Borderline: la parola come scultura sonora, il teatro come installazione
INTERVISTA DI VIVIANA SIVIERO
tratta da Espoarte Contemporary Art Magazine n.72
L’Arte si cambia d’abito, continuamente, soprattutto nell’evo moderno: si veste di scrittura, calca la scena teatrale e giunge al mondo della celluloide, utilizzando i trucchi della finzione per esprimere se stessa, parlare dell’uomo e degli avvicendamenti della società, le magie del vivere, gli artifici messi in scena da una quotidianità qualunque che grazie al trucco si rende affascinante. Piccole cose, semplici gesti che si rivelano grandiosi e magici compiuti da gente comune che rappresenta la maggioranza della popolazione: sul palcoscenico di no man’s land oggi non si racconta la favola della poverella che diviene principessa ma della ragazza che resta se stessa e per cui la propria vita è tutto. In ogni istante. Questa volta no man’s land e le sue mutanti geografie hanno un ospite d’eccezione, Ascanio Celestini, un artista poliedrico, un mago della parola e della cantilena, un osservatore attento che guarda e ascolta con un piglio critico eccezionale capace di restituire le semplici cose del mondo, anche un po’ sfortunate, con uno stile personalissimo che gli è valso, fin dai primissimi spettacoli, premi e riconoscimenti, che continuano a fioccare ad ogni nuova esperienza. Impossibile raccontarlo se non usando le sue parole che sono composte in una geografia così originale da essere unica:
«io cammino in fila indiana.
io sono il numero 23724.
non lo posso dire con certezza.
è una cosa che ho dedotto dal fatto
che quello che cammina davanti a me mi ha detto che lui è il 23723.
Perciò se la matematica non è un’opinione io sarei proprio il 23724.
Io cammino in fila indiana.
Camminando vedo quello che cammina avanti a me.
Gli vedo la nuca, il collo, le spalle e la schiena, il culo e le gambe e infine le scarpe.
La faccia non posso vederla.
Non gliel’ho mai vista.
Io cammino in fila indiana.
Ma il numero 1, il primo della fila, quello l’ho visto.
Lo vedo sempre. Lo vedo in televisione.
È numero 1 che ci dice “andare piano” e noi tutti camminiamo piano.
È numero 1 che ci dice “andare forte” e noi tutti camminiamo forte.
Numero 1 ci dice anche “marciare” e noi tutti a marciare.
Io cammino in fila indiana.
E a un certo punto vedo uno che cammina a fianco a me»
[Io cammino in fila indiana, Racconti \ Ascanio Celestini; musiche \ Matteo D’Agostino; Suono \ Andrea Pesce]
I suoi spettacoli sono vere e proprie installazioni, sculture sonore che ricordano la favola ma si infrangono sulla realtà, raccontando fatti terribili con una condotta creativa fortemente caratterizzante: la scenografia diviene superflua, fatta solo di un fondale povero e qualche luce più vicina a quelle utilizzate nei pergolati delle sagre di paese degli anni ’50 che alla finzione teatrale. Una sola figura quasi sempre ferma, un’intonazione monocorde, quasi ossessiva, che rapisce immediatamente l’udito che non ammette distrazione alcuna fino a quando il sipario non si chiude, l’obiettivo non si ottura o la carta finisce rivelando la solitudine dell’ultima pagina. Non una solitudine melodrammatica ma nemmeno rassegnata; piuttosto quotidiana e naturale, che si interseca alla vita vissuta di personaggi comuni e quotidiani che non saranno mai afflitti dal male di vivere: «quando il dottore ha aperto mia madre, non ha trovato l’esofago [Lotta di classe, Ascanio Celestini, Einaudi].
S’era bruciato con l’acido. Mio padre ci ammazzava i topi nel gallinaro. Diceva che mio zio non ne prendeva manco uno con le trappole, che il formaggio e la trappola a molla funzionano solo nei cartoni animati di Tom e Jerry. Allora buttava l’acido nelle tane dei topi e li bruciava. Ma poi stava per cominciare l’inverno e voleva capire se col freddo l’acido si congela.
Diceva «magari gli butto l’acido e invece di bruciarsi i topi fanno pattinaggio su ghiaccio». Ha messo la bottiglia in freezer per fare la prova e mia madre se l’è bevuta. È successo per sbaglio. Quando il dottore l’ha aperta non ha trovato l’esofago.»
Viviana Siviero: Ascanio Celestini, dai primissimi anni di attività era chiaro il tuo carattere assolutamente unico e delizioso, spesso, maliconico, profondo, sempre attento agli emarginati ma mai in maniera retorica o vittimista, semmai assolutamente originale ed unico. Come sei nato?
Ascanio Celestini: Ho iniziato all’Università con un interesse per la ricerca etnografica, poi mi sono reso conto che il mio era un interesse per le storie più che per la disciplina antropologica e ho cercato di utilizzare la ricerca sul campo per la scrittura. Non credo che gli sconosciuti appartenenti alle classi subalterne siano più interessanti dei più conosciuti esponenti delle classi dominanti, credo semplicemente che nella condizione di subalternità si veda meglio come funziona il tessuto di relazioni della nostra società. Se devi raccontare la violenza, essa si comprende meglio attraverso le ferite di chi la subisce e meno dall’arma di chi ferisce.
Sei stato invitato alla Biennale di Venezia, che è uno degli eventi mondiali più importanti per quanto riguarda le arti visive, da Vittorio Sgarbi, per fare il suo lavoro. Eri nella lista dei pensatori del secolo invitati a presentare un artista: chi hai portato e perché?
Non so niente di Sgarbi e per quanto riguarda la Biennale ho avuto contatti quasi esclusivamente con Riccardo Mannelli (l’artista associato a Celestini, n.d.r.) che conosco e stimo molto. È come se invece della rivoluzione russa (che mantiene tutta la sua forza, benché chiusa e implosa nella scatola del ‘900) fosse la rivoluzione francese ad aver perso la sua spinta propulsiva. I nuovi sovrani sono tornati a governare direttamente attraverso i corpi dei sudditi. Mannelli rappresenta proprio questi corpi dominati e la violenza che esprimono è spesso una sola cosa con la violenza che subiscono. Della biennale, che non ho ancora visitato, non posso dire molto.
Lo scorso 22 maggio, hai messo in scena al teatro Rasi di Ravenna lo spettacolo Fabbrica per il Nobodaddy, la scena contemporanea di Ravenna Teatro/Teatro delle Albe con il contributo della CGIL. Un affresco sulla vita di fabbrica raccontato attraverso storie operaie di diverse generazioni. Uno spettacolo che è stato realizzato a partire da un laboratorio con anziani ex-operai ed attuato in cave, miniere e fabbriche dislocate in varie province italiane. Lo spettacolo ha inaugurato il festival Opera che si propone come momento di riflessione che ha il suo centro a Ravenna, ma che vuole essere osservatorio per l’intero Paese…
Dal 2000 al 2002 ho fatto interviste seguendo il tema del lavoro. In particolare la ricerca che ho fatto a Pontedera con gli ex operai della Piaggio è stata determinante per la scrittura del testo. Nello spettacolo si ascoltano anche le voci di alcuni degli operai che ho incontrato, ma la storia ruota attorno ad una vicenda avvenuta a Terni: l’uccisione dell’operaio Luigi Trastulli il 17 marzo del ‘49. Accanto a quell’evento reale ne ho collocati altri due. Il primo è di finzione e riguarda l’assunzione del personaggio che racconta la sua storia. Il secondo è reale, ma a differenza della morte di Trastulli riguarda il presente ed è la registrazione di un testimone che, a Genova, ha assistito all’uccisione di Carlo Giuliani. Tutto lo spettacolo si muove su questi piani: il passato e il presente, il reale e il surreale.
La tua attività è variopinta: a quella principale di teatro, accosti quella di scrittore: prima Cecafumo, poi Lotta di classe e da poco è uscito Io cammino in fila indiana. Non sazio di tutto questo esprimersi, lo scorso anno è uscita una pellicola, intitolata La pecora Nera, davvero commovente: come ti ho fatto ti disfo, pio pio pio pio pio. Da cosa trai ispirazione e come la traduci in arte?
Faccio interviste. Uso un metodo vicino alla ricerca sul campo proprio dell’antropologia, ma con un’altra finalità. Non cerco di ricostruire un tessuto culturale o far riaffiorare una vicenda. Io devo scrivere una storia e per farlo non ho bisogno di verità, ma di concretezza.
Ascanio Celestini è nato a Roma nel 1972. È un attore teatrale, regista cinematografico, scrittore e drammaturgoitaliano.
www.ascaniocelestini.it
Dall’alto:
Ascanio Celestini, “La fila indiana – Il razzismo è una brutta storia”, Roma, Novembre 2010. Foto Maila Iacovelli – Foto Zayed/Spot the Difference
Ascanio Celestini e Igiaba Scego durante una scena del film “La Pecora Nera”, regia di Ascanio Celestini. Ascanio Celestini (regista), Daniele Ciprì (direttore della fotografia), Valia Santella (aiuto regia), Igiaba Scego (suora), foto Maila Iacovelli – Fabio Zayed/spot the difference
Riccardo Mannelii, “Altarino della Patria”, 2005, tecnica mista su cotone applicata su tavola, cm 62×79. Padiglione Italia, Venezia
Locandina del film “La Pecora Nera” di Ascanio Celestini