MILANO | Museo del Novecento | 6 aprile – 7 settembre 2014
Intervista a ADA ARDESSI di Kevin McManus
Al Museo del Novecento di Milano, accanto alla mostra principale, il focus è dedicato all’opera fotografica, in parte inedita, realizzata da Ada Ardessi e Atto, autori che per decenni hanno lavorato a stretto contatto con Bruno Munari, testimoniando i principali momenti della vicenda professionale e umana dell’autore.
L’approfondimento iconografico amplia e contestualizza con maggior forza AA+A. Bruno Munari. Ritratti, doppia personale presentata al Centro per l’Arte Contemporanea Lugi Pecci di Prato, nel 2007. Le fotografie in mostra restituiscono l’inafferrabile complessità semantica di Munari e scalfiscono lo stereotipo didattico di cui è stato investito nel corso degli anni, prediligendo la rivelazione di caratteri di prossimità dell’artista nei confronti del proprio immaginario compositivo e di un suo possibile superamento.
Al termine del percorso di Chi s’è visto s’è visto, infatti, viene esposto per la prima volta anche l’ultimo ritratto di Munari che l’artista chiese ad Atto poco prima di morire.
Ada Ardessi intervistata da Espoarte racconta:
“Ho conosciuto Bruno Munari alla fine degli anni cinquanta, eravamo a una festa in casa di Paolo Scheggi, ero molto amica dell’artista toscano e avevo già cominciato a collaborare con lui. In quell’occasione mi venne presentato Bruno, proprio come un grande artista. Fu una gioia incontrarlo, lo ricordo ancora, era divertente ma così semplice che era impossibile non entrare in sintonia. Fin da subito lui si mostrò interessatissimo al fatto che fossi una fotografa, sembra strano dirlo adesso, ma era abbastanza raro incontrare chi realizzasse reportage d’arte. Allora c’era assoluta urgenza di documentare ed esistevano pochissimi mezzi per farlo. La fotografia era un medium unico, in tutti i sensi, e, purtroppo, non alla portata di tutti. Non come oggi.”
Partiamo dal titolo della mostra: sappiamo che questa formula era usata spesso da Munari, con un senso sempre in evoluzione. Qual è la vostra esperienza e perché queste parole sono state scelte come titolo?
Chi s’è visto s’è visto è una locuzione molto amata da Munari per sovvertire con familiarità il rapporto tra la rappresentazione di sé, la dimensione visuale del ritratto e le sue apparenze riflesse. È un’espressione spesso usata e reinterpretata durante i nostri lunghi periodi di collaborazione e di momenti di amicizia, ma al Museo del Novecento diventa un modo per descrivere e richiamare con laconicità il suo modo di essere. Il modo di fare, di comporre appartenuti ad un uomo unico. Secondo me, Chi s’è visto s’è visto è un richiamo, tanto per chi si ricorda di lui, quanto per chi lo ha amato, quanto per chi lo ha tenuto a distanza; è una frase che sembra concludere in fretta un discorso, ma che, in realtà, lo riflette e dunque lo prosegue idealmente, nello spazio e nel tempo.
Mi spiego meglio: Bruno Munari era una persona fluida, una personalità soave, era una specie di piuma, un osservatore impalpabile che dava gioia ascoltare e stare a guardare. Quando gli si stava accanto sembrava di seguire un fluido, lui conferiva leggerezza all’invenzione, senza usare retorica e senza annoiarsi mai. L’importanza delle sue scoperte era un’eco che gli attribuivano altri. Lui era sempre affabile, ma costantemente preso dal proprio mondo e, di esso, fedelmente in ascolto. Il suo riserbo proveniva, credo, da una continua cangianza esterna al suo centro, un’energia che gli permetteva di passare da un posto all’altro, da un oggetto all’altro, da un’idea all’altra in costante trasformazione, quasi come se il suo corpo non avesse peso. È per questo motivo che Chi s’è visto s’è visto, come titolo del percorso fotografico al Museo del Novecento, sovverte il linguaggio comune, per irriderne il senso sopito e ricordare i mille modi di un uomo. I modi di guardare ed essere guardato.
Qual era il rapporto di Munari con la fotografia? Dalle immagini emerge un soggetto consapevole e a suo agio davanti al A mio modo di vedere l’obiettivo; cosa chiedeva a voi fotografi?
Quando stavo con Bruno non sapevo mai cosa aspettarmi. Agli inizi degli anni Sessanta, soprattutto per una donna, era faticoso e dispendioso fare la fotografa. Ma quando ero accanto a lui, ad una mostra o anche durante un’occasione familiare, sapevo che sarebbe sempre successo qualcosa. Qualcosa che sarebbe rimasto impresso e che avrebbe reso interessanti, o perlomeno curiose, le mie foto. Era bellissimo vedere, attraverso l’obiettivo, come Bruno cambiava la storia degli oggetti e quanto li sapesse intuire. Fotografarlo nel momento in cui si dedicava il tempo dell’approccio alle cose significava, per me, scoprirne un mondo spesso invisibile a molti. Ogni gesto che faceva sembrava sempre iniziasse come un gioco per poi diventare un piccolo colpo di genio.
Come artista era un eterno fanciullo, gli bastava poco per trovare molto di più. Sebbene sembri il contrario, dalle foto esposte, Bruno non si è mai, e sottolineo mai, messo in posa. Ecco perché ritengo che non siano propriamente ritratti, quelli che io ho scattato, ma che siano semplicemente indicazioni, modalità secondo le quali Bruno mostrava il mondo all’obiettivo. Certo, lui sapeva che io lo stavo seguendo con la macchina fotografica, come alla Biennale del 1966, ma il modo in cui lui interagiva con le opere, con gli spazi e con gli artisti presenti era spontaneo. Lui non si autorappresentava mai. Credo, al contrario, che se mai gli avessi chiesto di scegliere una posa piuttosto che un’altra se ne sarebbe risentito e non avrebbe più continuato a divertirsi come suo solito. Era a suo agio con me, non aveva bisogno di sofisticare nulla. Ricordo che alla Biennale, quell’anno, fui incaricata da Cardazzo di realizzare un reportage. Ad un certo punto della mia prima giornata di lavoro, Bruno mi disse: Mi sto annoiando, io faccio un giro, vieni con me? Lo seguii senza battere ciglio e feci moltissime foto, realizzai un servizio non sulla Biennale in sé, ma sulla Biennale vista da Munari. Cardazzo, a fine delle mie giornate di lavoro, mi rimproverò, fece un po’ la voce grossa quando vide i provini: Ma, Ardessi, ma questo è un servizio su Munari alla Biennale! Lei doveva farmi vedere quel che c’era dietro, dietro di lui, non attraverso di lui. Tutto questo, però, mi divertì molto.
Munari fu tra i primi a portare da noi il termine “design” con l’accezione – oggi un po’ annacquata – con cui lo si usa in inglese, quella cioè di progettualità legata alla forma visuale. Questa visione progettuale e di consapevolezza formale può essere estesa alla fotografia, e Munari si è mai espresso a riguardo?
Non ho mai percepito Munari come una persona ispirata dal Design, né da una progettualità in sé. Munari era idea, era riflessione, era intuizione, fantasia e meraviglia. Lui capiva quel che voleva dalle cose confrontandosi con esse, piegandole, rivelandole in una maniera unica. A me bastava guardarlo attraverso l’obiettivo e scattare. Tante volte, quando decidevamo di preparare alcuni still life delle sue sculture, così come è stato per Concavo convesso, io andavo all’indirizzo prestabilito e mi trovavo in spazi vuoti. Non era quasi mai presente nessuno, nemmeno Bruno, eccetto per quelle volte in cui era lui stesso a portarmi a casa i lavori, per essere fotografati. Ma era rarissimo che lui assistesse alle mie sessioni.
Si fidava completamente di me, certo, poi, al momento di selezionare i provini era severissimo, rigoroso e sembrava sempre sapere esattamente quel che pretendeva dalla riproduzione fotografica. La resa finale era tutto.
Quel che ricordo con piacere, quando lui mi sottoponeva una sua nuova creazione, un suo nuovo manufatto designato, era l’incredibile felicità, l’ilarità nel mostrarmelo. Una gioia, tante volte, accompagnata da un leggero riservatissimo dissenso della moglie, Dilma, sempre al suo fianco. Mi spiego meglio: con una grazia infinita e con una fermezza quasi impercettibile, un piccolo gesto, Dilma, la sua anima pragmatica, faceva capire a Bruno che doveva rimanere ancorato con i piedi per terra. Bruno era e doveva rimanere un padre di famiglia, un marito, nonostante i voli della sua mente e la sua inafferrabile trasparenza. Ovviamente, questa sorta di microscopico controllo, che lei aveva su di lui, era percepibile solo in situazioni assolutamente domestiche, di intimità familiare. Ma adesso che ci penso, credo che la progettualità di Bruno possa essere nata da questa pratica della quotidianità che la dolce Dilma esercitava, sebbene a distanza, e con il massimo contegno, su di lui. Questa però è una mia visione, personalissima, un’interpretazione derivata dall’esperienza di vita con Bruno.
Avvertenza per il visitatore: cosa dobbiamo aspettarci da questa mostra e in che modo queste immagini aiutano a capire meglio le opere esposte in Munari politecnico?
Le mie foto accompagnano la maturità di Bruno Munari e delineano inquadrature frontali, realistiche, senza velature o ambivalenze, restituendo il profilo di un ideatore molteplice, che si pone di fronte all’obiettivo con spensierata consapevolezza, nell’agio di una rigorosa ma irridente formalità. I ritratti selezionati in Chi s’è visto s’è visto sono racconti sull’occhio di Munari, analisi senza contraddizioni che registrano l’istantaneità di uno sguardo sempre diretto verso l’esterno, nell’atto di cogliere suggerimenti e intuizioni. Io, infatti, scelgo di immortalare Munari costantemente presente a sé stesso, non solo come riflesso di opere d’arte, ma come specchio delle proprie interpretazioni.
Munari politecnico credo sia e debba essere un percorso su Munari come artefice, cioè come artista fra gli artisti, esattamente così come io lo ho conosciuto. Alcuni artisti lo amavano molto e altri, invece, non lo percepivano e lo guardavano con indifferenza. Ma i disegni, le Sculture da Viaggio, le Macchine, i Fossili del futuro e i dipinti appartenenti alla collezione Vodoz-Danese restituiscono, invece, alla comunità di Milano, il ruolo di un uomo che non sarà, per sua natura, mai abbastanza definito e studiato. Figura che comunque, al Museo del Novecento, tornerà ad essere, finalmente, completa. L’allestimento iconografico di Chi s’è visto s’è visto anche grazie alle foto di Atto, illustra fotograficamente la persona di Munari e il suo percorso compositivo, ma i lavori esposti parallelamente, ad un’unica sala di distanza, invece, rivelano la manualità, la linea e la consistenza del mondo prospettico, o meglio, delle prospettive di Munari. Una dimensione connessa, anche, fra gli altri, ai valori estetici: Huber, con la Vieira, con Alviani, con Scheggi, con la Apollonio, con Bonfanti, così come con Giulio Paolini.
Potrebbe formulare un augurio, un pensiero che accompagni la mostra?
Che sia reso degno omaggio a un uomo che ha amato molto e che è stato molto amato. Un uomo che non è mai apparso né triste, né rancoroso e che non sembrava sapere nemmeno cosa fosse l’odio. Un uomo che era artista perché non avrebbe potuto essere altrimenti.
Ada Ardessi (1937, Šterna, Grisignana, Croazia) fotografa orientata al reportage collabora sin dagli anni Sessanta con Munari diventando ben presto interprete fotografica dei suoi lavori più rappresentativi, dai Prelibri all’Abitacolo; le sue immagini sono pubblicate nei libri più rappresentativi dell’artista milanese. Nata a Šterna, piccolo paese dell’entroterra istriano nel 1937. All’età di dieci anni, fugge a causa della guerra e si trasferisce a Trieste e nel 1958 a Milano, dove vive e lavora. Ada Ardessi si avvicina alla fotografia negli anni Sessanta. Frequenta la scuola dell’Umanitaria e ottiene riconoscimenti che la inducono a sviluppare la sua ricerca nel campo della fotografia d’arte e d’architettura. Dal 1963 inizia ad interessarsi interamente al mondo dell’arte, più in specifico si dedica a ritrarre i percorsi, gli studi e le opere prodotte dagli artisti. Il suo interesse spazia dai protagonisti dell’arte programmata, cinetica e concreta tra i quali: Getulio Alviani, Carlo Belloli, Gianni Colombo, Gillo Dorfles e Paolo Scheggi, fino alle sperimentazioni artistiche e didattiche di Bruno Munari. Sarà proprio con Bruno Munari che l’interesse della fotografa supererà il concetto di documentazione. Le sue fotografie, comunque, manterranno sempre una doppia valenza: per un verso preziose e spesso unica testimonianza dell’avvenimento e per l’altra vita estetica autonoma. Gli scatti di Ada Ardessi si trasformano in una personale interpretazione delle idee e dei laboratori di Munari che, costituendo un valore aggiunto per l’opera, assumono, a loro volta, un valore artistico. Nel 2007 proprio sul lavoro trentennale con Bruno Munari, il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato le dedica una doppia personale esponendo, assieme ad Atto “immagini inedite e di straordinaria qualità capaci di restituire una dimensione soprattutto umana dell’artista”. Le sue fotografie fanno parte di numerosi archivi pubblici e privati; è inoltre presente nella collezione permanente dell’MSU (Muzej Suvremene Umjetnosti) Museo d’arte contemporanea di Zagabria, al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato e al Museo del Novecento.
Mostra: Munari Politecnico
Focus: Chi s’è visto s’è visto. Bruno Munari, Ada Ardessi e Atto
a cura di Marco Sammicheli
con la collaborazione di Giovanni Rubino
allestimento e progetto grafico Paolo Giacomazzi
6 aprile – 7 settembre 2014
Museo del Novecento
via Marconi 1, Milano
Orari: lunedì 14.30-19.30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30-19.30; giovedì e sabato 9.30-22.30
Ingresso museo: intero €5.00; ridotto studenti universitari, over 65 e dipendenti comunali €3.00
Info: +02 88444061
c.museo900@comune.milano.it
www.museodelnovecento.org