VENEZIA | 56. Esposizione Internazionale d’Arte | Padiglione sloveno | 9 maggio – 22 novembre 2015
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Intervista a Jaša Mrevlje Pollak di Gabriele Salvaterra
Incontro Jaša Mrevlje Pollak (Lubiana, 1978) sullo schermo del mio portatile, separati da sei ore di fuso orario. Jaša, artista chiamato a rappresentare la Slovenia alla Biennale di Venezia 2015, si trova nel suo studio di New York, occupato nelle intense fasi preparatorie che precedono la sua partenza per l’Italia. C’è grande interesse per Utter, il grande environment performativo che animerà il Padiglione della Slovenia per tutta la durata della Biennale. L’artista espone con calma e lucidità le linee guida del suo intervento, un’opera d’arte totale incentrata sull’idea di comunità e speranza.
Come artista del Padiglione sloveno sei chiamato a rappresentare una nazione, come ci si sente?
Ho studiato a Venezia e la Biennale la conosco benissimo sia dall’esterno che dall’interno. Questa rassegna è sempre stata un’opportunità rara e preziosa per crescere ed è molto importante per me.
Quanto aumenta la pressione in una rassegna del genere?
Moltissimo, ma è una buona pressione. È questo il motivo per cui cerco sempre nuove possibilità, non per andare sul sicuro ma per allargare quello spazio di rischio che ti fa tirare fuori il meglio. Il fatto di essere stato scelto significa soprattutto una grandissima responsabilità verso le persone con cui lavoro, il pubblico e verso il mio lavoro.
Il tuo studio è a New York anche se mantieni rapporti con Lubiana. Ti senti più rappresentante di una specificità slovena o abitante del mondo?
Mi sento assolutamente abitante del mondo, però è anche vero che mi sento più legato alla comunità di Lubiana ora che sono qui a New York. Per quasi metà della mia vita sono stato jugoslavo, quindi per me è stato evidente da subito come l’identità nazionale sia un concetto prima ancora che un dato di fatto. Nella Biennale, la politica manifesta il suo potere sfruttando la cultura per la sua forza di rappresentazione. Oggi la competizione fra le nazioni si misura in base a quanto i singoli Paesi sono disposti ad investire nei loro Padiglioni e questo aspetto lancia un messaggio sbagliatissimo sul ruolo dell’arte in generale.
Nei tuoi lavori lo spazio è riconfigurato da un mix di media, com’è il tuo intervento?
Quello che mi interessa è considerare la forma architettonica come una delle pagine bianche del mio lavoro. L’architettura esistente non è semplicemente un muro, ma anche il pensiero di chi ha realizzato quel muro, quindi lo spazio espositivo non è mai solamente un elemento neutro. Non sei mai da solo quando inizi a pensare, c’è sempre il pensiero di qualcun’altro prima del tuo ed è la stessa cosa quando entri in uno spazio dove stai per realizzare un progetto: ci sono dei limiti che ti spingono a migliorare il tuo messaggio creando un contesto che appartenga ad un discorso vivo. Il padiglione ospiterà una grande installazione architettonica che funzionerà come un enorme strumento visivo, sonoro e performativo – un apparatus – e che verrà utilizzato per tutta la durata della Biennale.
Prima hai parlato di comunità, sembra un aspetto che ti sta molto a cuore, ce ne vuoi parlare?
In un mondo di estremo individualismo, la comunità non è semplicemente un privilegio della discussione, ma è l’assoluta urgenza. La comunità è qualcosa di molto fragile e difficile che cerco di creare sin dal processo di realizzazione dell’opera. Penso che essa si realizzi a partire da piccoli nuclei accomunati da un codice di valori dove i diversi ego e talenti riescono a collaborare per creare qualcosa di costruttivo che, in questo caso, è un’opera d’arte. Il pubblico è fondamentale e non parlo solo dell’inizio della Biennale: il vero potere della Biennale è quell’immenso tempo di sette mesi in cui moltissime persone da tutto il mondo la visiteranno. Questo è l’apparatus su cui voglio lavorare.
Dalle prime anticipazioni i temi cardini del tuo lavoro saranno esistenza, collaborazione, speranza; sempre concetti legati alla comunità?
Nel sottotitolo di Utter ho cercato di abbracciare tutto quello che il progetto porta con sé (The Violent Necessity for the Embodied Presence of Hope). È la risposta a un mondo che è cambiato e sta cambiando in maniera così forte da produrre un grande accumulo di rabbia. Reagire con l’aggressività sembra comunque la cosa più logica. L’aggressività in politica non può essere altro che distruttiva mentre in arte può essere creativa e soprattutto costruttiva. Non è detto poi che in arte una cosa debba essere aggressiva in senso formale. Una poesia può essere un elemento di aggressione e anche la speranza può essere aggressiva per via della sua assoluta urgenza.
In effetti si nota sia un lato politico che uno poetico in quello che fai. Anche qualcosa di fragile come la speranza può avere un valore politico?
Assolutamente sì. L’arte non può governare il mondo ma può e deve ispirarlo anche là dove non ha il diretto potere in modo da essere usata come veicolo e strumento di cambiamento. Spesso l’arte mostra l’assurdità del mondo, ma nel nostro tempo credo debba soprattutto rendere evidente la speranza, la bellezza e l’armonia che, nonostante tutto quello che sta accadendo, esistono.
JAŠA
UTTER /the violent necessity for the embodied presence of hope
Curatori: Michele Drascek, Aurora Fonda
Commissario: Simona Vidmar, UGM | Maribor Art Gallery
Produttore Esecutivo & Direttore Artistico: Rosa Lux
9 maggio – 22 novembre 2015
56. Esposizione Internazionale d’Arte | Padiglione sloveno
Arsenale, Venezia