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MILANO | Palazzo Reale | 27 ottobre 2021 – 30 gennaio 2022

di ILARIA BIGNOTTI

Un lungo, intenso viaggio, nelle piaghe e nelle pieghe di un Corpo con la C maiuscola, reduce dal viatico del XX secolo e martoriato dalle tragedie del XXI secolo.
La mostra, muscolare e appassionata, che Francesca Alfano Miglietti ha coraggiosamente proposto negli ambienti di Palazzo Reale si snoda in un percorso dai toni fumosi e avvolgenti: un antro a più entrate e uscite, che porta la firma allestitiva del grande Franco Raggi, dove opere, prevalentemente installazioni di ampio respiro, immersive e impattanti, si dispongono con forza, si impongono viene da dire, allo sguardo e al corpo di chi le visita.

CORPUS DOMINI. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima, una mostra che dice che ancora è lì, il Corpo, glorioso e imbattibile, nonostante tutto, nonostante la morte, oltre la morte, nonostante la mercificazione, oltre la virtualizzazione e la sostituzione digitale. Il Corpo è il nostro, è il tuo, è il mio: è esposto a sé e all’altro, provato, privato, negato e trascendentale a sé stesso.

Corpus Domini, veduta allestimento, Sala Dedicata A Lea Vergine, Foto: Edoardo Valle

È un Corpo storico: si entra in mostra passando dall’archivio di Lea Vergine. La mitragliata di volumi a sua cura, che trasgrediscono dall’arte programmata, Ultima Avanguardia, alla Body Art – e verrebbe da pensare a quanto, dopotutto, sono in relazione le due avanguardie, se lette attraverso la chiave dell’interazione e dello scambio tra opera, fruitore, corpo e scienza – e ci si imbatte in alcuni fondatori e protagonisti della Body Art, da Gina Pane con le sue rose conficcate tra il ventre e le braccia, a Urs Lüthi con i suoi travestimenti che non fanno altro che mettere in scena Urs Lüthi, a Carol Rama che il Corpo lo dipinge, mitico ed erotico, rituale e immaginato, con la sfacciataggine altissima della sua narrazione. Si prosegue in un ambiente dove un Corpo accovacciato, uscito dalle innumerevoli variazioni tra forma e funzione di Antony Gormley (PILE IV, 2019), riposa tra le ineluttabili parole che solcano le pareti, di Joseph Kosuth tratte dai versi di Samuel Beckett: “La sua fioca inutile luce sarà l’ultima / ad abbandonarli supponendo che li attenda il nero”, si legge nella parete di sinistra (Texts for Nothing #4, #8, #17, #12, 2010).

Corpus Domini, veduta allestimento (Kosuth), Foto: Edoardo Valle

Tra attesa, delocazione, dimenticanza e ossessione, il Corpo s’intesse nel lavoro politico e transizionale di Ibrahim Mahama (JOHN B, 2013-2016, Untitled, 2018 e Arijanh, 2020-2021), si accumula nel tumulo memoriale di Christian Boltanski, una nera montagna con una luce interrogante, perentoria e spettrale sulla sua sommità (La Terril Grand-Hornu, 2015).

Corpus Domini, veduta allestimento, Boltanski, Foto: Edoardo Valle

La mostra procede così, per opere forti, ambienti inquietanti, pugni nello sguardo che non vuole schivarli, ma farsi prendere, lasciarsi portare dentro, addosso, attorno ai Corpi di artisti che negli anni Francesca Alfano Miglietti ha seguito, raccontato, collocato in percorsi dove il problema, a ben vedere, è sempre quello delle Identità Mutanti, come titolava un suo saggio ormai storicizzato del 1997. Oggi, più che mai, quel testo si è rivelato, come quelli della maestra Lea Vergine, che ne scrisse la prefazione, profetico. Si parlava di mutazione, appunto, di fluidità, di transizione della rabbia e del dolore in membra e cicatrici, intestino ed epidermidi rovesciati.

Corpus Domini, veduta allestimento (Antoni) Foto: Edoardo Valle

Una gamba di bambina che spunta come un quadretto perbene nel centro di una piccola sala, opera di Robert Gober (Bird’s Nest, 2018-2019), anticipa le mutilazioni di Alfredo Jaar che ci fronteggiano poco dopo. Venuti dal diluvio pandemico, osserviamo le violenze senza compromessi che ci buttano addosso; interessante anche l’allestimento, fatto di fili tirati, bianchi di Janine Antoni, a creare le quinte di un letto ospedalizzato (to coalesce e to compose, 2015), e rossi nell’installazione di Chiharu Shiota, tirati da calzature usurate, a centinaia (Over the Continents, 2011): due scenari dove il Corpo è assente – il letto è vuoto, le scarpe non sono calzate; così come esso scompare – o meglio appare per prosciugarsi o finire nello scarico nelle opere di Oscar Munȏz, mandala di volti che l’artista dipinge con l’acqua sulla pietra (Biografías, 2012 e Proyecto para un memorial, 2014-2015).

Corpus Domini, veduta allestimento, (Sun Yuan Peng Yu Shiota), Foto: Edoardo Valle

Poi ci sono altre pietre che come fossili contemporanei tengono traccia della violenza sui Corpi perpetrata dalle guerre, dalle dittature, dall’aberrazione razziale e coloniale: la grande sala di Fabio Mauri, ancora oggi, non lascia scampo, con il Muro Occidentale o del Pianto, 1993, da un lato, e dall’altro Cina ASIA Nuova, 1996 e Rebibbia, 2006: sorvegliati speciali da un’opera recente di Urs Lüthi (Love Action Game II, dalla serie Placeboos & Surrogates, 2001) che sbeffeggia anche la possibilità dell’arte di poter fare una rivoluzione, combattono impervi nel tempo e si ergono mastodontici nella loro battaglia di Corpi negati e violentati, fatti a pezzi e ricomposti tra le nefandezze del denaro e del potere.

E poi c’è lui, Joseph Beuys: non la sua opera, ma lui come opera, a incedere, ancora, con le scarpe consumate, davanti alle scarpe di Shiota.

La rivoluzione siamo (ancora) noi?

La sala successiva, come in un teatro dell’assurdo, rimescola le acque: disposte a cerchio, le nuove Zattere della Medusa fatte di ceramiche smaltate e disegni a matita dal gruppo di artisti russi AES+F, raccontano di nuove mitografie, iconologie di una storia che nausea come il mare moto in continua, potenziale esplosione proiettato, immersivamente, nella parete di fondo (Mar Mediterraneum, 2015-2018).

Corpus Domini, veduta allestimento, AES+F, Foto: Edoardo Valle

Non ci possiamo salvare?

Gino De Dominicis ci ride in faccia (La Risata Continua-D’Io, 1971)

Il nostro Corpo sì. L’Anima, non è dato saperlo.

Il grande convitato di pietra, a mio dire, è Artaud.

 

CORPUS DOMINI
Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima
a cura di Francesca Alfano Miglietti

in mostra opere di AES+F, Janine Antoni, Yael Bartana, Zharko Basheski, Joseph Beuys, Christian Boltanski, Vlassis Caniaris, Chen Zhen, John DeAndrea, Gino de Dominicis, Carole A. Feuerman, Franko B, Robert Gober, Antony Gormley, Duane Hanson, Alfredo Jaar, Kimsooja, Joseph Kosuth, Charles LeDray, Robert Longo, Urs Lüthi, Ibrahim Mahama, Fabio Mauri, Oscar Muñoz, Gina Pane, Marc Quinn, Carol Rama, Michal Rovner, Andres Serrano, Chiharu Shiota, Marc Sijan, Dayanita Singh, Sun Yuan & Peng Yu, Gavin Turk.

27 ottobre 2021 – 30 gennaio 2022

Palazzo Reale,
Piazza Duomo 12, Milano

Info: www.palazzorealemilano.it

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