ROMA | MATÈRIA | 13 FEBBRAIO – 30 APRILE 2021
di FRANCESCO PAOLO DEL RE
Costruire sul vuoto e dentro il vuoto: attraversandolo, riempiendolo, solidificando, provando a eccedere nel suo contrario di pienezza, fino a farlo diventare registro di un’assenza che si fa ipotesi presente di ricostruzione, indicazione di fondamenta per progetti futuri e ulteriori. È questa la sfida del cemento di Stefano Canto, usato come materia prima per il progetto scultoreo e installativo intitolato Carie che inaugura la nuova sede della galleria Matèria di Roma. Forma, contenuto e contenitore sono saldamente uniti in un discorso espositivo solido, coerente e radicato che aspira a farsi ricordare come pietra d’angolo del percorso dell’artista romano (che fa il punto sugli esiti di una ricerca che porta avanti da anni) e della vita della galleria fondata e diretta da Niccolò Fano, che dichiara: “Cambiare spazio e cogliere un’opportunità in questo mare in tempesta ci permette di formalizzare una rinnovata linea di pensiero e d’azione, che punta fortemente sulla città”.
Roma, dunque, inevitabilmente protagonista, sebbene in filigrana e come dispositivo di visione in cui va in scena il fare dell’artista più che il modo di essere delle sue opere. Si può rintracciare, in sottofondo, una memoria archeologica, un senso di scavo e recupero e di poesia del sedimento che da sempre accompagna l’immaginario e la prassi di Canto.
Qui archeologica sembra l’origine remota della pratica di riempire un vuoto per recuperarne, come da uno stampo, la forma perduta, che si offre come copia, come simulacro, come simulazione e dissimulazione, sdoppiamento, reificazione, manufatto, costrutto di fatto e di senso. La memoria dei vuoti pompeiani, che conservano la forma degli antichi abitanti della città distrutta dall’eruzione del Vesuvio e che vengono colmati dagli archeologi nel tentativo di ridare consistenza a un corpo divenuto fantasmatico, si riflette e si deforma nel lavoro di Stefano Canto. L’artista infatti sceglie di abitare con le sue colate cementizie gli interstizi e le cavità di tronchi morti, mangiati dalla carie degli alberi.
Succede così: l’artista cammina per le strade di Roma e viene sorpreso dall’incontro con carcasse di alberi attaccate dal morbo che le rende vuote e fragili. “Ecco degli spazi vuoti – scrive Giuliana Benassi nel testo critico che accompagna la mostra – dove lo sguardo dell’artista ha alloggiato architetture germinali, nei quali la visione di una compenetrazione reciproca tra architettura e natura si è immediatamente sedimentata al di là delle palpebre, riconoscendo una nuova archeologia, un’archeologia che fossilizza reperti contemporanei cristallizzandoli nel presente”.
Prelevati, osservati, trasformati, traditi, gli alberi ridotti a un guscio si trovano a essere riempiti di cemento allo scopo di ricrearne l’aspetto o di aggiungere ulteriori volumi e sviluppi spaziali alle forme in via di disfacimento, che si ampliano in chiave architettonica con la costruzione da parte di Canto di casseforme che modulano parallelepipedi di personale e affascinante invenzione. “Canto non ha semplicemente elaborato un pensiero rivolto al riempimento del vuoto ma ha attivato un processo di rigenerazione e costruzione a partire dal vuoto. Complice l’architettura – colonna portante della poetica dell’artista – le opere si sono generate attraverso una ricerca materica della forma nata dai vuoti peculiari di ciascuna cavità arborea”, prosegue la curatrice.
Il corpo della mostra si articola in tre grandi nuclei installativi, nei quali la singola scultura dialoga con lo spazio e supera la dimensione di oggetto per aprirsi alla necessità di un’interazione più pregnante fra le singole parti e il fruitore che con l’intervento dell’artista si mette in relazione. Ad accogliere i visitatori c’è un grande tronco ramificato e posizionato in modo da seguire e assecondare la conformazione della galleria stessa, come una sorta di prua di una nave, proiettandosi verso l’esterno, verso la piazza che lo ospita al di là della vetrina. È un intervento ambizioso che non passa inosservato né per le sue dimensioni né per il peso, tanto imponente da essere stato realizzato dall’artista direttamente all’interno dello spazio prima dell’apertura al pubblico. Dell’albero originario resta una parte della struttura con la corteccia e la sua coltre di muschi e licheni; senza soluzione di continuità, il legno si fonde però con il cemento, che ne rimodella la forma laddove si era compiuta una mutilazione e in più la eleva, allontanandola dal pavimento, attraverso la costruzione ex novo di una struttura che non è un semplice basamento, ma un vero e proprio pensiero architettonico che trasforma l’albero in una costruzione, in un muro che delimita spazi e confini o in un parapetto che organizza la visione.
Nel secondo nucleo installativo pensato appositamente per la mostra, laddove i fossili cementificati si offrono senza ulteriori costruzioni, appaiono come mere sezioni di tronchi ormai del tutto inorganici ottenute da una stessa matrice. Hanno perso la postura verticale e giacciono sul pavimento con un andamento sequenziale, come moduli giustapposti per la composizione dell’installazione e ulteriormente ricomponibili in una riconfigurazione mai conchiusa forse in un modo preordinato (anche qui non si può non pensare ai rocchi di colonne abbattute dei siti archeologici, ma la similitudine è appena un’eco).
Nelle opere realizzate dal 2017 e presentate, invece, come un terzo enunciato da parte dell’artista, l’intento costruttivo prevale sulla reminiscenza botanica e si fa più immaginifico e prevalente nel suo andamento volumetrico: qui la cassaforma propone aggiunte, innesti, polloni, superfetazioni rispetto al corpo originale dei tronchi, interpretazioni della forma mancante, che si caratterizzano per un ordine formale tutto umano che completa con l’ordine vegetale originario e allo stesso tempo contrasta con esso, facendolo diventare un’altra cosa.
L’azione distruttiva della carie apre lo spazio per una reinvenzione del dato reale, che non interessa più in quanto prelievo di natura, ma piuttosto perché si fa occasione di ricostruzione, portando l’artista a immaginare le possibilità spaziali e volumetriche della scultura come tentativo di abitare lo scarto tra elemento organico e proiezione architettonica. Nei titoli delle singole opere resta ancora la traccia di una mappa di Roma e dei percorsi dell’artista che l’attraversa, legata all’enumerazione degli alberi che l’hanno abitata. Si incontrano il pino della Casa dell’Architettura, il cipresso del Ministero della Marina e così via, un bosco di opere per una domanda sul vuoto, inteso come un segno di frizione tra il paesaggio urbano e quello naturale. “Lo spazio espositivo – scrive Benassi – sembra trasformarsi in un paesaggio, un paesaggio non idilliaco, ma cadenzato dalla costante parresia dialogica tra natura e architettura, dove l’una prende ispirazione dall’altra e viceversa”. Una selezione di disegni e di sculture di piccole dimensioni, infine, testimoniano quanto i temi attorno ai quali la mostra ruota siano importanti per la riflessione dell’artista sin dal 2006.
Stefano Canto. Carie
a cura di Giuliana Benassi
13 febbraio – 30 aprile 2021
Matèria
via dei Latini 27, Roma
Info: www.materiagallery.com