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Intervista a FIORELLA MINERVINO di Matteo Galbiati

Muovendosi tra Giardini e Arsenale, alla rincorsa delle sedi fuori e dei collaterali, tra calli, canali e ponti, nel bailamme dei giorni di preview della Biennale di Venezia, non è cosa rara incontrare, anzi sono piacevolissimi appuntamenti non dati, colleghi e operatori del settore, in visita – quasi un pellegrinaggio, un rito da celebrare all’inizio dell’estate di ogni due anni – alla città lagunare, con i quali si scambiano battute fugaci su quel che si è già visto o si vedrà. Abbiamo scelto di dare corpo a tali incontri riportando, in forma di brevi interviste, le domande più classiche.
Ci limitiamo ad alcune personalità: un giornalista di quotidiano, uno di radio, uno di TV, un giornalista e critico-curatore, un docente universitario e storico dell’arte contemporanea e, infine, un art-director, artista e fotografo. Stesse domande per tutti e grazie per la disponibilità concessa!
Iniziamo, quindi, un viaggio a puntate attraverso pareri, impressioni e scelte di gusto con la giornalista, Fiorella Minervino, sempre disponibile e gentile, incontrata all’inaugurazione di Omar Galliani al Caffé Florian…

Cosa pensi del Palazzo enciclopedico? Che idea ti sei fatta del progetto di Massimiliano Gioni?
Mi è piaciuto il suo catalogo di ossessioni, follie e creatività alternative nelle epoche passate, come dei miti attuali e delle smanie e dei furori. Ha rinfrescato l’aria un po’ stantia della Biennale, tanto da far sembrare superate altre manifestazioni di contemporanea.

Che interpretazione ne dai?
Che è d’obbligo andare a fondo, esplorare sempre oltre le apparenze, approfondire le ricerche dappertutto in giro per il mondo; soprattutto, come diceva Gertrude Stein, scrittrice e grande collezionista americana a Parigi, bisogna guardare il più possibile per imparare a vedere. Solo qualche genio può improvvisare.

Cosa ti ha colpito di più?
Quanto deve aver studiato e girato Gioni per organizzare un’edizione complessa ma godibile, che peraltro addita, accanto a Roberto Cuoghi con la sua massiccia scultura o alla giovane Camille Henrot (entrambi all’Arsenale), alcuni artisti che sembravano ingiustamente dimenticati come Enrico Baj o Duane Hanson, se non l’art brut di Augustin Lesage, o scultori curiosi al pari di James Lee Byars o il singolare fotografo e grafico americano Morton Bartlett che collezionò bambole per tutta la vita.

Quali sono le tue preferenze rispetto ai Padiglioni Nazionali?
Ho apprezzato la Gran Bretagna per lo humour e il coraggio di Jeremy Deller. È un artista intelligente e sarcastico nei confronti della società e degli eventi attuali. Ho ammirato la Cina, in passato semi deserta ora affollatissima, e video e foto mirabili. Anche perché, come Brasile, Australia e tutta la mostra di Gioni, segnala una massiccia presenza di libri nei lavori. Curioso: mentre si discute sulla possibile sparizione del libro cartaceo, ecco monumenti a biblioteche, librerie personali, quasi celebrazioni o forse litanie per un “eroe” che, dai tempi di Gutenberg, ha saputo regalare agli uomini passione, divertimento come può dare solo la lettura; e ora, forse sul finire, viene osannato fin oltre le tecnologie. Consiglio anche di visitare il Padiglione Santa Sede, presente per la prima volta, che predilige Tano Festa il quale riprende il Michelangelo della Sistina, un po’ come dovessero sempre guardare indietro.

Tra gli eventi collaterali cosa vuoi suggerire?
La mostra di Marc Quinn alla Fondazione Cini, è un messaggio positivo di speranza, di ottimismo, come dire che la vita va avanti anche senza braccia e gambe; esiste il coraggio di combattere comunque. Poi Lichtenstein scultore alla Fondazione Vedova, non avevo apprezzato troppo il famoso Pop quando aveva esposto a Firenze e tanto meno i suoi omaggi ai maestri; glielo avevo detto, anzi discusso con lui che sosteneva di essere molto colto. Aveva ragione e questa scultura bidimensionale, colorata, smaltata, vicina a icone di TV e media in generale, spesso pacchiana, riflette, con anticipo notevole, parecchie ricerche e gusti d’oggi.

Che artisti segnali?
Il premio Tino Sehgal con la performance canora ai Giardini, con i suoi “interpreti” abita e costruisce gli spazi, il luogo in un tempo fissato, loro cantano o si muovono nelle sale, coinvolgono davvero il pubblico presente. Lo avevo ammirato a Londra lo scorso anno ai Tanks della Tate Modern, riusciva a trascinare intere famiglie, con i bambini che si muovevano, ballavano, correvano. È un modo vitale e diverso di fare arte e renderla alla portata di tutti. Segnalo anche Rossella Biscotti sempre con ottimi lavori come ad Amsterdam allo Stedelijk.

Una tua battuta o un commento generale e libero sul “rito Biennale”?
Siamo tutti un po’ bizzarri, un po’ ossessi e un po’ folli, la Biennale documenta con solerzia la comune follia del nostro mondo, ma a livello globale. Quest’anno però era troppo ricca, mondana, invasa da migliaia di persone, circondata da troppi yacht colossali e decorata da un’infinità di cene, eventi, inutili party, ben più adatti alle sfilate di moda.

Fiorella Minervino è storica dellarte e per 20 anni è stata giornalista alla Cultura del Corriere della Sera e a capo anche dellarte. Ha scritto numerosi libri, dalla scultura nel 1700, agli impressionisti, Degas, Seurat, Picasso cubista e altri. Ha insegnato Storia dellArte Moderna e Contemporanea allUniversità di Parma. Ha collaborato a molti giornali e riviste anche internazionali come Le Monde. Da oltre 10 anni scrive per La Stampa di cultura, specie di architettura e arte come critica.

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