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VENEZIA | ACP Palazzo Franchetti | Fino a gennaio 2022

di FRANCESCO FABRIS

Il titolo ricalca le parole usate da Massimo Campigli per descrivere il sentimento che pervase il suo spirito ed il suo lavoro dopo la visita al Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma nel 1928.
Le sale, suggestive, sono quelle di ACP Palazzo Franchetti, capolavoro gotico della metà del ‘400. La città è Venezia, che non merita certo presentazioni ma che è legata a filo doppio all’artista che qui si rifugiò durante la guerra, espose in una sala personale proprio alla Biennale del 1928 ed intrattenne rapporti elettivi con la Galleria Il Cavallino del mitico Carlo Cardazzo. Il “contrappunto” alle 35 opere del Maestro è fornito addirittura dai reperti, molti dei quali inediti, di una popolazione stesa lungo l’Italia antica della quale ha occupato i territori centrali e meridionali nel millennio prima di Cristo.
Un popolo mitico e raffinatissimo, capace di suggestionare in profondità la cultura ed il gusto rinascimentale e la cui fascinazione prosegue nelle generazioni a seguire, sino all’età contemporanea.

Veduta della mostra Massimo Campigli e gli Etruschi: una pagana felicità. Foto di Francesco Allegretto

La struttura “duale” dell’esposizione, assolutamente felice ed indovinata, pone in dialogo in ogni sala molte testimonianze della vita etrusca (sarcofagi e statue votive, busti, ornamenti, vasi e gioielli) con la parabola figurativa e di maturazione di Campigli. Si traccia, così, un alfabeto comune generato da simboli e legami che si ritrovano con puntualità nelle scansioni tematiche delle stanze: la figura umana (con la netta distinzione tra maschile e femminile), gli animali (al centro della cultura e della vita etrusca stavano cavalli, uccelli, animali selvatici) e la terza rappresentata da una germinazione in fieri di forme geometriche.
È così, attraverso la riattivazione di forme, stili e composizioni arcaiche che l’arte di Campigli disvela la sua spiazzante modernità, generando un cortocircuito semantico di segni e figurazioni che ha un effetto straniante nella sua ripetuta sottrazione di riferimenti temporali allo spettatore, immerso in una dimensione sospesa.
Il 1928, anno della visita al Museo Etrusco, rappresenta per Campigli un approdo sicuro della sua cifra stilistica, praticamente immutata da lì alla morte ma sino a quel momento errante e poliedrica come la sua vita, privata e professionale.

Veduta della mostra Massimo Campigli e gli Etruschi: una pagana felicità. Foto di Francesco Allegretto

Max Hilenfeld (questo il suo vero nome), fu invero corrispondente a Parigi per il Corriere della Sera, ove entrò a far parte del “gruppo dei sette” (con De Chirico, Severini, De Pisis, Tozzi e Savinio) giornalista, artista e letterato. Vicino per prossimità temporale ai futuristi ma lontano per indole e sensibilità, si può dire che ritrovò sé stesso (fondante il suo stretto legame con la psicanalisi) proprio avvicinandosi alla mitica civiltà etrusca.
L’indagine figurativa e la riflessione profonda sulle traiettorie anche culturali del popolo risvegliarono in Campigli l’intuizione per una forma schematizzata, il culto per il mito, il fascino della spersonalizzazione e l’abbandono ad una fascinosa femminilità, adorna ma anonima.
Il suo modo arcaizzante, magico ed essenziale rimane negli anni immutato, solo lentamente pervaso da una maggiore spontaneità, dall’ingresso di qualche forma e colore nuovo, nel rispetto rigoroso della ricerca del “simbolo perfetto” come fanno i bambini, che imparano formule standardizzate per rappresentare il prototipo umano.
La successione cronologica delle opere (questa la scelta curatoriale) non può che muovere da Zingari, capolavoro coevo alla visita a Villa Giulia, dove il germe artistico di Campigli si fa spazio tra rimandi colti e raffinati alle atmosfere metafisiche ed ai giochi pittorici e simbolici del realismo magico.
Il busto di donna con l’anfora, le forme della gonna e la posizione del cavaliere sullo sfondo, le vestigia antiche ricordate dall’acquedotto originano l’alfabeto che per l’artista sarà vita e realizzazione dell’io non solo artistico.
L’amore per le forme essenziali e per i reperti storici, per uno spazio che è fatto di suggestioni e ribaltamenti ed il culto dell’immagine femminile, l’uso mai abbandonato di terre opache con toni d’affresco e biacca con inserimenti cromatici timidi ma sapienti saranno le coordinate di un opera lunga una vita.

Massimo Campigli, Donne con l’ombrellino, 1940, olio su tela, 100 x 81 cm. – collezione privata

Le scene di vita e lavoro, case, teatri, interni familiari sono e saranno solo il pretesto per la narrazione di una figura femminile che nella vita personale di Campigli è stata riferimento, mito, simbolo e cifra anonima, molto di più della sua banalizzazione in “clessidre”.
Teste e donne anonime e spersonalizzate proprio perché, secondo lo stesso artista “… queste grosse teste non importa che somiglino al defunto, sono l’equivalente, la somiglianza è segreta come la vita dell’effige è segreta”.
Le evoluzioni della figurazione, in mostra documentata sino al 1966, solcano con pertinenza le sale e la loro tripartizione. Emergono così ripetute teorie di donne, sino ad approdare a Donna, bambina, cane e uccello del 1940, ove figure raccolte dalla tradizione etrusca entrano ad arricchire la composizione, sino alle ieratiche atmosfere del Villaggio (1957), di Danzatrice gialla (1960) e della Casa gialla, (1961) dove i simboli mai abbandonati si arricchiscono di cromaticità, simmetria e composizione che ricordano gli approdi astrattisti.
Una figurazione, dunque, arcaica e meditativa, impalpabile e simbolica che riattiva, in chiave moderna, linee e tratti di una cultura immortale.

Massimo Campigli, Donne velate, 1943, olio su tela, 66 x 48 cm. – collezione privata, Bologna

In Campigli, solo all’apparenza lineare ed iconico nelle sue tele, coesistono anche l’amore per la rigorosa simmetria e la fascinazione per i gioielli femminili di cui sono ornate tutte le sue protagoniste, le cui forme risultano una colta citazione delle urne e dei vasi al centro della venerazione etrusca.
Il geometrismo e l’arcaico, però, non sfociano mai in mera astrazione o passatismo, inducendo semmai lo spettatore ad una lenta riflessione sulla vita e sulla sua purezza degli elementi semplici, ma anche sul pregio e la sapienza di ordine e rigore compositivi.
Sembra così definitivamente fugato il timore del Maestro che, nelle sue opere, vedeva “troppo museo e poca vita”.

 

Massimo Campigli e gli Etruschi: una pagana felicità
a cura di Franco Calarota con la supervisione generale di Alessia Calarota

Fino a gennaio 2022

ACP – PALAZZO FRANCHETTI
San Marco 2842, Venezia

Info: +39 041 2689389
www.acp-palazzofranchetti.com

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