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ROMA | Museo di Roma di Palazzo Braschi | 17 marzo – 7 maggio 2023

Intervista a Carlo e Fabio Ingrassia di Roberto Lacarbonara

Guardare all’opera di Carlo e Fabio Ingrassia (Catania 1985) – radunati accanto a una grande lente di ingrandimento, che amplifica i pochissimi millimetri dello spazio pittorico su cui stanno intervenendo all’unisono con pastelli dalle punte affilatissime – significa assistere all’emersione del carattere segreto di un’immagine, la sua componente inaccessibile e fuori dal linguaggio. Un’eccedenza che va oltre la diade barthesiana – studium / punctum – per accedere all’eventum, all’accadere dell’immagine intesa come il suo “cadere presso”, la possibilità vitale che essa accada oppure no. È la differenza – decisiva – tra l’essere davanti a un paesaggio oppure dentro. Carlo e Fabio Ingrassia operano sulla soglia dell’evento, agendovi dall’interno, conducendoci nella sua pienezza d’essere.
Forse le parole di Pessoa – “È in noi che i paesaggi hanno paesaggio” – non hanno solo il carattere di una suggestione lirica, bensì pongono la condizione stessa del vedere. Un paesaggio è tale soltanto se accade, se passa dallo stato di esteriorità a quello di segreta intimità. Solo allora può toccarci e coinvolgerci.
Parlando della pratica dei gemelli Ingrassia – in occasione della presentazione della mostra a Palazzo Braschi di Roma, ideata e prodotta dalla Quadriennale fino al 7 maggio 2023 – Michelangelo Pistoletto ha fatto ricorso al carattere essenziale, primordiale e radicale della loro opera: “personalmente la considero un’arte “radicale”, che cioè arriva alla radice. Radice nel senso del seme che, germogliando nella terra, crea l’albero, il cui seme ricadrà nella terra. Devo dire che davanti all’opera dei gemelli Carlo e Fabio Ingrassia ritrovo questa radicalità”. Un aspetto che rivela il carattere fenomenico dell’immagine, la sua componente quasi-organica, il suo stanziarsi nella profondità della vista e della vita interiore, così come emerge nel fare pittorico di due autori inestricabilmente legati nel pensiero, nella pratica e nella genetica.

Lentino contafili e lente di ingrandimento sono gli strumenti per una visione ravvicinata, per “entrare nella materia” della pittura. Eppure, “disegniamo ciò che pensiamo, non ciò che vediamo”, avete sempre affermato. Cosa accade dunque tra la visione e il segno?
C’è forse un’attitudine particolare ad andare oltre il senso del luogo, nella sua scala dimensionale ascendentale, il disegno ci permette la materializzazione concettuale di qualsiasi cosa e la sua leggerezza ci permette qualsiasi scambio, agisce come un segnale piuttosto che come un segno.

Carlo e Fabio Ingrassia, il tavolo del loro studio

Nel vostro lavoro la creazione dell’opera ha i caratteri dell’evento naturale, sismico e geologico, piroplastico. Procedere per accumulazione di colore e segni, sedimentando, sovrascrivendo. Quale incidente è all’origine dell’opera?
Procediamo per sistemi di sviluppo, abbiamo degli ordini, noi li chiamiamo registri. Tutto ciò che c’era di diverso è stato convertito e assorbito in un’unica e medesima sostanza dalle vaste superfici di un monocromo scintillio, una specie di colore sfumato di un’unità trasparente, neppure una parola è rimasta fuori. È un regno a due dimensioni che ha la stessa sostanza, ne più e ne meno delle parole, dei sentimenti e delle riflessioni.

La vostra pratica artistica è complementare – c’è completamento – ma anche fatta di negazione – c’è nascondimento di qualunque segno-forma-stile autoriali. Come avviene il coordinamento nello spazio dell’opera e nello spazio circostante (il foglio, la scrivania, lo studio, la casa…)?
Il coordinamento avviene per brevi distanze, in circostanze utili. I nostri ruoli ruotano continuamente, non sono mai individuali bensì individuati, predisponendoci fisicamente rispetto all’opera, ci muoviamo attorno a un punto. Abbiamo sempre lavorato in un ambiente domestico, i nostri ricordi sono tutti su quel tavolo da lavoro di casa che certamente noi conosciamo entrambi da più tempo, anche rispetto a nostra madre.

Quasi sempre le opere hanno titoli profondamente evocativi e narrativi, innesti lirici e poetici. Che ruolo ha la scrittura o la parola nel compimento dell’immagine?
Abbiamo sempre voluto, cercato un titolo che non spiegasse o descrivesse il lavoro, ma che “possibilizzasse” delle possibilità evocative, immaginifiche.

Carlo e Fabio Ingrassia, 2012-2013, Astrazione Novecentista(CasaRossa), pastel on paper 9 x 9 cm, courtesy Fondazione La Quadriennale di Roma, ph. Carlo Romano

Il formato del disegno è sempre estremamente contenuto. Un’esigenza tecnica, estetica o percettiva?
Più di così non potevamo avvicinarci, disegniamo scolpendo. Il nostro è uno statuto ontologico, ha esigenze etiche: aggiungere, registrare, riprodurre.
Il disegno scopre il suo carattere e rivendica a se stesso l’autorità di farsi riconoscere, è fatto di materia, ma è la materia che ha la forma del quadro.

Che cosa esige un’immagine per trovare il suo posto nel mondo e non esser soltanto l’immagine-di?
Immaginare piuttosto che fare immagine.
Il nostro lavoro non è mai simbolico, semmai sarà sintomatico. Nel lavoro è molto presente la fatalità, ma è completamente assente la casualità. Osservazione razionale: ci si può avvicinare attraverso un tipo di contatto che nella cultura islamica viene definito “immaginale”.

Carlo e Fabio Ingrassia – Rinunciare all’idea di un altro mondo, 1669-2016, Piroclasto (Vulcanic bomb) 43 x 27 x 21 cm, glass 180 x 98 x 22 cm, ph. Andrea Rossetti

L’opera Rinunciare all’idea di un altro mondo racconta molto della vostra storia, dell’origine catanese, del paesaggio e dell’energia in esso contenuto. Ma qual è la “rinuncia” che il titolo evoca? L’altro mondo è un po’ anche il mondo dell’altro?
Non ci sono accenti linguistici. Rispondiamo alla domanda citando Borges quando dice “il sogno di uno fa parte della memoria di tutti”.

Guardando alla pratica di Boetti, avete ridiscusso il tema del doppio ribaltando il dispositivo di duplicazione specchiante e riconducendolo a inestricabile unità. Laddove era la messa in scena di un doppelgänger, di una intima differenza nel cuore dell’io, in voi c’è riduzione del doppio a unità. Cosa ne è della differenza, della distanza, del dissenso?
La differenza è implicita nel nostro gemellaggio, è in questo contatto con l’altro che ognuno di noi ritrova se stesso, noi non guardiamo il nostro sguardo. Il nostro è un odio amoroso, un amore odioso. Gli scontri per noi sono indispensabili per mantenere in vigore funzioni logiche. L’autenticità dell’opera così come quella dei sentimenti avviene nei momenti nodali, nelle situazioni conflittuali. Ciò che uno dei due vorrebbe aggiungere gli viene respinto e ciò che l’altro vorrebbe respingere gli viene imposto. Questa logicità della percezione viene vista da entrambi attraverso un fenomeno di collisione del vicino e del lontano, che chiamiamo “fenomeno d’accelerazione”: è l’esistenza di un nostro sistema che si mette in moto e allo stesso tempo l’impossibilità di accelerarlo, un “tempo identico”. Il nostro disegno ha desiderio di paternità che non gli verrà mai riconosciuto, è una continua ricerca di se stessi, una lotta all’ultimo sangue.

 

Paesaggio / Carlo e Fabio Ingrassia
nell’ambito di Quotidiana
ideato e prodotto dalla Quadriennale, in collaborazione con Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali

Museo di Roma di Palazzo Braschi

17 marzo – 7 maggio 2023

Info: www.carloefabioingrassia.com

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