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Intervista a GIULIA IACOLUTTI di Livia Savorelli

Artista dalla vivace creatività che non disdegna alcun medium, Giulia Iacolutti classe 1985 manifesta una particolare attenzione alle tematiche sociali con uno sguardo tra il fotodocumentaristico e la ricerca sociologica che si concentra prevalentamente sulle minoranze, sul diverso che viene stigmatizzato dalla società. E con un’innata sensibilità, attraverso la fotografia ma anche il libro d’artista, racconta queste storie considerate, per i più, marginali. Un modo di andare oltre a quell’assuefazione alla violenza, della quale queste storie sono intrise, riattivando quella fondamentale empatia al dolore, senza la quale l’uomo sempre più privato della capacità critica sprofonda in baratro senza fine, quello dell’indifferenza. Ripercorriamo con l’artista, i tratti più salienti del suo percorso, con uno sguardo particolare al suo ultimo progetto, Casa Azul.

Giulia Iacolutti, Casa Azul, veduta allestimento studiofaganel, Gorizia. Foto © Alessandro Ruzzier 2019

Nasci come fotografa documentarista ed è evidente questo particolare sguardo anche nella tua ricerca da artista visuale. Nel 2014, vinci un bando europeo e ti trasferisci per quattro anni in Messico. Si tratta di un periodo molto intenso, ci racconti i tratti più salienti di quest’esperienza? Quale è stato il tuo approccio da artista a questa realtà?
In principio nasco come economista dell’arte, per poi decidere di associare la grande passione, la danza, a un’attitudine, la fotografia, e lavorare per anni dietro le quinte dei teatri, convinta che la vita fosse una continua rappresentazione scenica. Eppure la disposizione alle tematiche sociali mi ha spinta verso il fotodocumentarismo, e il desiderio di narrare la complessità delle storie che incontravo mi ha portata fino a qui, all’utilizzo di un linguaggio poetico, artistico che non per forza si limita alla fotografia, ma tocca anche il ricamo, la performance, la scultura e l’arte relazionale. In Messico ho dato via a questa ultima trasformazione sostenuta da esperienze, studi e riflessioni; qui ho lavorato principalmente su due temi che hanno influenzato il processo creativo: l’uso delle immagini di violenza e la costruzione identitaria delle minoranze.

Giulia Iacolutti, Casa Azul

Le immagini di violenza sono ampiamente utilizzate dai media: le fotografie pubblicate sono spesso cruente ed esplicite. Essendo il Messico uno dei tre paesi più violenti dell’America Latina, ho riflettuto sull’impatto psicologico che colpisce non solo le famiglie delle persone coinvolte, ma anche la collettività, e sulla possibilità che mostrare violenza promuova la stessa o, al contrario, la normalizzi. Max Horkheimer, in “Critica della ragione strumentale”, sottolinea come uno dei problemi della razionalità moderna sia la confusione tra mezzo e fine, un problema ancor più rilevante quando si valuta l’utilità o la possibile censura di tali immagini. La manipolazione porta a una spettacolarizzazione della realtà, che a sua volta genera confusione nella distinzione tra reale e fantasia. Michela Marzano chiama questo fenomeno “horror reality”, condizione che non genera riflessioni, ma anzi, paralizza il pensiero e la propria capacità critica, rafforzando uno stato di indifferenza generale.
Allo stesso tempo, mi sono resa conto che in Messico c’era una forte ridondanza di alcune questioni, in primis il narcotraffico, che mettono in ombra storie di minoranze altrettanto importanti. Consapevole che l’espressione artistica, quando è connessa a problemi sociali, diventi uno strumento di comunicazione e denuncia, ho iniziato a concentrarmi sulla ricerca di storie di vita di persone stigmatizzate per la loro identità, per offrire una posizione critica di fronte a strutture invisibili o poco evidenti, creando un sistema di rappresentazione e di registro, organizzando materiali diversi legati tra loro dalla sincronia narrativa e cercando una responsabilizzazione consapevole dello spettatore attraverso non solo il visivo, ma anche grazie al tangibile e all’azione stessa. Così, dalla fine del 2014, ho lavorato sulla sparizione forzata dei 43 studenti della Scuola Normale di Ayotzinapa, sui processi di conversione all’Islam nelle comunità indigene del Messico meridionale e con donne transessuali incarcerate nel Penitenziario Maschile di Città del Messico.

Giulia Iacolutti, Casa Azul

Le tue narrazioni si nutrono dell’indagine socio-politica, con un particolare sguardo alle lotte di resistenza identitaria. Come nasce il progetto Casa Azul che ha come protagoniste cinque donne trans recluse in un carcere maschile? Quale è stato il tuo approccio a questo mondo e come hai deciso di rappresentarlo in fotografia?
Casa Azul è una ricerca socio-visuale iniziata nel 2016 e sostenuta dal Laboratorio Multimediale per la Ricerca Sociale dellʼUNAM (Università Nazionale Autonoma del Messico). Il progetto nasce dall’incontro con una sociologa, la dottoressa Chloé Constant, che nel 2015 stava ultimando il suo post-dottorato sui processi di transizione MtoF all’interno delle carceri maschili della capitale. Concordi sull’importanza di raccontare tale realtà, ci interrogammo su come rendere accessibili le sue ricerche, normalmente rivolte a un ambito prettamente accademico. Decidemmo così di associare alle interviste le fotografie e le registrazioni audio, linguaggi più facilmente distribuibili sui media. Dopo un anno di richieste respinte dal sistema penitenziario, riuscimmo a entrare proponendo un corso di redazione letteraria, rivolto esclusivamente alla popolazione trans del Penitenziario di Santa Martha Acatitla. Il corso consisteva in dieci incontri da tre ore ciascuno, di cui cinque con macchina fotografica.
I limiti pratici incontrati nell’investigazione mi misero nella condizione di trovare forme narrative diverse dal reportage classico: alla ricerca sociologica e giornalistica decisi di accostare l’espressione artistica, incontrando la poetica più idonea a descrivere la complessità delle testimonianze ascoltate.
In Messico, le persone detenute in un carcere maschile sono obbligate a vestirsi di blu; quando scoprii che le donne avevano soprannominato il carcere la “Casa Blu”, capii che il colore aveva un’importanza simbolica preponderante, diventando così forma. Optai allora per stampare le fotografie in cianotipia, antico metodo di stampa fotografica a contatto, caratterizzato dal colore blu di Prussia.

Giulia Iacolutti, Casa Azul

In un recente workshop “virtuale” – intitolato Femminismo, politica e impresa sociale e organizzato dall’Università di Bolzano hai fatto una dichiarazione molto interessante, che mi piacerebbe approfondissi, soprattutto in relazione ai temi toccati da Casa Azul: “è la società stessa che, nel momento in cui ci discrimina, ci fa sentire dei reclusi”….
In uno degli scritti redatti dalle donne durante gli incontri, Frida dichiara di sentirsi più libera in carcere dove, supportata dalle sue amiche, può concludere il processo di transizione, piuttosto che in una famiglia cattolica o in mezzo a una società discriminante. Quando lessi questa frase, che stravolge il pensiero comune secondo cui il carcere sarebbe un luogo di reclusione e oppressione, decisi di associare alle cianotipie delle immagini al microscopio di cellule prostatiche sane, originariamente tinte di rosa, attraverso la procedura di colorazione con ematossilina-eosina utilizzata in istologia. L’uso dei colori stereotipati di genere, codici visivi culturalmente compresi, infatti tende a una riflessione più ampia sul concetto di uguaglianza e sul carcere come metafora di una società fondata sul binarismo uomo/donna, che inibisce la concettualizzazione di altri generi o il riconoscimento del diritto all’indeterminatezza di genere. Se il blu evoca allora l’esterno e l’identificazione passiva, il rosa parla dell’interno, del sé e dell’autodeterminazione.

Giulia Iacolutti, Casa Azul, libro. Foto © Alessandro Ruzzier 2019

Il progetto Casa Azul è diventato mostra (realizzata lo scorso anno da studiofaganel di Gorizia in collaborazione con “Premio Sergio Amidei”) e libro d’artista (nato dalla collaborazione italo-francese delle case editrici studiofaganel editore e TheM éditions), tra l’altro recentemente premiato come “miglior libro d’artista” al Premio Marco Bastianelli 2020. Come hai concepito la struttura del libro, nella scelta delle immagini e delle storie narrate, nel bilanciamento dei due colori dominanti il blu (quello delle divise) e il rosa (delle pagine che si susseguono ai pensieri delle cinque protagoniste), nella scelta della carta…?

Giulia Iacolutti, Casa Azul

Ho sempre immaginato Casa Azul in forma di libro, dai primi appunti sul taccuino disegnavo un ipotetico layout, dove inserire le immagini che man mano stavo scattando. Nell’edizione pubblicata, la messa in sequenza delle fotografie riproduce il metodo di avvicinamento adottato: se inizialmente chiedevo loro di posare di spalle, cercando un’ambiguità tra le fattezze di un corpo stereotipato maschile e i gesti stereotipati femminili, poi mi sono dedicata agli oggetti di natura femminile (trucchi, orecchini, ormoni, etc…) proibiti in un carcere maschile. Solo attraverso la corruzione della dogana le donne riescono a ottenerli e portarli con sé, come se fossero armi identitarie di genere. Mi sono poi ispirata alle fotografie segnaletiche introdotte da Alphonse Bertillon, ovvero il tipico ritratto a mezzo busto, su sfondo neutro, ripreso sia di fronte che di profilo, per poi riflettere insieme a loro sull’autorappresentazione, fotografandole in pose libere.
La struttura narrativa-testuale del libro segue un criterio simile: i manoscritti presenti a fianco alle fotografie rosa raccontano i primi sentimenti omossessuali, la discriminazione subita sia in famiglia che nella società, per poi passare all’interno del carcere e agli abusi sofferti per mano dei detenuti e dell’istituzione stessa; il libro si conclude con il concetto di libertà espresso da Frida e da una frase di America: “Come se con un paio di tacchi io potessi volare e scappare via”.
A fianco ai ritratti, si possono leggere invece le storie di vita di ciascuna, redatte ascoltando le interviste fatte dalla Constant; sono divise tutte in tre paragrafi: vita prima del carcere; delitto commesso; esperienza in carcere. Solo America ha quattro paragrafi, essendo stata scagionata un anno prima della pubblicazione.

Giulia Iacolutti, Casa Azul, libro. Foto © Alessandro Ruzzier 2019

La particolarità del libro consiste nella doppia rilegatura presente al centro del volume, che pare rompersi: il volto blu di Martina è spezzato e oltrepassato dal retro color rosa del dorso. Questa spaccatura ha molteplici funzioni: richiama il binarismo, il fuori e il dentro; divide i manoscritti da prima e dopo l’ingresso nel carcere, ma anche parla di una donna che la domenica è costretta ad assumere sembianze maschili per non deludere i genitori che la vanno a trovare, e che non accetterebbero la sua vera identità.
Ritenendo il libro un mezzo che valorizza il contenuto anche attraverso i materiali, il lettore può essere condotto in questa storia parimenti tramite il tatto: la copertina è in tessuto, il titolo fa infatti riferimento all’abbigliamento delle detenute, e i manoscritti delle donne sono stampati su una carta leggera semitrasparente di 60gr, che evoca la fragilità della condizione vissuta.

Giulia Iacolutti, Casa Azul

Quali progetti ti vedranno impegnata nel prossimo autunno?
A seguito della pandemia la maggior parte delle mostre previste per quest’anno sono state posticipate: le cianotipie originali a ottobre viaggeranno verso l’Accademia di Belle Arti di Vilnius, come parte della collettiva Ricerca dell’identità (al tempo del selfie), curata da Giuliana Carbi Jesurun e Gabriella Cardazzo; successivamente Casa Azul si sposterà a Zurigo, per la collettiva Diversity. The Future is Female, curata da Christiane Hoefert, per la galleria Stephan Witschi. A giugno 2021, invece, verrà interamente esposto presso il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, in una personale curata da Giulia Zorzi.
Desidero anche anticipare che a gennaio, presso la galleria Studio Tomaseo di Trieste, esporrò in una personale, curata nuovamente da Giulana Carbi Jesurun, I don’t care (about football), un progetto di arte relazionale sul tema calcio e psichiatria, iniziato due anni fa all’interno di una residenza psichiatrica di Udine. La mostra sarà prodotta grazie al sostegno dell’organizzazione indipendente Codici Ricerche e Intervento, che ha recentemente premiato il lavoro come miglior ricerca da raccontare 2020.

Giulia Iacolutti, Casa Azul

Mi piacerebbe chiudere questa intervista con un tuo pensiero, da donna e da artista, sul difficile momento che stiamo vivendo…
Il momento che stiamo vivendo coincide con la mia gravidanza, da cui mi è impossibile prendere le distanze nell’analisi degli eventi e trovando immediato il parallelismo tra le condizioni. Come nella gestazione, l’attesa e la cura sono state le grandi alleate dell’isolamento, che ci ha imposto di fermarci e accettare una presunta non produttività, finalizzata ad un mutamento volto al benessere collettivo. Mi auguro allora che l’attesa e la cura diventino pratiche comuni per una produzione più consapevole e per un’arte politica e attiva che scuota il pensiero critico. Che la nostra diventi una protesta poetica, intrisa di speranza, desiderio e determinazione verso un cambiamento reale, anche nelle questioni di genere.

Giulia Iacolutti, Casa Azul, veduta allestimento studiofaganel, Gorizia. Foto © Alessandro Ruzzier 2019

Giulia Iacolutti (1985) fotografa e artista visuale, si dedica principalmente ai suoi progetti personali tra l’Italia e l’America Latina. Oltre alla fotografia, utilizza differenti linguaggi e supporti per esplorare temi di natura socio-politica relazionati alle lotte di resistenza identitaria. Il suo lavoro è stato esposto in Argentina, Bolivia, Colombia, Italia, Lituania, Messico, Spagna, Svizzera e Stati Uniti. Tra gli ultimi riconoscimenti la nomina al Foam Paul Huf Award, il premio FVG Fotografia 2019 del Craf e il premio nazionale Miglior Libro d’Artista M. Bastianelli. L’artista è rappresentata da studiofaganel di Marco Faganel e Sara Occhipinti.
www.studiofaganel.com

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