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VERONA | La Giarina Arte Contemporanea | 8 maggio – 18 settembre 2021

Perché convocare Italo Calvino a stabilire un senso, a interpretare, a diventare in qualche modo guida alle opere in mostra? Possono bastare le parole che egli ha rilasciato in un’intervista: «Ho voluto scrivere come un tempo disegnavano i pittori»? O quelle redatte in occasione di una mostra di Tullio Pericoli: «… la pittura mi è servita come spinta a rinnovarmi, come ideale di invenzione libera…»? Una cosa è certa: ogni volta che Calvino si è addentrato nel mondo poetico di un pittore, ne è emerso con scritti che risultano illuminanti per comprendere l’opera dell’artista, i modi del suo “fare”. Egli sa che in principio si può conoscere solo la superficie delle cose (e delle immagini), ma è proprio per questo che si spinge a «cercare quel che c’è sotto»: il nascosto, il potenziale, l’ipotetico. In una delle Lezioni Americane scrive: «La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto». La spinta a scrivere gli viene sempre dalla mancanza di qualcosa che vorrebbe conoscere e possedere, qualcosa che gli sfugge. «Mi sento vicino a capire – annota – che dall’altro lato delle parole c’è sempre qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione». Ma l’altro lato delle parole è il silenzio o sono le parole che devono ancora essere dette? O sono quelle che non saranno mai dette? E a che mondo appartiene l’altro lato delle parole? È un non-mondo o un mondo che giace sotto ciò che è già stato visto e scritto? Non c’è risposta. Ma solo il desiderio di raggiungere il limite delle cose, e al tempo stesso, la consapevolezza che questo limite è inattingibile.

Andrea Bianconi, House, 2021, inchiostro su tela, 80×80 cm

La mostra Lezioni Italiane prende spunto chiaramente da quelle «proposte per il prossimo millennio» che sono Lezioni Americane. Lì Calvino esibisce la sua fatale vocazione a vedere ciò che sta oltre, accanto, attorno, dietro alla pagina: una pagina a più dimensioni, a infinite dimensioni, illusionistica, allucinatoria, enigmatica, ma sempre di una assoluta chiarezza. È vero: Lezioni Americane è un’opera interamente dedicata alla forma letteraria, ma attraverso essa, l’autore ci insegna a guardare il mondo della creatività con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza: ci apre altre vie da esplorare, nuovissime e antichissime, stili e forme che possono cambiare i nostri modi di vedere e rappresentare.

Cinque gli artisti in esposizione (come cinque sono i saggi delle Lezioni Americane di Calvino). Ma non si pensi ad incontri e scambi reali. Ci possono essere contatti espliciti o corrispondenze segrete. Quello che conta è che tutte le opere, nel loro gioco di linee, colori e forme, lascino trasparire insospettabili significati. Che le tele di Mondino siano delle autentiche trappole visive, che gli “assemblaggi” di Costa ci mettano in sintonia con la storia dell’umanità, che la stratificazione di alfabeti di Bianconi richiami il mosaico dei linguaggi quotidiani, che i pupazzi in cera di Tessarollo stiano «sui limiti del gioco e del serio», che le pietre di Shayegh siano “punti” che scandiscono le “pagine” della mostra. È come se niente si esaurisse nella pura visibilità, ma ogni immagine attendesse di essere letta, svelata nella sua scrittura nascosta. Quello che essa ci trasmette è il senso dell’approccio all’esperienza, più che il senso dell’esperienza raggiunta. Lo motiva anche un passo della lezione sull’Esattezza: «Ogni forma acquista un senso non fisso, non definitivo, non irrigidito, ma vivente come un organismo». La struttura dell’opera cioè cambia continuamente, si dilata e insieme si disfa sotto gli occhi: si presenta accumulativa, modulare, combinatoria. Ma è quanto si augura Calvino al termine delle Lezioni Americane: «Magari fosse possibile un’opera concepibile al di fuori del self, un’opera che ci permettesse di uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…». Ed è quanto si augura anche l’esposizione Lezioni Italiane: ossia mostrare un mosaico del visibile, una continuità di forme, un campionario di stili, «dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili».

Andrea Bianconi (Arzignano, 1974) usa gli inchiostri per costruire un’architettura che Calvino avrebbe definito «uno sfacelo senza fine né forma». Egli sembra fondere insieme la concentrazione e la leggerezza; riempire i suoi piccoli disegni di connotati ingegnosi, costringendo l’osservatore quasi ad esaminarli con l’aiuto di una lente, e insieme lasciare alle superfici una sovrana levità. Niente viene detto in modo esplicito: ogni segno, ogni tocco suscitano nella mente significati e allusioni, e ognuna di queste allusioni porta in sé un corteo di altri significati. Come i grandi poeti persiani, che realizzano poemi immensi incastrando storielle quasi invisibili, Bianconi conosce l’arte dell’intreccio e del riflesso, degli intarsi che si illuminano a vicenda, suggerendo prospettive labili e infinite: vere ipotesi di ipotesi, che si concludono solo nel vortice della loro moltiplicazione.

Il lavoro di Claudio Costa (Tirana 1942 – Genova 1995) si colloca tra malia e magia, tra scienza e metafisica. Egli è filosofo e antropologo, oltre che poeta. Il suo è sempre un viaggio alle radici della meraviglia, dove si depositano le esperienze passate, la sapienza dell’umanità, tutto quel mondo di miti, conoscenze, simboli che costituiscono il nostro patrimonio storico. Ombre, scalfitture, crepe, vuoti, sguardi, attese. Segni visibili, che però aprono ai segni invisibili ancora custoditi nella terra. Figure che continuamente si rigenerano e si rivelano, come quell’antica maschera in terracotta che ricorda la diabolica Bocca della Verità e il suo potere di pronunciare oracoli (Primo Appunto su Kronos, 1985). Osservando questi fantasmi dalla forma difficile, aspra e inconclusa, si ha la sensazione che essi provengano da un altrove molto remoto nel tempo, ma prossimi nello spazio, trascinati sino a noi da correnti sconosciute. E accostabili, in qualche modo, a quelle immagini tanto care a Calvino capaci di sviluppare in un testo «le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé».

Aldo Mondino (Torino 1938 – 2005) dà vita ad un linguaggio che fonde insieme ironia e lirismo, sogni e contraddizioni. Pesca dalle immagini di tutti i giorni, ma anche da quelle della storia dell’Arte, per spingerci a riscoprirle e a ripensarle con sottile humour. Nell’opera In una cornice informale (1965) la pittura sembra giocare con il perimetro tradizionale attraverso un gesto e una forma “in libera uscita”; in Sonnenuntergang (tramonto, 1980) insegue l’effetto ruvido e vigoroso di una xilografia. È sempre l’inganno ottico e linguistico a interessare Mondino. Egli tenta di «chiudere il cielo in una pozzanghera», avrebbe detto S. Vertone; vuole leggere «il mondo alla rovescia», avrebbe suggerito Calvino.

Le pietre laviche (lavorate con argilla e smalti) dell’iraniano Ehsan Shayegh (Khash, Iran, 1975) sono legate alla loro forma tangibile e materica, ma funzionano anche come pietre che collegano occultamente le opere che si susseguono nelle varie sale della galleria. Non arrivano a congiungerle, ma le mettono in risonanza, come echi che si diffondono di spazio in spazio. Aprono e chiudono mondi, come suggerisce anche il titolo delle “pietre”: Noghte Sare Khat (punto e a capo, 2021). Sono pause e ricominciamenti di una storia, di uno scritto, di una frase: punteggiature che disegnano l’architettura dei testi-stanze e i criteri per interpretarli (anche cromaticamente). Entità minime, ma anche cariche di storia, perché sembrano «cominciare nella profondità stessa della loro materia ribollente» (Calvino) per prendere parte attiva al grande gioco delle forme.

Silvano Tessarollo (Bassano del Grappa, 1956) espone nello spazio underground della galleria una delle sue rappresentazioni visionarie, caratterizzate da eccentricità, sarcasmi, fastosità esibite. Gli uomini vanno coltivati (1998) è il titolo che introduce fin da subito a un’idea di metamorfosi, di trasformazione, di oltrepassamento dei limiti. Due pupazzi sembrano essere passivamente in bilico tra atmosfere favolistiche e sinistre allegrie. La cera e gli smalti industriali che li formano, al contempo li deformano, li appesantiscono, li rendono grotteschi. Il loro è un percorso dal giocattolo di partenza al gioco di ruolo d’arrivo. Affondano nel simulacro, nella gratuità, nello sperpero, nell’alienazione. Con loro, Tessarollo scherza per poter guardare meglio in faccia la realtà. Non intende però fare discorsi moralistici o didattici. Il suo mondo lillipuziano ha come scopo quello di accentuare il divertente disagio e l’effimera tensione che si accompagna alla lettura di un libro d’infanzia dove, come scrive sempre Calvino, «si mescolano il razionale e il fantastico, il mistero e l’orrido».

Così, in Lezioni Italiane assistiamo ad una continua migrazione di motivi, di ipotesi, di composizioni da un artista a un altro, ma anche da un’opera a un’altra. Ci imbattiamo in un percorso che ridefinisce spazi, tempi, linguaggi. L’obiettivo, infatti, non è quello di trovare «un ordine delle cose», di fare prospettiva su un tema, come potrebbe essere quello di mettere in evidenza una identità dell’arte italiana (anche perché Shayegh è iraniano). È piuttosto quello di indicare sentieri provvisori, seguire tracce, intuire relazioni: affrontare le “lezioni” come fossero i molteplici tasselli di un mosaico. Ce lo suggerisce anche Calvino in una delle sue Lezioni Americane, dove a proposito di C. Emilio Gadda scrive: «Da qualsiasi punto di partenza il discorso si allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo». Niente prospettive uniche, dunque, niente punti di vista centralizzati, ma una geografia di dissonanze, una molteplicità di dettagli che dilatano la portata delle immagini fino a farle diventare testi plurimi, polifonici di una paradossale “enciclopedia aperta”.

 

Lezioni Italiane
Andrea Bianconi, Claudio Costa, Aldo Mondino, Ehsan Shayegh, Silvano Tessarollo
a cura di Luigi Meneghelli

8 maggio – 18 settembre
Inaugurazione sabato 8 maggio 2021 ore 16.00 – 20.00

La Giarina Arte Contemporanea
via interrato acqua morta 82, Verona, Italy

Info: +39 045 803 2316
info@lagiarina.it
www.lagiarina.it

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