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Se la materia ha bisogno di essere raccontata

di Alberto Gianfreda

 

Alberto Gianfreda: “Non riesco a capire di che materiale sono fatte”

Studente: “Ho utilizzato del sapone mescolato con della paprica”

AG: “Che consistenza ha? È rigido oppure è flessibile?”

S: “È semirigido però si piega”

AG: “Potresti aiutarmi a capire che misure hanno questi lavori?”

S: “Piccole…”

Sheng Nan Valentina Hu per il corso di tecniche della scultura, 4 maggio 2020

Ecco cosa succede quando gli studenti condividono online le prime prove condotte sui materiali nei loro laboratori domestici. È intuibile quanto sia complesso cogliere da un’immagine della webcam le caratteristiche di un materiale ma non è altrettanto ovvio il valore del processo che gli studenti stanno mettendo in atto per superare questa condizione.
Nei laboratori dell’accademia, è normale condividere i progressi fatti lavorando ed indirizzare le pratiche affinché queste possano concorrere alla progettualità del singolo.
Oggi capita, invece, di trovarmi a dover guidare l’avanzamento dei lavori attraverso lo schermo. A volte guardo l’immagine di materiali noti come gesso, argilla, legno. Altre volte, vengo messo davanti a materiali sconosciuti. Nella prima situazione cerco di richiamare, pescando tra le esperienze già fatte, le informazioni depositate nella memoria riguardanti una specifica materia a cui associo un peso, una temperatura, un profumo. Lo schermo non rinnova fisicamente l’esperienza già avuta con la materia ma, almeno, ci permette di richiamare situazioni pregresse a cui appellarci per attribuire qualità sensoriali all’immagine. Se, invece, il materiale che abbiamo davanti risulta sconosciuto, frutto della mescolanza di x con y, ecco che non ci resta che lavorare per associazioni di esperienze, apparentemente assimilabili, per percepire le qualità della materia che stiamo osservando.

Nonostante ci si trovi immersi nella negazione dell’esperienza fisica, ho ritenuto che fosse importante avviare il corso di Tecniche per la scultura partendo da un passaggio del libro Aptico. Il senso della scultura, curato da Jole De Sanna che chiarisce, con i contributi di Luciano Fabro, Hidetoshi Nagasawa e Antonio Trotta, quale fosse il nesso apparentemente imprescindibile tra il corpo e la materia della scultura: “L’artista si misura con la materia per unirsi ad essa, ma, ad opera compiuta, si apre la lotta con il tempo, con gli agenti ambientali: è di nuovo la vita, in cui l’artista è definitivamente disarmato”.
Quale “lotta con la materia” sta mettendo in atto lo studente che, ai primi anni di accademia, inizia ad intuire la portata dell’essere dell’arte rispetto al rappresentare? Come si sviluppa quel breve dialogo iniziale adesso che la materia viene meno della sua sostanza, riducendosi ad un’immagine?
Lo studente rileva l’incapacità della webcam di veicolare l’esperienza sensibile che ha fatto piegando, scaldando, mescolando con le proprie mani un materiale, perché intuisce che quell’immagine è limitata ad una rappresentazione della propria esperienza. Comprende che lo schermo non porta con sé la lotta, piccola o grande che sia, iniziata con la materia.

Screenshot delle prove sui materiali di Francesca Petricci per il corso di tecniche della scultura, 29 aprile 2020

Questa condizione che ha evidenziato la funzionalità dell’immagine rispetto alle pratiche della scultura ha inciso, già dalle prime prove con i materiali, sulla progettualità dello studente che si sta interrogando sul senso di presentare attraverso lo schermo i propri elaborati. Inoltre, non potendo condividere in laboratorio giorno dopo giorno le sperimentazioni, ci si trova a dover generare di continuo immagini per mostrare il processo di lavoro. Ma questa necessità si scontra con la natura dell’immagine fotografica, che impone, senza via di scampo, una scelta di inquadratura, di luce, e di altre condizioni rivelando la propria definitività e assolutezza, rispetto alla pluralità delle esperienze sensibili che ci concederebbero le pratiche di laboratorio.
Inizia così, con tutta la naturalezza di chi risponde ad una necessità, il racconto della materia con le parole. Nasce la narrazione che supporta l’immagine per colmare quella esperienza negata al tatto. La parola trova il suo spazio, sembra più viva dell’immagine stessa, fa sentire la natura delle cose. Si fa testimone dell’esperienza di chi l’ha vissuta condividendola con me che ascolto. Così la parola aiuta e partecipa dell’esperienza della scultura sostituendosi alla materia ma, contemporaneamente, evidenziando la lacunosità di queste immagini.
La didattica della scultura online ci fa mettere in discussione il rapporto tra corpo e materia accelerando il processo di sostituzione di questo con il nesso corpo e immagine.
Allo studente sta adesso scegliere se far rappresentare ad un’immagine la lotta con la materia oppure se accettare l’immagine stessa come sostanza della sua esperienza.

Beatrice Mosca per il corso di tecniche della scultura, 29 aprile 2020

Leggi anche: Didattica dell’arte in quarantena #1 – Webcam, l’immagine di una comunità senza spazio

Alberto Gianfreda nasce a Desio (MB) nel 1981. Nel 2003 si diploma in scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove si specializza nel 2005 in Arti e Antropologia del Sacro. Dal 2005 collabora con l’Accademia di Belle arti di Brera di Milano presso la quale è attualmente docente di Tecniche per la scultura. Per la stessa istituzione ha ideato e coordinato il progetto MI VIDA experiment indagando i temi della didattica e dello spazio. Nel 2014 fonda assieme ad un gruppo di altri artisti e la curatrice Ilaria Bignotti il movimento Resilienza italiana.
Gianfreda dedica studio e ricerca al linguaggio della scultura, indagando le connessioni tra i temi della resilienza e dell’identità. Cerca nella capacità di adattamento della materia, attraverso sistemi di assemblaggio mobili, irripetibili variazioni formali che rendono la scultura unica in uno specifico momento.

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