnata dalla luce del fotografico ma è anche materia, la matrice della stampa calcografica (nata nel laboratorio di Nicéphore Niépce, non a caso geniale stampatore calcografico). Ho così deciso di usare la fotografia sulla materia delle tracce, quella delle lastre di rame originali incise a mano da Piranesi e Morandi, usando la luce per svelare i segni che si rivelano allo sguardo a ogni minimo spostamento. La fotografia ne rivela la vitalità producendo immagini positive e negative tra loro alterne. Ho poi realizzato un disegno animato proiettato all’ingresso della mostra, dove su una grande parete la luce si interseca gradualmente con i segni reali dei disegni stampati al torchio su carta cotone. Qui i segni di luce e i segni tracciati dagli artisti si relazionano in un dialogo visivo di grande fascino.

A concludere, ma solo per il momento, questo progetto che forse toccherà anche Milano, Genova, Venezia e Bari, il ritorno a Matera con Attraverso l’umano: come hai scelto di agire qui, dove hai vissuto per quasi vent’anni?
A Matera sarà presente una grande sezione storica affiancata da un lavoro concepito ad hoc tra le mura del grande Laboratorio di Restauro. Ho già iniziato a lavorare in questa sorta di ospedale dell’arte, dove confluiscono opere rovinate dal tempo o massacrate dall’incuria e dai terremoti. Sono opere amate, che danno vita a un luogo che da sempre mi affascina: una sorta di paradigma di un’umanità che deve essere curata. Per questo a Matera non ho scelto i Sassi o gli abitanti ma ancora una volta l’interno di un luogo, altamente significante.

I tuoi interventi site-specific compenetrano immagine, video e luce: l’uomo di oggi ha bisogno di tecnologia per fruire pienamente l’opera d’arte?
In Italia i musei sono invecchiati e gli storici dell’arte più attenti se ne sono accorti da tempo. Non si può più percepire pienamente l’opera senza supporti, informazioni e visualizzazioni che ne agevolino la lettura. La multimedialità non deve mancare: le persone sono abituate a percepire velocemente, anche in modo superficiale se vogliamo, e quindi c’è bisogno di innovazione, di un impegno culturale volto a condurre verso l’opera in un’ottica differenziale e non “solo” didattica. La fotografia aiuta molto la lettura, la trascrizione dell’opera: l’immagine traduce l’icona al pari dell’interprete con un brano di letteratura. Non si tratta di sovrapporre se stessi o la propria visione ma di forgiare un’idea di conoscenza dell’opera stessa.

La tecnologia, in primis il digitale, ha aperto nuovi orizzonti metodologici alla fotografia ma ancor prima ha mutato il regime scopico dei suoi fruitori. Quali sono le possibilità della fotografia, più o meno orfana del suo negativo, nell’era dello Streaming?
Spostare l’attenzione dagli autori ai fruitori aiuta a comprendere meglio il mondo in cui viviamo. Molti artisti e ancor più fotografi sono affezionati alla camera oscura, alla mitologia dell’analogico. All’estero il conflitto analogico-digitale è stato assorbito dagli autori e dal pubblico: cultura e industria conducono all’accelerazione percettiva. La fotografia non è più sentita quale icona del passato ma quasi come un procedimento artigianale. Non credo che la camera oscura, trasformandosi in camera chiara, abbia perso o possa smarrire la propria identità, anzi. Ma credo che diventerà come il laboratorio di stampa: un luogo antico, artigianale. La fotografia analogica diventerà come il dagherrotipo, che quando ha perso la propria funzione sociale cedendo il passo al negativo si è trasformato in un oggetto prezioso. Personalmente mi sento proiettato verso la tecnologia con tutte le sue teorie e possibilità: non voglio essere lo stereotipo di me stesso e per lavorare ho bisogno di cambiare e sperimentare. Il digitale permette maggiore velocità di azione e verifiche continue: questo significa che la mente, la fisicità sono sempre sollecitate, vivificate da prove, contraddizioni e successi.

Il tuo rapporto con l’arte è sempre stato molto forte, forse più stretto che con il mondo dei fotografi o sbaglio?
Ho sempre riscontrato una certa disparità per intensità e libertà di ricerca tra il mondo dell’arte, che impiega anche la fotografia, e la fotografia tout court, diciamo di matrice bressoniana. Questo è stato un momento straordinario: la nascita del fotogiornalismo, dell’approdo teorico, ma appartiene al passato. Pensare in quei termini oggi è fuorviante: a volte, di fronte ad alcuni reportage, se non fosse per gli abiti o l’ambientazione, la sintassi dell’immagine si rivela ancora ancorata a un modello che involve su se stesso.

Nella tua ricerca hai sempre evocato una matrice fenomenologica: cosa ne resta oggi?
La mia generazione è quella di Merleau-Ponty, di Gombrich: io mi sono formato attraverso le discipline del Design che ho dirottato in quelle della fotografia. Tra gli anni ’60 e ’70 ho cercato di coniugare la cultura assorbita al Nord – fatta di modelli: fenomenologia, strutturalismo, Bauhaus – a quella del Sud, dove ho vissuto quasi vent’anni. In questa situazione non c’erano modelli astratti ma uomini, creatori a loro volta di modelli, benché differenti. Fotografare un oggetto significava, naturalmente, guardare non solo le mani che l’avevano costruito ma anche alla storia e alle scienze sociali, all’etnografia e all’antropologia in particolare. Tornato al Nord, come direttore dell’Accademia di Belle Arti di Bergamo e in ogni mia attività, ho coniugato quella lunga esperienza vissuta nel Mezzogiorno con il rinnovato interesse per l’arte, gli artisti e la scuola. Due mondi e due culture che si incontravano in questa mia doppia emigrazione a distanza di molti anni. Gli studi sul pensiero fenomenologico mi sono serviti per comprendere le culture cosiddette popolari e queste per umanizzare la progettualità di un freddo razionalismo che trovavo insopportabile per i miei interessi nel sociale. La contemporaneità (termine difficile da accettare facilmente) richiede una cultura flessibile per cui, ad esempio, osservo con interesse il lavoro dei giovani artisti che non accettano acriticamente la storia e i dogmi del fotografico, spogliandolo di quanto di antico e retorico vi alberga ancora per farne lingua viva.

Credi quindi in un ruolo sociale dell’arte?
Ho sempre pensato all’artista come a un depositario di privilegi di varia natura, che può e deve essere parte viva nella società, entità non più unicentrica ma aperta agli altri; non più “ombelico del mondo” fuori dalla retorica del suo isolamento spesso malamente giustificato. E forse questa è la ragione per cui in ognuna delle mie attività, dalla ricerca all’insegnamento fino alle più recenti indagini visuali, non mi piace definirmi “artista” e nemmeno “fotografo”. Preferisco definirmi, se me lo chiedono, come una persona che desidera comunicare in senso creativo pensieri, immagini, opere e comportamenti alle altre persone senza le quali non potremmo vivere e rendere visibile il nostro immaginario. Non so se questa è arte ma è certamente voglia di vivere.

MARIO CRESCI
Mario Cresci è nato a Chiavari nel 1942. Ha indagato le potenzialità del linguaggio fotografico verificandole con le metodologie della ricerca artistica contemporanea. Dalle indagini di carattere antropologico sulla cultura materiale del Mezzogiorno della fine degli anni ’60 alle più recenti ricognizioni sullo specifico linguistico della scrittura fotografica e sull’ambiguità della percezione visiva, ha teorizzato e praticato la contaminazione tra le diverse discipline espressive. Fra le pubblicazioni: Le case della Fotografia1996-2003 (Torino, GAM, 2003); Variazioni impreviste (Verona, Colpo di fulmine, 1995); Basilicata: immagini di un paesaggio imprevisto (Roma-Bari, Laterza, 1983). Fra le mostre più recenti: Mario Cresci e Paolo Mussat Sartor (Brescia, Galleria Massimo Minini, 2009); Alterazioni, a cura di R. Valtorta (Cinisello Balsamo, Museo di Fotografia Contemporanea, 2007). Ha partecipato ad alcune edizioni della Biennale di Venezia.

Eventi in corso e futuri:
Progetto itinerante Forse Fotografia:
Attraverso la traccia

Istituto Nazionale per la Grafica
Palazzo Poli, via Poli 54, Roma 25 marzo – 5 giugno 2011
Attraverso l’umano

Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna, Matera
18 giugno – 18 settembre 2011

Dall’alto:
“Vedere attraverso”, Pisa 1997, stampa digitale, cm 105×105. Courtesy Galleria Massimo Minini, Brescia
“Restaurato 01”, Matera 2010, stampa digitale, cm 73×105. Courtesy Verba Volant
“Autoritratto mosso”, Barbarano Romano 1978, stampa ai sali d’argento, cm 30×40. Courtesy Galleria Massimo Minini, Brescia

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