Scomparso a 93 anni, con oltre mezzo secolo di opere alle spalle
di ALBERTO ZANCHETTA
Correva l’anno 2001 quando incontrai Vasco Bendini (1922-2015) all’Accademia di Bologna. A presentarci fu Concetto Pozzati, suo grande amico, e all’epoca mio professore di pittura. In quell’occasione Bendini inaugurava una mostra nell’aula che porta il nome di Virgilio Guidi (che in quella stessa Accademia era stato tra i mentori di Bendini).
Lui era un ex-allievo diventato un maestro, acclamato e ormai storicizzato, io invece ero ancora un timido studente che non seppe fare altro che stringergli la mano e congratularsi per l’esposizione. Da allora ho visto molte altre mostre di Bendini, imparando poco per volta a conoscere i suoi Segni segreti, le opere del ciclo Gesto e materia in cui il grumo di colore sembrava fremere con violenza sulla tela, le serie delle Memorie e del Tempo come creazione, fino all’Immagine accolta dove il murmure della pittura diventava equorea come non mai, quasi fosse un’abluzione dell’anima.
Scorrendo in rassegna le opere, dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, non v’era dubbio di trovarsi di fronte alla ricerca di uno dei protagonisti più audaci del Secondo Dopoguerra, e ora più che mai appare evidente la sua coerenza intellettuale, non priva di innovazioni e alchemiche sperimentazioni. Le commistioni pittoriche – in anni non sospetti – con le resine, le polveri metalliche, la lana di vetro o la paglia, sono la riprova di come l’artista non abbia mai voluto essere imbrigliato nei generi, né tantomeno nelle mode.
Ad ogni mostra di Bendini si aveva la netta sensazione di assistere a una caparbia e longeva giovinezza che sapeva stupire e stupirsi di sé. Giorgio Cortenova l’aveva definito “notturno e insonne”, lo era per davvero: un instancabile spirito diuturno il cui atteggiamento serotino attendeva, sempre e solo, il baluginare della creatività (che è vita eterna).
Al maestro Bendini è difficile dire Adieu, ci sia allora permesso congedarci da lui scrivendo À bientôt.