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MILANO | Galleria Giovanni Bonelli | 28 febbraio – 7 aprile 2019

Intervista a JACOPO MAZZONELLI e DANIELE CAPRA di Matteo Galbiati

La Galleria Giovanni Bonelli, nella sua sede di Milano, ci regala un’altra mostra di forte impatto e di grande fascino, non solo per la bellezza delle opere e la forza del loro significato, ma soprattutto per l’immediato coinvolgimento empatico che queste sanno determinare. Protagonista della personale Difference and repetition è l’artista trentino Jacopo Mazzonelli (1983) che, per l’occasione, ha pensato ad un allestimento – con la complice sinergia della regia curatoriale di Daniele Capra (1976) – aperto e libero, dove le sue creazioni, molte dell’ultimo periodo, fossero un vero e proprio dispositivo visivo (e non solo) lasciato alla libera fruizione dello spettatore. Scopriamo la sua ricerca, in cui musica e arte determinano un pronunciamento di senso fortemente caratterizzato da una conoscenza profonda del mezzo espressivo e del suo ricco potenziale narrativo, con un’intervista corale con il curatore e l’artista.
Ecco lo scambio che abbiamo avuto con Daniele Capra e Jacopo Mazzonelli:

Jacopo Mazzonelli, [Mi]ra, 2019, pagine di album fotografici, velluto, ferro, vetro, 78.3×146.6 cm Courtesy l’artista e Galleria Giovanni Bonelli

Nel tuo intensissimo saggio critico di presentazione, fai riferimento a Deleuze e a Nietzsche: un avvio impegnativo per una dissertazione su un artista. Quali implicazioni filosofiche profonde ha, quindi, l’opera di Mazzonelli?
Daniele Capra – A mio avviso le opere di Jacopo ereditano probabilmente un approccio che deriva dal rapporto con la musica scritta, che è stato fondamentale nella sua formazione emotiva ed intellettuale. I suoi lavori nascono infatti da una necessità intima di attivare e portare ai nostri occhi un testo/tessuto che giace depositato inerme su un supporto che ne permette la conservazione, ma non si materializza nella realtà. Mazzonelli è forse un interprete nel senso musicale più alto, ossia un artista che porta nel tempo presente qualcosa che è stato abbandonato e formalizzato altrove, in un altro momento della storia. Penso derivi anche da questo la sua fascinazione per materiali provenienti dal passato, che hanno alle spalle un vissuto silenzioso. Lui raduna quelle istanze nascoste assemblandole e dando loro forma concreta in un’opera che occupa uno spazio fisico, un ingombro, e che i nostri occhi possono così vedere.

I suoi lavori sono esito di un intreccio di codici linguistici ed estetici diversi la cui “contaminazione” è mezzo efficace per aprire spazi di significazione poli-semantici: come “funziona” il meccanismo percettivo delle opere di Mazzonelli? Come vanno, lette, sentite e, appunto, percepite?
DC – Non penso vi sia una modalità migliore delle altre, poiché ciascuna di esse ha la sua necessità, e, anzi, la somma delle chiavi di lettura incrementa le possibilità di comprensione. In generale il lavoro di Jacopo Mazzonelli è caratterizzato da una forte commistione tra istanze musicali, letterarie e codici linguistici specialistici, come ad esempio il braille, che egli impiega con modalità differenti da quelle originarie. Inoltre sono ricorrenti i rimandi agli strumenti e alle composizioni. Ma il cuore della sua pratica è quella di parlare di suono senza renderlo direttamente in forma udibile.

Jacopo Mazzonelli. Difference and repetition, veduta della mostra, Galleria Giovanni Bonelli, Milano. Courtesy l’artista e Galleria Giovanni Bonelli

Come avete costruito l’allestimento della mostra e come avete orchestrato il ritmo tra opere spesso diverse, pur fedeli alla loro intrinseca coerenza?
DC – Abbiamo scelto le opere relazionandoci con l’ambiente, reagendo agli stimoli che esso ci dava. Alcune opere sono state pensate appositamente per essere allestite in certi spazi della galleria (come Arcata o Black Swans o Étude), date le caratteristiche spaziali o tecniche del luogo. Altre invece sono state collocate liberamente evitando eventuali interazioni audio o, al contrario, cercando che vi fossero dei rimandi. Come ad esempio con Volume che reagisce all’orizzontalità di Arcata, che ha una larghezza di ben sette metri.

Il percorso visivo da Bonelli pare fluttuare entro i canoni di un’esperienza fluida, mobile, non imposta e non schematicamente gerarchica per chi l’osserva e la visita: è corretta una lettura libera di queste opere?
DC – È esattamente così. Non abbiamo costruito un percorso, ma scelto che le opere potessero dialogare liberamente con il visitatore, senza imprigionarle in una matrice precostituita. I lavori sono recenti, alcuni finiti qualche giorno prima del vernissage, e coprono un arco di due anni. Cercare di assegnare loro una posizione rigida avrebbe penalizzato l’esperienza e l’unicità dell’incontro.

Cosa rappresenta per te la musica e la musicalità in queste tipo di opere? Dal momento che il mondo della cultura musicale è il filo rosso di questi lavori…
DC –  Come Jacopo ho una formazione di tipo musicale, avendo studiato pianoforte in conservatorio, e questo probabilmente mi consente di leggere in maniera diversa la poetica di Mazzonelli. Avverto che abbiamo un immaginario in parte simile e che ampi tratti della sua grammatica mi appartengono naturalmente. Ma penso che la musica sia solo la cornice, lo scenario che sta sullo sfondo. A mio avviso l’opera di Jacopo è molto più concettuale, basata sulla parola e sul visivo di quanto a prima vista si possa immaginare: contano di più altri aspetti, di matrice letteraria e, talvolta, esistenziale. La musica è solo una dolce ossessione che sta alle sue/mie spalle.

Jacopo Mazzonelli, Noise, 2018, macchina da scrivere, custodia, vetro, 35x40x25 cm. Courtesy l’artista e Galleria Giovanni Bonelli

Jacopo Mazzonelli – Con cultura musicale intendo un sistema in cui i codici di lettura dell’opera da un lato sono squisitamente musicali, quasi scientifici, dall’altra dove invece l’elemento visivo unito al riferimento musicale trasporta lo spettatore in un “altrove” significante, similmente a come funziona l’ascolto della musica durante la visione di un oggetto. Essa altera irrimediabilmente – e prepotentemente – la vista, favorendo una lettura alternativa della realtà. La colonna sonora si è guadagnata tale nome rubando particelle di spazio alla pellicola, scorrendoci insieme, incolonnandosi con i suoi fotogrammi. L’operazione che tento di fare nel mio lavoro è quella di visualizzare tale elemento, renderlo tangibile, ma al contrario dei presupposti della sound art, parafrasarlo e immortalarlo in un’opera silenziosa, tridimensionale e immutabile.

Come entra la musica, i suoi strumenti, le sue regole nella tua ricerca? Ne ha sempre fatto parte?
JM – Sicuramente ciò ha a che fare con la mia storia personale e i miei studi, che sono stati sempre ed esclusivamente musicali, perlomeno dal punto di vista accademico. Ho avuto modo di approfondire, oltre allo studio del pianoforte e alla musica da camera, quello della composizione, della musicologia e della direzione d’orchestra per un breve periodo, assorbendo una grande mole di informazioni e mettendole in atto in prima persona come esecutore. Successivamente è cominciata la mia carriera artistica, dove – nel corso degli anni – ho rielaborato tali informazioni facendole lentamente filtrare all’interno dell’opera.

Jacopo Mazzonelli.Difference and repetition, veduta della mostra, Galleria Giovanni Bonelli, Milano. Courtesy l’artista e Galleria Giovanni Bonelli

Il tuo è un lavoro di continua costruzione e decontrazione di qualcosa: che atteggiamento devi avere rispetto alla diversa polarità intrinseca del tuo modus operandi?
JM – È interessante che tu dica “devi avere” invece che “hai” rispetto al modus operandi. È una domanda che fa riflettere intensamente rispetto alle scelte che un artista non solo compie, ma “deve” compiere ogni giorno nel suo studio. Anche in questo caso mi viene in mente la tecnica pianistica, le diverse modalità di approccio alla tastiera, il timbro del suono, il “tocco” per sintetizzare. Da un punto di vista tecnico e operativo, la mera osservazione di oggetti significanti, ossia che fanno parte della mia cultura e della mia storia, rappresenta un momento nodale nella ricerca. Essi sono per l’appunto “contratti”, raccolgono in uno spazio minimo principi di tensione (corde, crini di cavallo, pistoni), elementi amplificanti (campane, trombe), o semplicemente elementi puramente decorativi (album vittoriani del secolo scorso o prima). L’operazione di decontrazione cui accenni consiste – tra le altre cose – nel rimodulare tali oggetti, prelevandone lo scheletro per inserirlo all’interno di un esoscheletro autonomo, completamente riformulato, significante di per sé. Quando parlo di meta-linguaggio autonomo come formula operativa del mio lavoro, mi riferisco spesso a come una serie di oggetti, gesti, azioni, frammenti prelevati dall’esecuzione musicale, se opportunamente isolati e messi nelle condizioni di essere osservati al microscopio al di là di un vetro, assumano un’identità nuova, forte ma anche molto ambigua. Negli anni la prospettiva è, ma credo poi per chiunque, quella di asciugare l’opera e dunque anche la modalità operativa. La consultazione quotidiana di testi etnomusicologici, sul paesaggio sonoro e l’organologia fornisce un accesso privilegiato a quel tipo di osservazione scientifica dalla quale comincio ad imbastire di volta in volta il lavoro.

Jacopo Mazzonelli e Matteo Franceschini, Black Swans, 2019, lampioni stradali, diffusori, suono quadrifonico, 43x280x45 cm. Courtesy l’artista e Galleria Giovanni Bonelli

Cosa ci dici della performance conclusiva di sabato 6 aprile in concomitanza con l’art week milanese?
JM – La performance Tabulae è un lavoro di nuovo sviluppo concepito a partire dal materiale costitutivo di una tavola armonica di pianoforte. Tale materiale, inscritto idealmente in un quadrato di circa un metro per un metro, è stato suddiviso in tre ulteriori poligoni. Tre performers, tra i quali Matteo Franceschini (compositore) e Eleonora Wegher (pianista), oltre a me, siedono inginocchiati in prossimità di tali tavole, ed agiscono direttamente su di esse per mezzo del movimento delle dita. Una serie di sensori di vibrazioni, opportunamente programmati, trasformano tali azioni in suoni definiti, secondo un iter stabilito dal compositore. Tale performance si inserisce in un programma di collaborazione con Matteo Francheschini, compositore italiano residente a Parigi, con il quale da qualche anno lavoro attivamente allo sviluppo di progetti performativi nei quali il linguaggio acustico si fonde con la manipolazione elettronica, il tutto all’interno di un quadro completamente inedito di progettazione. La composizione musicale e l’esecuzione vengono elaborate a partire da lavori dove i confini tra opera d’arte e strumento musicale vanno assottigliandosi, aprendo di conseguenza il campo a nuove possibilità operative.

A quali progetti stai lavorando? Su che serie di lavori – e quali contenuti – si sta concentrando la tua attenzione?
JM – La mia attenzione si concentra sull’osservazione del gesto musicale come elemento generativo per la creazione di un linguaggio autonomo, autodeterminato ed inscritto in un circuito chiuso, dove tutto funziona come in un sistema operativo offline. La connessione al mondo contemporaneo avviene per similitudine e confronto. Quando parliamo di musica assoluta, ci riferiamo ad un testo musicale che nasce senza intenti descrittivi. Eppure la musica assoluta è la più aggettivata, quella che più facilmente descrive ad amplifica contenuti umani, sentimenti, percezioni. Per questo, pur trovandoci di fronte ad opere che sembrano non parlarci direttamente di storia, politica, genere e attualità, esse lo fanno – o almeno tentano di farlo – ma in quadro capovolto, ambiguo, in un linguaggio che seppur diretto, rimane per forza cifrato. I prossimi progetti da un lato si concentreranno su questi aspetti, dall’altro invece consisteranno nella produzione di un ciclo di opere pensate per un’interazione diretta con l’esecutore o addirittura il pubblico, le quali verranno mostrate in contesti non solo galleristici e museali, ma anche operistici e musicali.

Jacopo Mazzonelli. Difference and repetition
a cura di Daniele Capra

28 febbraio – 7 aprile 2019

Galleria Giovanni Bonelli
Via Porro Lambertenghi 6, Milano

Orari: da martedì a sabato 11.00-19.00

Info: +39 02 87246945
info@galleriagiovannibonelli.it
www.galleriagiovannibonelli.it

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