AVELLINO | Museo Irpino – Complesso Monumentale Carcere Borbonico | Fino al 23 novembre 2019
di BEATRICE SALVATORE
Francesco Cocco (1968) allestisce la sua ultima personale, a cura di Gerardo Fiore direttore artistico di Montoro Contemporanea, nelle sale museali restaurate del Complesso Monumentale del Carcere Borbonico di Avellino. La mostra è presentata da un testo del filosofo Ernesto Forcellino.
Le sale del museo che un tempo erano i corridoi di accesso alle celle buie e anguste, sono un alternarsi di luce ed ombra e sono separate le une dalle altre da enormi cancelli in ferro, chiusi da pesanti chiavistelli.
Lo spazio è moltiplicato da pareti con superfici specchianti che creano un effetto straniante e un forte contrasto tra interno ed esterno, chiusura e apertura e metaforicamente tra senso di libertà e costrizione.
Cocco sceglie di “giocare” proprio con questi elementi di questa location ideale, anche scegliendo differenti media, per questa mostra che si attraversa come un percorso unico e complesso, una sorta di viaggio interiore pittorico e sonoro.
Attraverso lavori di pittura tout court, disegni, installazioni luminose e video, l’artista crea un racconto unico, una sorta di biografia visiva, da sfogliare lentamente, sala per sala, allestita con la cura dell’amico artista Michele Attianese, con un vero e proprio ritmo in crescendo che accompagna il visitatore fra domande, dubbi e desiderio di catarsi.
Dopo aver attraversato le sale del Museo e della Pinacoteca, cariche di storia e di suggestioni, di fronte a noi l’ingresso della mostra è in penombra. Qui come un’interruzione improvvisa, nella storia e nel nostro stupore, siamo accolti da un video che dà il titolo a tutta la mostra-percorso, Groove: immagini in loop di partite di squash, attraversate da linee colorate digitali che ne impediscono la visione completa e ne ridefiniscono le figure, montate su un tappeto sonoro di note campionate da New UFE (pseudonimo di Piero Chiariello), sono metafora di un dialogo a solo, in cui le parole/palline (e le azioni), lanciate contro un muro fino allo sfinimento, non creano un confronto o apertura. Le immagini in questo contesto hanno un effetto ossessivo e addirittura claustrofobico come una domanda che chiede tempo, strada e pazienza per essere compresa o ribaltata.
Anche il titolo, Groove, sembra avere un doppio significato, di solco, di qualcosa cioè di già tracciato, ma anche di segno inciso, di traccia profonda lasciata come un’impronta nella neve.
Cocco dissemina nello spazio segni sparsi, come un racconto fatto di soli frammenti, il cui senso possibile è affidato paradossalmente al visitatore e alla sua storia.
Accompagnati ancora dal ritmo sonoro, in piena luce i nostri passi rallentano avvicinandosi a lavori di piccolo formato, per lo più sketches e disegni a matita o a olio, tracciati con tratto unico e veloce su fogli di fortuna, scritti con formule o brevi frasi, per un diario interiore che cerca con impeto un ritratto biografico, ancora difficile da identificarsi.
È Tableau de Bord, una serie di disegni presentati come un’opera unica, come le pagine di un diario sparse dal vento, a chiedere quasi allo spettatore di interpretarle, come fossero uno storyboard da ordinare o i fotogrammi di un film o di un sogno che si è provato a fermare sulla carta.
Il tratto è liquido, quasi infantile, il segno volutamente scabro ed essenziale, per la volontà pittorica di Cocco in questa sua ultima produzione, di mostrare rischiando, soltanto le ossa delle cose, un oggetto, un volto, una parola tracciata, l’essenza, al di sopra di parole e degli eccessi della forma.
Il tratto è quello di un bambino/pittore che ha guardato De Kooning o Cy Twombly, Tàpies o la pittura espressionista e quella pop americana, ne ha frequentato le inquietudini, le urgenze e ha deciso di dimenticare la parola forbita, il linguaggio pittorico “disegnato”, pieno, rassicurante.
È solo il segno che all’artista interessa, la sua potenza immediata, libera quasi dal bisogno del senso.
E il segno come frammento, accompagnato dalla nostalgia forse, di una possibile continuità, metafora di una contemporaneità e di individualità che cercano ancora una narrazione di sé, un senso della propria storia.
L’inquietudine di essere immersi in una “foresta di simboli”, come direbbe Victor Turner, è al tempo stesso discorso pittorico (ricerca dell’equilibrio cromatico e segnico) e discorso sul frammento come condizione umana, nel Polittico di Narciso, 18 tele di piccolo formato, che assumono un valore di senso possibile e di continuità solo se lette insieme, una “in relazione” all’altra.
Perché, si svela lentamente, il tema centrale di tutta la mostra è proprio la relazione, la sua possibilità, tra le cose, tra gli oggetti e tra il tempo e noi. E con noi stessi.
La sua ricerca, il desiderio di essa e i tentativi per ricucire insieme i frammenti.
Senza essere descrittiva, dunque, la pittura di Cocco si pone come obbiettivo e scopo proprio questo: offrirsi come puro segno che assume valore in relazione ad un altro o ad un colore, o al magma di un fondo che non è solo supporto, ma superficie profonda, solco dal quale partire per tracciare senso.
Giocando con suggestioni pop della pittura americana e con tratti espressionisti fortemente ironici (pur nascondendo anche accenti più drammatici e grotteschi), Cocco ci porta nell’universo colorato di figurine che sembrano uscite dal sogno di un bambino, cow boy, mandriani, domatori, maghi, marinai, generali a cavallo, aeroplani, sono i protagonisti di dipinti giocosi e irrequieti, simboli di fantasia libera (ma anche del controllo e della volontà di possesso dell’uomo occidentale) che parte dai solchi tracciati della realtà per farne quasi archetipi, metafore dello stare al mondo: come in Il tentativo di Sam, che gioca pittoricamente con i piani cromatici come pretesto per raccontare paure e desideri o in Lo sciamano, piccolo dipinto su cromìe di terre o ocra, in cui si affaccia timorosa una figura che ci osserva.
Un racconto di rimandi attraverso piani e colori, che gioca fra contrasti, contraddizioni, verità e sogno, passato, presente e futuro; un lungo viaggio per immagini fra gli oggetti che ci posseggono e un desiderio di libertà e di un senso differente che passa fra scene surreali come nei dipinti, questi di grande formato, In a Park o Chaos in a bar in cui un pugile sconfitto soccombe sotto il peso di un pesante animale e una raccolta sala di piccoli dipinti, una sorta di larario, immagini-ritratto dal forte tratto espressionista, che sembrano emergere dal passato come avi che ci ricordano le nostre radici.
L’ultima sala, in piena luce, sembra essere l’ideale conclusione del percorso, la realizzazione: sulla parete di fondo la scritta luminosa UNION sembra il titolo a caratteri capitali di un desiderio di completezza che rimanda all’altra installazione Hai per caso visto Sam?: una teca in plexiglass affiancata come in un cortocircuito temporale ad una foto d’epoca di un viso femminile dall’espressione dolce, dove sembrano conservate e (finalmente) raccolte le palline colorate (forte il richiamo visivo alle strisce del video iniziale) di una folle partita giocata su un tavolo da ping pong senza rete.
Il 22 novembre, in occasione del finissage della mostra, Cocco darà vita a un’installazione sul tema dei confini e della libertà scegliendo come location una delle celle del carcere, che si animerà di colorati simboli dell’infanzia, in un tentativo di volo o di decoro dei propri angusti limiti.
Francesco Cocco. GROOVE
a cura di Gerardo Fiore, presentazione critica di Ernesto Forcellino
Museo Irpino – Complesso Monumentale Carcere Borbonico
Piazza Alfredo De Marsico, Avellino
Fino al 23 novembre 2019
Orari: da mercoledì a sabato (domenica, lunedì e martedì chiuso)
ore 09.15 – 13.45 – ultimo ingresso alle 13.15
ore 16.15 – 19.45 – ultimo ingresso alle 19.15
Info: +39 0825 790734