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SVIZZERA | RIEHEN | FONDAZIONE BEYELER | FINO AL 17 SETTEMBRE 2023

di SILVIO MIGNANO

Nel 2017 pubblicai I Venerdì Santi, una raccolta di poesie uscita presso l’editore Passigli. Il libro si apriva con un testo intitolato L’ingombro dei corpi senza contenuto dedicato all’opera di Doris Salcedo Plegaria muda, che avevo visto nel MAXXI di Roma nel 2012: “quello che conta oggi è il volume / il parallelepipedo di legno odoroso / duecento centimetri per cinquanta / il tavolo su cui abbiamo mangiato tutti / la bara dentro la quale scivoleremo / l’oscurità di terra che abbiamo sognato”, scrissi allora.

Doris Salcedo, PLEGARIA MUDA, 2008–10, Bois, ciment, terre, métal et herbe, 166 pièces, dimensions variables, Vue d’installation CAM–Fundação Calouste Gulbenkian, Lisbonne, 2011, Collection of the artist © Doris Salcedo. Photo: © White Cube (Patrizia Tocci)

L’opera è nota ed è un capolavoro: decine di tavoli di legno scuro che occupano in proiezione le dimensioni medie di una bara e che la ricordano senza alcuna necessità di operare collegamenti logici. È come se nel nostro DNA, mutato in millenni di civiltà nata proprio dal rito della sepoltura, giacesse un codice in grado di riconoscere immediatamente i connotati del feretro. I tavoli sono accoppiati in binomi geometrici in ciascuno dei quali un elemento è ritto, con le gambe piantate al suolo, e un altro rovesciato al di sopra del primo, con le estremità tese verso il soffitto. In mezzo, uno zoccolo di terriccio anch’esso scuro, fecondo. Un sistema di tubicini sottili, molto sofisticato, permette a fili d’erba di un verde estremo, smeraldino, di crescere tra le commessure del legno.

La violenza che per decenni ha permeato il tessuto sociale e civile della Colombia, fino a farsi per ogni abitante un vestito o una seconda pelle, non viene negata dall’artista – anzi, giunge alla sua inevitabile conseguenza, la morte e la sepoltura – eppure viene al contempo riscattata senza modificarsi: così come la stessa materia, il legno, la stessa forma, il parallelepipedo, e lo stesso volume uniscono bara e tavolo, la vita si insinua nel luogo del dolore perforandone la superficie, nutrendosi dei sedimenti schiacciati tra le assi, assumendo la forma e il vivido colore dell’erba. (Curiosa e commovente coincidenza: negli stessi giorni un’altra donna, la tedesca Andrea Büttner, mette in mostra nel Gegenwartskunstmuseum di Basilea un’installazione fotografica nella quale campeggiano spazi di terra a forma di parallelepipedo scavati e invasi di erba smeraldina – tombe, diresti, e invece sono piantagioni di asparagi – senonché la prima intuizione non era poi così sbagliata, se è vero, come è vero, che si tratta di coltivazioni abbandonate dalle SS a Dachau: nutrimento e vita nel luogo nel quale si imponeva atrocemente la morte).

Un unico piccolo appunto: Plegaria muda risultava molto più bella nella conformazione assunta sei anni fa al MAXXI. Mi sembra strano fare questa osservazione critica riferita a un’istituzione, la Fondazione Beyeler, che è sempre perfetta fino al maniacale nelle sue installazioni. A sua giustificazione, va detto che l’ingombro di questi corpi lignei si è qui dovuto accontentare di uno spazio giocoforza ridotto perché, nelle pur vaste sale della fondazione, sono presenti molte altre opere di Salcedo, tutte molto grandi, a formare un’antologica mirabile. A Roma, invece, i corridoi serpentiformi disegnati da Zaha Hadid davano il necessario respiro alla sfilata dei tavoli di legno.

I tavoli, sovrapposti in Plegaria muda, sono invece solitari ibridi che si osservano l’un l’altro, a discreta distanza, in Untitled del 1995-1998, nel quale ognuno dei mobili è in realtà l’assemblaggio di due diversi, per stile, materia, fattura, anche se il dato comune è l’umiltà, l’assenza di eleganza e di affettazione di stile. Sono perciò chimere, il risultato di un incrocio di individui forse feriti, mutilati, e dunque riscattati con quello che in altri casi si sarebbe potuto definire cannibalizzazione: le due gambe di una delle metà si completano con quelle dell’altra, le superfici rugose, consunte, sporche si innestano reciprocamente cercando una continuità nuova, e dunque una frattura mascherata. Meticciato dell’umanità che accetta l’assenza di purezza e ne fa, per fortuna, l’unico dato dal quale provare a ricostruirsi.

Doris Salcedo, UNTITLED, 1998, Armoire en bois avec verre, béton, acier et vêtements; 183,5×99,38×30,8 cm. Vue d’installation Pérez Art Museum, Miami, Florida, 2016, San Francisco Museum of Modern Art, Gift of Lisa and John Miller © Doris Salcedo. Photo: David Heald

Ancora mobili, ancora Untitled, opere questa volta realizzate tra il 1989 e il 2016 che si presentano come un magazzino disordinato di singoli pezzi, armadi, poltrone, comò, spesso incastonati come incoerenti coralli di legno scuro in blocchi di cemento. Una collezione dolorosa, fatta in parallelo con incontri e interviste ai familiari di vittime delle guerriglie colombiane. Un pezzo di mobilio ogni volta, un frammento di esistenza quotidiana, normale e banale ma perduta, appesantita dal cemento che è tuttavia ancoraggio al mondo, certezza che la memoria resta ed è difficile da rimuovere.

VUE D’INSTALLATION «DORIS SALCEDO» À LA FONDATION BEYELER, RIEHEN/BASEL, 2023
© Doris Salcedo Photo: Mark Niedermann

Le scarpe sono certamente oggetti legati come pochi altri all’intimità dei corpi, e la loro visione estrapolata da questi diventa inevitabilmente abbandono e dolore. In Atrabiliarios, progetto estesosi dal 1992 al 2004, le calzature, perlopiù femminili, sono intrappolate in riquadri coperti da pellicole semitrasparenti di fibra animale, a loro volta assicurate alle pareti grazie a punti di sutura. Pile di scatole di scarpe, anch’esse in fibra animale, giacciono abbandonate lungo le pareti della sala. Anche in questo caso ogni oggetto selezionato da Salcedo corrisponde a un desaparecido in Colombia. L’opera, di straordinaria raffinatezza estetica e al contempo di crudo impatto emotivo, spiazza lo spettatore per l’ambiguità dei sentimenti che smuove: dalla tenerezza alla malinconia, dall’orrore alla disperazione. Ci sembra di muoverci in un acquario mostruoso, nel quale oltre i riquadri delle vasche galleggiano in un liquido amniotico reliquie di esistenze perdute. Ed è come visitare il memoriale di Hiroshima e imbattersi in brandelli di pelle divenuti petali.

Proprio migliaia di petali di rose in A fior de piel (2011-2014) tessono un enorme tappeto, vagamente alla maniera di El Anatsui. Il filo di sutura unisce qui, con un lavoro meticoloso fin quasi alla follia, ogni singolo elemento.

VUE D’INSTALLATION «DORIS SALCEDO» À LA FONDATION BEYELER, RIEHEN/BASEL, 2023
© Doris Salcedo Photo: Mark Niedermann

La memoria è il filo conduttore della mostra, e la sua negazione è nel titolo di Disremembered, opera realizzata tra il 2013 e il 2021: tessuti eleganti di seta appesi al muro, che tuttavia, avvicinandosi, si rivelano irti di aghi: trappole per chi volesse indossarli, come tuniche di Nesso, ma anche, di nuovo, epidermidi imbastite con il dolore, fatte per aderire a corpi dei quali ci siamo colpevolmente dimenticati.

Doris Salcedo, DISREMEMBERED X, 2020/2021, Aiguilles à coudre et fil de soie; dimensions variables, Glenstone Museum, Potomac, Maryland © Doris Salcedo. Photo: Ron Armstutz

L’oblio colpevole di chi si nega ad essere testimone ritorna in un altro Untitled (1989-2014), fatto di reti di metallo di letti abbandonati e camicie di cotone impilate e infilzate come farfalle nello studio di un entomologo. È quel che hanno lasciato dietro di sé i tanti anonimi contadini massacrati in due piantagioni di banane colombiane, La Negra e La Honduras.

Doris Salcedo, UNTITLED, 1989–2014, Chemises en coton, acier et plâtre; dimensions variables. Vue d‘installation Doris Salcedo Studio, Bogotá, 2013, Collection of the artist © Doris Salcedo Photo: Oscar Monsalve Pino

Quello di Doris Salcedo è dunque un lavoro continuo di riscatto dalla rimozione, come avviene nel vero e proprio culmine dell’esposizione basilese, in Palinsesto, la gigantesca installazione che occupa un’intera ala della fondazione. Una distesa vuota, abitata esclusivamente dai nomi di coloro che sono morti in mare nel tentativo di attraversare il Mediterraneo o l’Oceano Atlantico. Questi nomi, tracciati in orizzontale su mattonelle di granito, si ripetono ciascuno due volte, una prima con la sabbia impastata nella resina e una seconda, ad essa sovrapposta, con minuscole goccioline d’acqua, fatte traspirare attraverso un complesso sistema di tubicini non troppo dissimile da quello che nutre i fili d’erba di Plegaria muda.

Sono brillanti preziosi, i cristalli liquidi che pullulano dal basso, e per un breve tempo restituiscono bellezza a tutto ciò che rimane degli annegati. Tuttavia è proprio quello splendore che, per l’effetto di lavacro, finisce lentamente per cancellare le lettere disegnate dalla sabbia.
Lo spettatore si ritrova al centro di questo monumento funebre, desolato e silenzioso, facendo attenzione a non calpestare sillabe che acquistano valore sacro: Haidar, Safi, Malika, Fatama.
Come nella lapide tombale di Keats, la mutevole proteiforme natura dei flutti porterà via con sé la memoria: “Here Lies One Whose Name Was Writ in Water”. I nomi scompariranno, ma non il gesto pietoso di offrirli per un’ultima volta al nostro sguardo.

 

Doris Salcedo

21 maggio – 17 settembre 2023

Fondation Beyeler

Beyeler Museum AG, Baselstrasse 77, CH-4125 Riehen

Info: www.fondationbeyeler.ch

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