NUORO | MAN, Museo d’Arte Provincia di Nuoro | 24 ottobre 2014 – 25 gennaio 2015
Intervista a PIETRO BELLASI di Matteo Galbiati
Abbiamo avuto modo di ammirare, il giorno dell’inaugurazione, la mostra A un passo dal tempo. Giacometti e l’arcaico proposta dal MAN di Nuoro, un’esposizione che affascina sia per i suoi contenuti, per le scelte attuate e per la sapiente regia con cui è stata condotta, sia per l’atmosfera che crea e genera coinvolgendo emotivamente il nostro sguardo e la nostra visione. Curata da Pietro Bellasi e Chiara Gatti, con il coordinamento e supporto di Lorenzo Giusti, direttore del museo sardo, questa mostra mette in dialogo e confronto – in taluni casi in modo inedito – il lavoro di Alberto Giacometti (1901-1966) con opere dell’antichità, spaziando da quella preistorica a quella nuragica, da quella egizia a quella greco-romana. Con un allestimento efficacissimo che annulla il tempo e lo spazio, le coordinate distintive di questi lavori si assimilano in un’unica esperienza avvolgente ed entusiasmante da cui si evince l’anima stessa dell’opera di Giacometti, proiettata e riverberata nelle presenze affini derivate dal passato.
Abbiamo incontrato il professor Bellasi per un approfondimento su questo significativo progetto in cui trapela, oltre che una passione e una cura estrema da parte dei suoi curatori, anche una profonda conoscenza e il desiderio di restituire il senso di una visione, di una lettura precisa dei suoi contenuti:
Da che idea nasce il progetto di questa mostra? Da dove siete partiti?
In realtà la prima idea di questa mostra è di Chiara Gatti, che aveva già lavorato ad un’altra in cui aveva preso in considerazione, in modo particolare, L’ombra della sera e il rapporto di Giacometti con gli Etruschi e la loro arte. Quando Chiara me ne ha parlato ho accettato subito, sia per la mia passione e gli studi che gli ho dedicato negli anni, sia perché questo progetto si basava sulla conoscenza, l’interesse di Giacometti per l’antico, un tema complesso ed articolato, meno scontato di quel che si pensa e ancora tutto da approfondire. Questa mi è sembrata una buona occasione per mettere in luce questi aspetti e contenuti.
Quali caratteristiche scientifiche ha? Su quali orientamenti, con Chiara Gatti, vi siete basati e che progetto avete condiviso con Lorenzo Giusti per una mostra solida e di grande contenuto, non certo una mostra d’occasione…
Esattamente, tu individui un punto fondamentale: questo è un progetto scientifico. Oggi si fanno molte mostre che, per quanto interessanti e ben fatte, sono solo delle raccolte di opere, sono una convocazione di pubblico che viene accontentato su temi e contenuti, il più delle volte, ripetitivi. Manca spesso l’imperativo di conoscenza, un impegno di ricerca.
Qui, invece, c’è un’idea di fondo molto precisa e determinata e le scelte sono state mirate e giustificate a sostegno di un’analisi puntuale del tema che, nel nostro caso, era il rapporto tra Giacometti e l’antico.
Si parla, quindi, di Giacometti e di arcaico: che rapporto e relazione volete far leggere allo spettatore nel percorso espositivo?
Giacometti nella sua attività aveva ammirato e attinto dall’arte antica e, ovviamente, dalla scultura. Metteva in evidenza soprattutto la durata che evoca il pezzo archeologico sopravvissuto al suo tempo. Lo affascinava, e al contempo lo angosciava, l’idea della perdita; l’entropia come legge fondamentale dell’universo.
Vorrei poi evidenziare la questione della contemporaneità con cui leggeva gli oggetti qui esposti: la sua messa in scena della figura lo portava a realizzare una rappresentazione del mondo che sembrava impossibile trattenere per il suo sgretolarsi nel tempo e nello spazio; attraverso l’arte, qualcosa che, per quanto corrotto come un reperto, potesse rimanere per sempre. Le forme di Giacometti qui si presentano, senza provocazioni inutili, in una logica di simultanea e discontinua alternanza con l’arte antica senza sottostare a vincoli di continuità cronologica. Si passa dal passato al presente con una vicinanza di contenuti che paiono imprevedibili, ma questo, in fondo, è il prodigio dell’opera di Giacometti.
Quale visione accoglieva come eredità, quale linguaggio recuperava e che interesse suscitava in Giacometti? Nelle sue figure si va ben oltre la mera citazione…
Non c’è mai in lui la citazione. Forse la troviamo quando disegna velocemente copie di opere antiche, ma sono uno strumento per riuscire ad entrare in comunicazione con l’antico. Guardando al passato, vuole sforzarsi di penetrare il segreto della rappresentazione del mondo. Agisce attraverso una sorta di estetica del fallimento che ha avvertito la decadenza del tempo e dei tempi.
Le sue figure esili, che paiono in sgretolamento progressivo, dove trovano l’energia per trasmettere un’intensità tanto forte a corpi che paiono decomporsi davanti ai nostri occhi?
Le opere sono accidenti come altri, ci si avvicina alla scultura come si guarda alla verità delle cose, alla verità del mondo stesso. Da qui l’idea di un tentativo, vano, di resistere all’usura del tempo, alla corrosione dello spazio. Le sue fragili e deboli figure vogliono estorcere un segreto con il loro stare in bilico sullo spazio implausibile di un crinale – inteso come un luogo imprendibile che separa un al di qua da un al di là – dove si dividono vita e morte, spazio e tempo, luce e buio. Verità e non verità.
Interessante questo concetto di crinale…
Lui è un bregagliotto, si potrebbe dire che sia un grande artista di montagna e il senso del crinale gli è ben chiaro. Dov’è? Una linea che ti pone in bilico, come tutta la sua scultura. Ha la sindrome del crinale: nel modellare aggiunge e sottrae. Se si ferma non è giunto alla verità dell’opera, ma se va oltre l’opera stessa gli si disfa in polvere nelle mani. Tra questi due estremi c’è la verità dell’opera, una cosa che, in fondo, non si raggiunge mai: un crinale.
L’allestimento ha una regia di raffinata qualità: tutto bianco. Una bolla senza spazio e senza tempo dove le sculture, grandi e piccole, sembrano sospendersi. Quanto conta un allestimento tanto radicale nella comprensione dei contenuti stimolanti – vere e proprie emozioni – che la mostra trasmette?
È fondamentale. Abbiamo avuto reazioni positive, è stato accolto bene nella sua radicalità. La scelta la si deve ancora a Chiara Gatti, perché volevamo si potesse avere un senso di simultaneità senza avere confini o barriere cronologiche. Non si voleva passare da un evento all’altro, ma avere una visione unica, completa nella sua complessità. Così si osservano opere in una sorta di istantaneità, che lascia loro la possibilità di aprirsi e svelarsi o di mantenersi salde nel loro segreto e mistero.
Lo spazio bianco creato annulla le distanze fisiche dell’ambiente e quelle delle coordinate temporali. Un bianco totale che – merito del giovane architetto Maurizio Bosa che ha interpretato le nostre richieste – da fisico diventa etereo silenzio. L’esito lo trovo davvero geniale.
La mostra vanta alcuni prestiti considerevoli, come siete riusciti ad ottenere opere delicate e tanto importanti?
I prestiti hanno sempre come presupposto il buon nome del museo che li chiede e, modestia a parte, la competenza, la serietà e la professionalità dei curatori coinvolti. Istituzioni importanti prestano poco o niente in assenza di idee forti. Qui avevamo dalla nostra anche il progetto basato su una lettura originale e attenta; scientifica come osservavamo prima.
Non solo arte etrusca come si potrebbe pensare, ma anche arte neolitica, egizia, classica e anche etnica, come si rapporta questo insieme tanto eterogeneo?
Non per somiglianze eclatanti, ma per assonanze intuitive. Ricostruendo il percorso biografico di Giacometti abbiamo cercato di proporre quelle giuste concordanze che anche gli stessi visitatori avrebbero saputo cogliere e comprendere.
Se pensiamo alla scultura immaginiamo sempre qualcosa di imponente, qui ci sono però piccolissimi tesori di Giacometti in scala ridotta, quasi fossero tascabili. Cosa ci dice di questi lavori forse poco conosciuti, so che hanno una storia particolare?
C’è un aneddoto: sul finire della guerra, dopo essere stato bloccato a Ginevra, prima di ripartire per Parigi, incontra Albert Skira che gli chiede se avesse già spedito le sculture in Francia. Giacometti risponde all’editore di averle con sé ed estrae dalle tasche dei piccoli capolavori contenuti in scatole di fiammiferi. Sono sculture tascabili, da viaggio. Ma queste sculture minime – guardando oltre l’aneddoto divertente – fanno parte della sua logica dell’entropia: ritroviamo il rapporto conflittuale tra la corrosione e quanto le resiste. Le sue sculture sono gli scheletri di anime, vi troviamo sempre ciò che resta dell’anima. Rispettando la somiglianza con il modello, queste opere sono anche nuclei di resistenza fisiognomica. Qualcosa di irriducibile.
Negli ultimi anni si sono ripetute differenti mostre dedicate a Giacometti, come valuta tanta attenzione nei confronti di questo autore?
Nel 2001 si è celebrato il centenario della nascita, forse, da allora si è riacceso un interesse critico sulla sua figura. Piace semplicemente perché resta un figurativo che – lo accosterei a Bacon in pittura – ha aperto alla figurazione una via nuova fatta di presenza e assenza. Non si sa se le figure sono in epifania o in aphanesis. Giacometti è poi vicinissimo alla sensibilità contemporanea che vede la figura in profonda crisi; allora ci avviciniamo a lui sapendo che quelle immagini appartengono ai nostri tempi.
Cosa ha in più la mostra di Nuoro?
Ha un’anima, ha un concetto. Non è una sola esposizione di opere. È una mostra.
A un passo dal tempo. Giacometti e l’arcaico
a cura di Pietro Bellasi e Chiara Gatti
24 ottobre 2014 – 25 gennaio 2015
MAN – Museo d’Arte Provincia di Nuoro
via Sebastiano Satta 27, Nuoro
Orari: tutti i giorni 10.00-13.00 e 15.00-19.00, lunedì chiuso Ingresso intero €3.00; ridotto 18-25 anni €2.00; gratuito under 18 e over 65 e ultime domeniche del mese; biglietto unico MAN-TRIBU €4.00
Info: +39 0784 252110
nuoro.museoman@gmail.com
www.museoman.it