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ROMA | SALA 1 – Centro Internazionale d’Arte Contemporanea  | FINO AL 30 APRILE 2022

Intervista a KEN FRIEDMAN di Beatrice Conte

Una mostra itinerante affidata all’immaginazione, quella inaugurata venerdì 4 marzo nel Centro Internazionale d’Arte Contemporanea SALA 1 di Roma, dal titolo 92 Events. L’esposizione dell’artista Fluxus Ken Friedman è una raccolta di opere partiturali orientata all’azione, volta a destrutturare l’idea di opera secondo le nozioni tradizionali dell’arte. A partire dalla sua riproducibilità fino all’impossibilità di attribuirvi un valore monetario, unico è solo lo scenario immaginifico che scaturisce dalla mente dello spettatore durante tutto il percorso di visita.

Il suo progetto espositivo Events è composto dalla raccolta delle 92 partiture scritte dal 1956 al 2019, e ognuno di questi testi viaggia sul filo sottile che intercorre tra la proposta installativa, l’assurdo e il fare poetico, rivelando suoni e immagini che rimette alla percezione degli spettatori. E la mostra è stata concepita per avere simultaneamente luogo in più parti del mondo. Che impatto ritiene che abbia lo spazio entro cui si svolge la singola esposizione? E come cambia la risposta interpretativa di chi vi partecipa?
Questa è una domanda difficile a cui rispondere, ma che indica anche una questione chiave nell’esperienza dell’arte.
Lo spettatore completa sempre un’opera. Marcel Duchamp diceva che non c’è opera d’arte senza lo spettatore. Come anche lo spazio della mostra è parte di quell’esperienza personale nell’arte, e il flusso del tempo entro cui l’esposizione si svolge, respira, si trasferisce agli altri. Gli spettatori sono diversi ogni volta che vengono in mostra. La persona che viene in una giornata di sole è ragionevolmente diversa dalla stessa persona che viene con la pioggia. Come anche un visitatore affamato ha un’esperienza diversa da qualcuno che arriva dopo una bella tazza di caffè, una ricca pasticceria e qualche sorso di grappa. E anche chi viene per una seconda visita un mese dopo la prima non è proprio la stessa persona.
Qualche giorno fa ho letto un articolo di Elisa Gabbert sul New York Times, in cui descrive la sua esperienza di lettura di una poesia di W. H. Auden, e racconta: “Non importa quanto sia familiare una poesia, rileggerla mi dà sempre un senso di primo incontro, come se fossi tornata a dormire e fossi rientrata nel sogno da una porta diversa. Ogni volta che ritorno su una poesia, ne ho lette molte altre nel frattempo, che trasformano ed estendono la mia lettura delle stesse. Ma ho anche vissuto di più, quindi capisco di più… Man mano che invecchio, sto migliorando la poesia“.
Ogni spettatore è diverso e la storia personale ne è un fattore. Ogni spettatore ha un quadro interpretativo – l’orizzonte ermeneutico. Questo orizzonte incontra l’orizzonte fisico e storico dello spazio espositivo. Sala 1 è più di una galleria d’arte situata in un edificio storico. Si trova nel Santuario Pontificio della Scala Santa dietro San Giovanni in Laterano, la più antica cattedrale del mondo. Uno spazio così ricco di storia provoca una riflessione sul flusso del tempo. Strati di significato storico si accumulano, si incrociano e si incontrano nella nostra riflessione odierna. Perciò, l’esperienza di 92 Events non può che essere diversa nella galleria Sala 1 rispetto a quella vissuta in uno spazio espositivo moderno come la Adam Art Gallery in Nuova Zelanda o il Samek Art Museum in Pennsylvania. Ed all’interno del progetto espositivo di Sala 1 abbiamo aggiunto una dimensione nuova di spazio personale, un progetto nel progetto chiamato Sala Distribuito. Prevede che le persone partecipi all’evento di Sala 1 possano appropriarsi di una copia qualsiasi di partitura, e collocarla ovunque vogliano. L’idea della Sala Distribuito porta con sé sfumature di teologia familiare affinché l’esperienza di uno spazio religioso non rimanga in quel solo stesso spazio, ma viaggi nel mondo.

Ken Friedman, veduta della mostra 92 Events al Centro Internazionale d’Arte Contemporanea Sala 1, Roma. Courtesy Sala 1 e Giorgia Middei

La sua prima opera, Scrub Piece, l’ha pensata all’età di soli sei anni – nel 1956 –, e recita “Recati presso un monumento pubblico il primo giorno di primavera. Puliscilo a fondo. Senza alcun preavviso”. Cosa pensa l’abbia spinta ad una riflessione così delicata e consapevole?
A questa domanda si può rispondere in due modi. Il primo, che riguarda proprio la mia infanzia, è che da bambino vivevo a tre minuti a piedi dalla scuola dove il patriota del New England, Nathan Hale, insegnava poco prima della rivoluzione americana. Hale perse la vita all’inizio della guerra durante una missione, e la sua storia era in qualche modo importante per me, curiosa e affascinante. In un parco vicino la scuola, poco tempo dopo quell’evento, fu eretta una statua che ne onorava le imprese. Ma la gente non la capiva e vi cominciò a disegnare sopra. Graffiti per lo più. Questo mi infastidiva molto, e così, il primo giorno di primavera del 1956, decisi di pulire il monumento. Presi un secchio d’acqua, del sapone e una spazzola, e da quel momento fu un gesto che ripetei ogni primo giorno di primavera di ogni anno. Era qualcosa che divenne meccanico, in modo consapevole e ripetuto. Divenne arte solo nel 1966, quando compresi le potenzialità espressive di quel gesto.
La seconda risposta proviene da un uomo che guarda indietro a più di sei decenni di vita personale e pubblica. Da questa prospettiva è una questione di relazioni, tempo e spazio. Il mio primo impegno con le partiture degli eventi ebbe luogo nel 1966 quando George Maciunas mi portò in Fluxus. Quando conobbi George, non chiamavo i miei progetti “arte”. Anche se non avevo un nome per queste attività, le mettevo in atto in pubblico, erano sistematiche e organizzate, e spesso coinvolgevano altre persone. Le ho realizzate in spazi pubblici, parchi, presentate in chiese e centri di conferenze, in programmi radiofonici e persino in televisione. A quel tempo, vedevo queste attività come una pratica filosofica o spirituale. Su suggerimento di George, ho iniziato ad annotare le mie attività sotto forma di partiture di eventi, in cui registrai azioni da un repertorio di progetti che avevo generato fin dall’infanzia. Scrub Piece è stato il primo evento pubblico che ricordo di aver fatto e uno dei primi che ho descritto a George. Divenne la mia prima partitura di un evento.

Ken Friedman, particolari delle partiture Taverna, Trenta Piedi, Disco Zen, 1966. Courtesy Sala 1 e Giorgia Middei

Prima del suo incontro con George Maciunas, che l’ha incoraggiata a far parte del movimento Fluxus, non considerava quindi il suo come un linguaggio dell’arte. Come è cambiata oggi la sua visione e il suo approccio alla realizzazione di una partitura nel panorama artistico attuale?
Il contesto determina la natura e lo status dell’attività sociale, e così, quando sono entrato nel contesto dell’arte e della musica nel 1966, si è determinata la visione e la percezione che avevo di tutto ciò che in maniera assolutamente spontanea avevo condotto fino a quel momento. Una serie di azioni che mi avevano insegnato a guardare il mondo da una certa prospettiva, ora diventavano un linguaggio universale. Tutto ciò che pensavo fossero solo idee o il mio naturale agire divennero opere d’arte, ed io le vidi e le compresi come tali quando George mi incoraggiò ad annotarle come partiture formali. Questo tipo di pratica era ancora poco comune nel ‘66, e il fatto che la mia non fosse nata sotto la corrente dell’arte mi rendeva un pò diverso dagli altri esponenti del Fluxus. Nam June Paik, George Brecht, George Maciunas, Dick Higgins, Alison Knowles, Yoko Ono, Mieko Shiomi erano importanti artisti e compositori, mentre io sentivo che la mia attività era senza nome, ed ero il più giovane tra tutti. Ma il mio approccio si svestiva più facilmente dalle regole tradizionali di quel mondo, che a me era stato estraneo fino a quel momento. Le mie azioni si confacevano ad un gioco, e con il gioco delle idee io avevo trovato la mia identità d’artista. Questo ad oggi non è cambiato. Per me, le partiture sono esperimenti di pensiero, e ognuna di esse è un’opportunità di giocare con l’immaginazione per vedere dove questa mi condurrà.

Ken Friedman, opere partiturali dal 1982 al 1991. Courtesy Sala 1 e Giorgia Middei

Il linguaggio che propone in chiave fanciullesca e ludica è dunque concettuale e gestuale, ed offre una proposta di azioni che possono essere compiute da chiunque. Per lei compierle fa parte del processo creativo?
Sì e no. Ogni opera può esistere in uno o tutti e quattro gli stati. Il primo è l’idea. Il secondo è la partitura scritta. Il terzo è l’azione o la realizzazione. Quarto e ultimo, ci può essere un artefatto rimanente: un documento, una traccia, una fotografia, o anche un oggetto fisico. L’esecuzione di questi, o la possibilità di eseguirli, fa parte del processo creativo, ma può anche essere che un evento non venga mai eseguito o realizzato.

In linea con lo spirito della corrente Fluxus cui fa parte, cosa si aspetta dal termine di questa esposizione?
Questo è quello che sto aspettando di vedere.

Ken Friedman. 92 Events
A cura di Ken Friedman e Peter van der Meijden
In collaborazione con Adam Art Gallery, Wellington Nuova Zelanda

4 marzo – 30 aprile 2022

Sala 1 – Centro Internazionale d’Arte Contemporanea
Piazza di Porta San Giovanni 10, Roma

Orari: dal martedì al sabato, h 16.30 – 19.30

Info: +39 06 7008 691
salauno@salauno.com
sala_u@hotmail.com
www.salauno.com

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