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TORINO | Castello di Rivoli | 6 marzo – 27 maggio 2018

di MICHELE BRAMANTE

Il prestito a lungo termine concesso dalla collezione Cerruti al Castello di Rivoli ha permesso la rara occasione di osservare alcuni capolavori metafisici di de Chirico, in una mostra che cerca il dialogo con le opere contemporanee della collezione permanente del Museo, per suggerire richiami e relazioni a distanza, sensazioni che dalla pittura divinatoria di De Chirico sono discese alle visioni stranianti sul mondo dell’arte più recente.

Le opere esposte ricordano come la partita estetica della prima metà del Novecento non fosse dominata dalle sole tendenze di derivazione cubista e dalle poetiche dell’oggetto e del concetto di ascendenza duchampiana.
De Chirico è la terza corona del secolo, e le suggestioni dei suoi dipinti rimangono un’esperienza imprescindibile per l’arte europea dagli Anni Dieci in avanti. Pur comprendendolo, i surrealisti vollero sciogliere i suoi enigmi trovando il senso delle apparizioni nel lavoro di un inconscio sorgivo, sentito come principio ordinatore delle atmosfere visionarie che preludevano a verità superiori.

De Chirico, in quell’ora immota e fatale di piazza Santa Croce a Firenze, aveva invece percepito qualcosa di molto più terribile delle pulsioni soggiacenti alle alterazioni della realtà. L’enigma di quell’illuminazione fiorentina era già un destino compiuto, e a nient’altro rinviava se non allo stordimento del nulla urlato dallo spazio circostante, da cui era partito il suono più pungente che possa trafiggere lo spirito, sottile come il raggio dell’Annunciazione, ma dotato del micidiale potere di annullare il senso dell’esistenza. Nietzsche, spesso invocato dal pittore per quel sentimento melanconico dei pomeriggi d’autunno che solo lui dichiarava d’aver compreso, non rappresenta la scoperta del dionisiaco, ma l’infatuazione per l’apollineo, per il nitore delle forme che giungono alla massima intensità di apparizione nello stesso momento in cui fanno vibrare il vuoto di senso nelle apparenze. De Chirico aveva sviluppato quell’attitudine allo sguardo teatrale suggerita dal filosofo tedesco per intuire la finzione che attraversa il reale da parte a parte. La facciata di Santa Croce, l’ampio spazio della piazza, la statua di Dante, tutto gli era sembrato una grande scenografia per comparse dalle ombre lunghe, lente, maestosamente prive d’ogni scopo percepibile pur nell’aria cristallina che amplifica anche i suoni più lontani, come nel silenzio del teatro.

Giorgio de Chirico Il saluto degli Argonauti partenti, 1920, tempera su tela, Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte Deposito a lungo termine. Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino © Giorgio de Chirico, by SIAE 2018

Giorgio de Chirico. Il saluto degli Argonauti partenti, 1920, tempera su tela, Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte Deposito a lungo termine. Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino © Giorgio de Chirico, by SIAE 2018

Anche gli argonauti posano nudi, come tutti i miti, su una scena allestita per l’atto della loro partenza. Il fondale luminoso con il tempio classico, le ombre portate da luci calde e radenti provenienti dai fari puntati sul proscenio, le prospettive fittizie come nel Teatro Olimpico del Palladio, le citazioni mitologiche di un dio fluviale e le pose dei personaggi mutuate dal classicheggiante Max Klinger, concorrono a trasfigurare un mondo illusorio e ambiguo, non vero e nemmeno apparente, come nell’aforisma nicciano del mondo trasformato in favola. Il cosmo dechirichiano è un teatro senza creatore.

Da questo universo spettrale, sospeso tra il nulla e l’apparenza, attraversato dagli echi del non senso della vita, guardano verso di noi delle figure antropomorfiche, quasi umane. La suggestione dei manichini proviene dal fratello Savinio, che ne I canti della mezza morte fece comparire i suoi personaggi senza voce, senza occhi, senza volto. Nei dipinti di De Chirico, essi non si lasciano solamente rivelare da quello sguardo chiaroveggente che scopre l’irrealtà delle cose. Tenuti in piedi come impalcature sceniche, abitanti ideali di quelle visioni, hanno teste dolcemente reclinate dalle quali rivolgono, al di quà della tela, un’attenzione curiosa, ma vuota e priva di psicologia.

Gli interni metafisici nascono nella congiuntura perfetta di inizio Novecento tra scetticismo filosofico e indagine sulla pittura e sullo statuto ontologico dell’immagine. Per tutto il secolo precedente la filosofia aveva dubitato della possibilità di cogliere nel suo fondamento la verità. In pittura, il cubismo metteva in crisi lo spazio illusorio della prospettiva portandolo in tensione con la bidimensionalità oggettiva della tela. De Chirico, quindi, confondeva la rappresentazione con linee inclinate, regoli, cornici sghembe e ombre che, nell’accumulazione, non ordinavano uno spazio coerente, ma lo scomponevano secondo prospettive dai punti di fuga moltiplicati e disseminati, attraverso la convergenza di linee che disegnavano vaghe profondità subito deviate da altre rette oblique. Il gioco illusionistico del quadro nel quadro, gli accostamenti illogici di oggetti ordinari strappati all’ovvietà quotidiana, il rapporto irrisolto tra interno ed esterno concorrevano a falsare l’orientamento nell’immagine.

Pur congestionate e in precario equilibrio, le prospettive delle piazze e degli interni metafisici non sono totalmente aliene. Si frammentano, piuttosto, in volumi parzialmente coerenti, ancorché spostati rispetto all’organicità dello spazio cartesiano. Gli sbilanciamenti delle geometrie creano delle interferenze nella familiarità degli ambienti fino a provocare un’esperienza di straniamento che segna una trasformazione nella percezione ordinaria. In virtù della nuova finezza di intuito, il soggetto, l’artista, pur trovandosi in un luogo perfettamente conosciuto, comincia ad avvertirne l’estraneità, a scorgere un mistero nella logica soprannaturale dei rapporti tra le cose. È nello stato emotivo di questo dissesto che si apre la rivelazione della vacuità dei fenomeni.

Un altro filosofo, che non si può annoverare tra le fonti delle illuminazioni dechirichiane, descrive perfettamente questo sentimento metafisico di trasfigurazione della realtà. È la meraviglia di tutte le meraviglie, il quieto incanto che per Heidegger solo l’uomo, unico fra gli enti, può esperire non di fronte al modo d’essere del mondo, ma per il fatto miracoloso che esso, per intero, esista: che il mondo sia piuttosto che il nulla.

 

Giorgio de Chirico. Capolavori dalla Collezione di Francesco Federico Cerruti
a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria

6 marzo – 27 maggio 2018

Castello di Rivoli
Museo d’Arte Contemporanea
Piazza Mafalda di Savoia, Rivoli – Torino

Info: +39 011 9565222
info@castellodirivoli.org
www.castellodirivoli.org

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