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CAPENA (RM) | Art Forum Würth | Fino al 14 ottobre 2023

di GIORGIA BASILI

Uno dei paesi più giovani al mondo, la Namibia è stata prima una colonia tedesca – dal 1884 venne denominata  “Africa sud occidentale” – poi, dopo la disfatta della Germania nella Prima Guerra Mondiale, divenne Protettorato del Sudafrica con cui ha condiviso il periodo dell’apartheid. I tedeschi, nel periodo della colonizzazione, si lanciarono in un’aspra persecuzione contro il popolo locale, macchiandosi di genocidio contro gli Herero. Würth, molto sensibile alla tematica, si è mosso per collezionare opere di artisti namibiani. Vuole raccontare il passato del Paese e promuovere la sua arte. Nel 2015 ha acquistato un’ingente quantità di opere per formare non una collezione privata ma “d’impresa”.

Veduta della mostra, courtesy Art Forum Würth Capena, ph. Livia Granati

Oggi, gli artisti namibiani, giovani e meno giovani, esplorano tematiche espressive legate a un’identità da costruire. Nonostante non tutti i 33 artisti selezionati siano nati in Namibia, vivono lì e ci raccontano il Paese con un’ampia sfaccettatura mediale. Molti di loro assumono come referente privilegiato della ricerca il paesaggio e il deserto, il Namib, che occupa la fascia costiera ed è il più antico al mondo. Altri si focalizzano sulla vita rurale, sulle questioni politico-sociali, sulle antiche vestigia, sul futuro di una terra in via di definizione.

Un rappresentante del popolo degli Herrero sostiene: “se volete conoscere la Namibia non parlate con i politici ma con gli artisti e gli emarginati”. Così iniziamo il nostro viaggio alla scoperta questo Paese neonato, proprio attraverso le opere esposte in occasione di Namibia arte di una giovane generazione, da Art Forum  Würth di Capena.

L’esposizione inizia al piano meno uno, con uno scatto di una fotografa namibiana di fama internazionale Margaret Courtney-Clarke che, essendo attivista, ha perso la cittadinanza sudafricana e dal 2014, dopo aver viaggiato e vissuto in Italia, Usa e svariati paesi africani, vive di nuovo in Namibia.

Veduta della mostra, courtesy Art Forum Würth Capena, ph. Livia Granati

Lo scatto è ambientato sul Brandenburg, altopiano molto importante per l’estrazione diamantifera che ora sta affrontando il fenomeno dello spopolamento: gli abitanti migrano verso la capitale Windhoek per trovare risorse di sussistenza e lavoro. Come afferma Margaret in un’intervista su Lenscolture.com, il 25% dei due milioni di namibiani lotta per sopravvivere. In primo piano un uomo attempato è piegato sul suo strumento musicale, è autodidatta e campa suonando il violino ai funerali.

Paul Kiddo è l’unico artista che è venuto a mancare, la pittura ha un gusto naïve ed è riconoscibile la divisione tra cielo e terra. Nel suo lavoro traspira l’amore per la propria terra. Un suo dipinto raffigura il “Kolmanskop” ossia testa di Coleman, città ora fantasma prima amatissima dai tedeschi. Era un luogo molto tecnologico in cui venne impiantato il primo tram africano. I ruderi industriali e le dune sabbiose che hanno invaso gli edifici suggellano, come una bolla di vetro, la memoria del possesso violento da parte dei colonizzatori.

Tity Kalala Tschilumba è un artista immigrato dal Congo che produce orgogliosamente le sue opere nella cucina domestica, offre una pittura di contrasti.  In un ambiente rurale come quello namibiano – protagonista nelle tele di Frans Nambinga -, dove le risorse economiche sono in mano a pochi, l’arte diventa uno strumento formativo di emancipazione e rivalsa. Nel ghetto diventa fondamentale per instradare i giovani invece che abbandonarli alla strada.

Tocca corde liriche la pittura emozionale di Barbara Böhlke che parte dalla bellezza struggente dei tramonti che incendiano le lande aride e va ad attingere la materia direttamente alla fonte, includendo nelle sue spatolate grasse terra e cera prelevati in situ.

Allo stesso modo, Ismael Shivute preleva i rifiuti, come latta, tappi di bottiglia e materiali di scarto, per colorare la composizione di una chiave espressiva materica.
La scultura Tokkie-tokkie è un omaggio al coleottero sacro – portafortuna – che vive nel deserto. Con la conformità particolare delle sue zampetta riesce a non scottarsi nella sabbia bollente; la corazza, inoltre, essendo solcata da micro incisioni, raccoglie il vapore acqueo presente nella nebbia e mandando l’acqua lungo la schiena la fa arrivare in bocca. Il nome deriva dalla sua tattica di accoppiamento: sbatte il ventre per terra per richiamare la femmina.

Filemon Kapolo realizza delle sculture a grandezza naturale che ritraggono un altro animale-totem, il varano. Questi grandi lucertoloni sono essenziali come monito: la loro presenza segnala l’avvicinarsi di coccodrilli nelle zone rurali. Inoltre, per i namibiani se una persona è paragonata al rettile in questione significa che è “lenta e testarda”.

Linda Esbach realizza opere tessili, come quella in esposizione del 2003. La sua abilità nel Quilting, l’arte della trapunta, le deriva dalla mamma sarta. Le sue opere sembrano collage molto colorati e sono metafora della società eterogenea namibiana che fra l’altro apprezza tutte le manifestazioni creative, non dividendo le arti applicate dalle maggiori. Le ceste di vimini e le collanine dei San (una delle tredici etnie namibiane) sono viste sullo stesso piano di pittura, scultura e architettura.

Veduta della mostra, courtesy Art Forum Würth Capena, ph. Livia Granati

Di particolare interesse è il sito di Twyfelfontein nella zona del Damaraland, dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’Unesco nel 2007.  Pittura rupestre e petroglifi (incisioni su pietra), datati dai 1.000 ai 10.000 anni, con circa 25.000 figure umane o animali tratteggiate. Nicky Marais riprende questa tradizione come ispirazione nelle sue opere.

Isabel Katjavivi nata nel 1988 in USA da madre britannica e padre namibiano ha subito un grave abuso nel 2013, da allora ha deciso di usare l’arte come terapia. L’opera inclusa nella collettiva presenta due maschere auto-ritratto in cera che rappresentano il passaggio di fusione del sé, sull’estremità del volto è presente anche lo stoppino, dettaglio che rende evidente la possibile accensione e consumazione, come fossero delle candele. Il doppio volto è incastonato in una sorta di vaso ricolmo di sabbia e sassi, dal quale si stagliano delle spighe. Si avverte una nota olfattiva di gelsomino, fiore dal potere calmante e rigenerante qualità associate anche al colore scelto per il calco, l’azzurro. Il messaggio è chiaro: attraverso il fuoco possiamo purificarci, rifocillarci e rinascere più forti come l’araba fenice. Dal dramma personale l’artista passa al dramma collettivo degli OvaHerero (genocidio 1904-1908), come è evidente nell’opera presentata a Berlino They tried to bury us (2018) “Hanno cercato di seppellirci”.

Lukas Amakali usa invece la macchina fotografica analogica e la tecnica della doppia esposizione per dare vita a una  poesia visiva dalla temperatura surrealista, nutrita dell’accostamento di immagini all’apparenza casuali. Il mio numero destino segnato trasfigura il muso di una mucca in un mirino, alludendo in maniera critica agli effetti nocivi dell’allevamento intensivo. Il suo obiettivo è usare il linguaggio astratto per invitare le persone a percorrere sentieri non battuti e a pensare fuori dalla scatola. Petrus Amuthenu è presente con tre linoleografie, la sua è vena politico-sociale e la critica si muove verso la Ghettizzazione delle persone di colore nell’area che si chiama “luogo dove le persone non vogliono vivere” e sul problema della mancanza di una terra per tutti. In una delle composizioni le questioni territoriali sono raffigurate simbolicamente da una zolla di terra ricolma di grattacieli, sollevata da due palmi giganteschi (dei burocrati), mentre mani dalla grandezza e capacità ridotta si affannano per cercare di raggiungere il grappolo urbano, per accaparrarsi almeno le briciole dello spazio e dignità riservate solo ai potenti.

Veduta della mostra, courtesy Art Forum Würth Capena, ph. Livia Granati

Anche Othilia Mungoba con la sua fotografia Risveglio urbano solleva una questione sociale. È ritratta una donna dai seni scoperti in un contesto urbano, è riconoscibile per il suo costume come appartenente al Popolo Himba: questa tribù ha come caratteristica di tingere la pelle del corpo di rosso. Nonostante mantengano le loro tradizioni precipue sono anche integrati nella contemporaneità, girano infatti molte fotografie che li ritraggono mentre fanno acquisti al supermercato. Il significato di Ovahimba è “la popolazione che mendica”. Perché questo appellativo? Dovendo fuggire alla persecuzione ad opera dell’etnia Nama, sorpassarono il fiume Kunene e cercarono ospitalità in Angola. Quali altri frutti possono nascere da un passato coloniale? Da una società in cui convivono spinte opposte, dove birra, strudel e Foresta nera si mescolano con i prodotti locali senza soluzione di continuità?

L’aspetto multiculturale è visto come una risorsa dagli occhi di Beate Hamalwa stilista che mescola le ghette di matrice occidentale con tessuti e pattern tribali.

Se John Kalunda crea una machette con un gusto distopico, Elvis Garoeb piega il fil di ferro per creare sculture ironiche, lo stesso materiale viene fra l’altro utilizzato dai locali per costruire giocattoli improvvisati e macchinine.

Ilovu Homateni crea invece collage, miscelando frasi e sentenze, ritratti di persone umili, brand di abbigliamento e frammenti ricavati dalle buste di cartone che utilizzano gli indigenti per raccogliere nelle discariche, la ricchezza e la mendicanza sono così indicate come facce della stessa medaglia e realtà compresenti fianco a fianco.

E ancora, se Findano Shikonda sottolinea l’aspetto matriarcale delle tribù namibiane in Padri assenti (2012), Papa Ndasuunje Shikongeni e Lok Kandjengo usano la stampa su cartone invece che su linoleum per le sue opere, tecnica per cui i namibiani vanno fieri e che rende, inoltre, l’effetto di una particolare grana del colore sulla superficie. Anche Elia Shiwoohamba predilige la stessa tecnica per richiamare l’attenzione su tematiche urgenti come il rischio legato al dilagare della violenza sulle donne e l’importanza dell’educazione.

Veduta della mostra, courtesy Art Forum Würth Capena, ph. Livia Granati

Saara Nekomba usa invece piccolissime perline e tessuti per creare una composizione esplosiva di colori che allude alla profusione di identità e alla creolizzazione della società namibiana. L’installazione di Alpheus Mvula omaggia invece un centro d’avanguardia fondato da un austriaco, il Gobabeb, catalizzatore per lo studio dell’inquinamento e la condivisione delle conoscenze sugli ambienti aridi, soprattutto in vista del cambiamento climatico. Nel deserto del Namib si incontrano infatti 3 ecosistemi: il Mare di Sabbia a sud, le Pianure di Ghiaia a nord e la vegetazione lacustre del fiume effimero Kuiseb. Questi tre ecosistemi offrono una ricca diversità di organismi adattati all’aridità. Per raccogliere dati efficaci c’è bisogno di attingere aria perfettamente pulita in una zona priva di inquinamento, su questo sito si eleva una torre alta 21 metri che serve a questo scopo. L’antenna è molto bassa rispetto ad antenne usate per lo stesso proposito se si pensa che in Siberia, in un centro di ricerca equivalente l’antenna raggiunge i 300 metri. L’atmosfera è molto limpida. “Di notte, la Via lattea è così luminosa che è possibile vedere le fila di formiche che si avvicendano sul suolo” sostiene Valeria Tienghi rappresentante del Consolato della Repubblica di Namibia in Italia.

Fondamentale è la connessione armonica con la natura, la Namibia è infatti il primo paese ad aver inserito nel proprio statuto come cardine la protezione ambientale, delle specie in via d’estinzione come il leopardo e il rinoceronte. Celebre è il Safari nel Parco Etosha. Ciò è evidente nelle linoleografie di Peter Mwahalukange, artista attivista che è stato esiliato in passato anche per la sua strenua lotta a favore dell’indipendenza e della libertà. Fillipus Sheehama, da parte sua, crea degli arazzi intrecciando la plastica dei rifiuti che arrivano dall’Europa e dall’America nelle discariche africane. La critica viene mossa alla cultura dell’accumulo usa e getta, all’iper-produttività industriale.

Infine Urte R. Remmert solleva delle questioni fondamentali. Stila L’ABC delle problematiche attuali in Namibia e punta il dito sulla difficoltà babelica della comunicazione. In Parla con me per trovare una nuova lingua namibiana innumerevoli volti, affrontati e sovrapposti, scandiscono frasi in diversi idiomi. La necessità di trovare una chiave linguistica comune è impellente: ufficiale è l’inglese, poi sono diffusi il tedesco e le lingue bantu.

La mostra è accompagnata dal catalogo edito da Swiridoff con la prefazione di C. Sylvia Weber, direttrice della Collezione Würth, un saggio di Hercules Viljoen, ex direttore della Galleria Nazionale d’Arte della Namibia e di Ulrich Sacker, ex-direttore del Goethe Institut a Windhoek, Namibia.

 

NAMIBIA – Arte di una giovane generazione nella Collezione Würth

Orari: lunedì – venerdì: 10.00 – 17.00 apertura straordinaria ogni primo venerdì del mese (festivi esclusi) dalle ore 10.00 alle ore 20.00 sabato e domenica aperto per eventi e laboratori creativi festivi chiuso

Ingresso gratuito solo su prenotazione

Fino al 14 ottobre 2023

Art Forum Würth
Viale della Buona Fortuna 2, Capena (RM)

Info: +39 06 90103800
art.forum@wuerth.it
www.artforumwuerth.it

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