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Nicola Vinci, un artista-viaggiatore senza fissa dimora, che ha trovato nella fotografia il suo sensibile medium espressivo, un uomo che guarda all’infanzia, utilizzandola nella sua accezione più simbolica, facendola divenire tramite elegante per esprimere i propri pensieri, dosando perfettamente originalità, contenuti e caratteristiche estetiche riconoscibili, anche laddove la produzione si discosti dalla precedente. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con l’artista, che il 5 giugno inaugurerà la sua nuova personale a cura di Luigi Meneghelli, presso Arte Boccanera, dal titolo L’altro che mi guarda, frase che pare riferirsi al fatto che il suo personale punctum barthesiano sia stato stabilito nello sguardo che osserva, secondo un ribaltamento di potere conservato completamente dal soggetto più che dall’artefice dello scatto: ciò che viene immortalato passa attraverso una sorta di “portale”, costituito dagli occhi che puntano a loro volta l’obiettivo, e chi dietro vi si cela, concretizzando la vera autorità della fotografia in chi di solito si pensa sia solo un ambasciatore…

Viviana Siviero: Nicola Vinci o della particolare estetica fotografica: vorremmo sapere di te e della tua poetica interiore soprattutto relativamente alla tua ultima produzione: Nicola, chi sei, dove sei e qual è la tua meta (poetica)?
Qual è stato il tuo punto di partenza (poetico) ad inizio carriera?
Nicola Vinci: Chi sono? Una persona che cerca di affermare il proprio essere con l’ausilio del mezzo fotografico, con l’aiuto di bravi galleristi e la collaborazione di ogni appassionato d’arte che crede nel mio lavoro. Tutto questo non è facile in questo paese. Ancora più difficile è lasciar perdere. Non ho una meta, fare arte è come viaggiare per il mondo, senza una destinazione prefissata. Viaggio per conoscere nuovi luoghi, arricchirmi di ogni più piccola esperienza e condividere ogni novità, ogni curiosità, ogni nuova ricchezza con le persone che amo, che mi stimano e che desidero trovare in ogni viaggio. Mi sono avvicinato all’arte in maniera determinata, intorno al 1995. Ricordo solo che c’è stato un giorno, e non molto felice, in cui non ho desiderato altro che dipingere, senza nessun altro obiettivo. Non sapevo dove sarei potuto arrivare, non mi importava. La pittura mi aiutava a scandagliare i miei pensieri. Poi, dalla pittura, sono passato alla fotografia, in Accademia. Questo passaggio non è avvenuto soltanto per via dell’utilizzo di un media diverso, c’è stato un graduale passaggio dettato dall’esperienza, ma soprattutto dallo studio della fotografia, della teoria della percezione visiva e dall’avvicinamento alla psicologia del ritratto. È la natura del dramma umano, della fragilità dell’esistenza, di quell’istante che ti percuote cambiandoti la vita, che hanno suscitato il mio interesse profondo, e la fotografia, rappresenta il mezzo migliore per rappresentare la natura dei miei pensieri.

A breve inauguri per Arte Boccanera la tua nuova personale, dal titolo L’altro che mi guarda, a cura di Luigi Meneghelli. Da cosa è costituito il tuo evoluto ciclo di lavori e cosa sottintende esattamente l’affermazione contenuta nel titolo?

Lavoro su questa serie di opere da diverso tempo, quando grazie alla collaborazione tra Giovanni Bonelli e Giorgia Lucchi, ho realizzato una mostra personale a Cape Town.
In questo viaggio ho deciso di avvicinarmi ai ragazzi sudafricani vittime della povertà e della sofferenza che l’apartheid ancora genera. Avevo già tutto in mente, dovevo solo cambiare fuso orario. Da questo viaggio, desideravo tornare con un lavoro che avesse le sue radici in quei posti, ma soprattutto con un bagaglio di esperienze capaci di arricchirmi. Sto ancora sviluppando un’altra serie, molto più complessa ed elaborata, dal titolo Goodmorning Mrs. Cannon e spero che un’istituzione museale possa interessarsi ad essa. L’altro che mi guarda è un progetto sviluppato attraverso 12 ritratti di ragazzi che sniffano colla. Non ho voluto realizzare composizioni complesse o citare particolari iconografie, ho semplicemente fotografato questi ragazzi per dar loro la dignità che meritano, attraverso il ritratto, e questo è anche uno dei primi obiettivi che la fotografia si è posta agli albori della sua nascita. Ho trattato le immagini con dei toni e delle situazioni di luce morbida, quasi come appartenessero a tracce del passato. Quando ho scattato, non ho chiesto loro nulla, se non di pensare a se stessi, a quello che sentivano dentro: il loro sguardo è l’unica vera testimonianza di quei momenti. Attraverso i loro occhi possiamo immaginare la storia che gli appartiene, la sofferenza che provano, i loro desideri, le loro angosce, la loro rabbia. Ci guardano, forse ci invidiano, probabilmente vorrebbero stare dall’altra parte del gioco della visione. Non sapremo mai cosa provavano in quell’istante. Rymond, Moses, Ricardo… ho mischiato i loro nomi… a cosa serve un nome nella loro situazione? Forse solo per la differenziazione, per il riconoscimento. Ma nella società, sono solo ragazzi che vivono per strada e che usano sostanze dannose per sopprimere i loro dolori e anestetizzare i loro desideri, le loro speranze. Sono ragazzi che vengono aiutati da persone volenterose e ricche di generosità. Non hanno nient’altro. Quando ho scattato queste foto mi sentivo come qualcuno che cercava di spiare dentro di loro, quasi alla ricerca di una risposta, forse per poter riuscire a capire cosa si prova a vivere come loro. Il loro sguardo, invece, possiede una ricerca di verità, giustizia, di qualcuno che possa finalmente cambiargli la vita. Quando incroci il loro sguardo ti accorgi che scavano dentro i tuoi occhi; non si limitano a guardare, la loro è una ricerca e lasciandoti guardare provi disagio.

L’ambiente è annullato nella neutralità di una parete caratterizzante, che funge comunque da quinta; in passato hai dedicato un’intera serie agli ambienti senza umanità visibile. Che relazione intercorre fra le tue precedenti produzioni e questa?
Bloccare i soggetti contro un muro, un fondale che in un certo senso funge da palcoscenico è un elemento che spesso ho utilizzato nei miei lavori. È come metterli alle strette in uno spazio, togliendo loro aria e respiro ed eliminando tutto ciò che non è necessario. È come una gabbia all’interno della quale cerco di mostrare i miei soggetti che a loro volta sono prigionieri dei loro pensieri. Lo spazio è come una valigia in cui mettere dentro tutti gli oggetti personali capaci di farci identificare. Per me ogni oggetto che entra a far parte della scena è un simbolo, un elemento capace di parlare e che svolge una sua funzione narrativa all’interno dell’immagine, ed è questa una differenza fondamentale che contraddistingue questi ritratti dai primi. Inizialmente lo spazio era bianco, asettico, rappresentava un lenzuolo, un sudario, una sindone capace di raccogliere e testimoniare. Inizialmente vi posizionavo degli elementi, degli indizi, piccoli oggetti che fornivano informazioni al fruitore: gomitoli, forbici, lettere, carte, disegni ecc… In questa serie gli elementi che ho appena citato spariscono, non sono necessari. Ciò che mi interessa è lo sguardo. C’è tutto ciò che è necessario per questa narrazione, le malattie della pelle, le imperfezioni, le ferite. Lo spazio ha i suoi elementi che aiutano a narrare, alle volte è minaccioso, altre è quasi un paradiso inquinato da macchie e muffe e nel loro interno i soggetti vengono in luce o cadono nell’ombra…

Puoi anticiparci i tuoi progetti per il futuro?

Ho tanti sogni nel cassetto che chiedo si realizzino ogni beata notte di San Lorenzo. Con questa mostra desidero stendermi su questo prato per ricominciare a guardare in alto mentre con le prossime, spero in nuove visioni. Ho diverse cose in cantiere, una residenza alla Kunst Merano Arte, una nuova personale alla Emmeotto di Roma e dei progetti da sviluppare all’estero. Ho una spina nel cuore però, vivo in Italia. Sarebbe bello rimuoverla, senza la necessità o il bisogno di scappar via.

La mostra in breve:
Nicola Vinci. L’altro che mi guarda
A cura di Luigi Meneghelli
Arte Boccanera Contemporanea
Via Milano 128/130, Trento
Info: +39 0461 984206
www.arteboccanera.com
5 giugno – 4 settembre 2010
Inaugurazione sabato 5 giugno 2010 ore 19.00
Catalogo Vanilla Pocket in galleria

In alto da sinistra:
Ricardo, 2010, true giclèe print
Raymond, 2010, true giclèe print
Sibusiso, 2010, true giclèe print

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